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Autore: Adeia Di Elferas    29/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico il Moro gongolava nella sua palandrana leggera, mentre passeggiava con fare cospiratore sulla balconata.

Il cielo era grigio e un'aria fredda spirava da nord, ma al futuro Duca di Milano non importava un fico secco del freddo e della pioggia che rischiava di cadere da un momento all'altro

I bagagli erano pronti per partire alla volta di Asti, dove avrebbe incontrato Carlo VIII e i soldati che l'avrebbero scortato si stavano già preparando a mettersi in marcia.

Ludovico sollevò le possenti braccia e si stiracchiò soddisfatto per il suo operato. L'imperatore aveva preparato tutti i documenti necessari per riconoscere la dinastia Sforza a Milano, legittimandola una volta per tutte, scegliendo il nuovo Duca in modo accorto e preciso, così come da accordi.

Fargli sposare Bianca Maria era stato un colpo da maestro e il Moro poteva lodare solo se stesso per quella mossa strategicamente perfetta.

Anche se l'Imperatore all'inizio aveva avanzato qualche perplessità, dicendo che non poteva sollevare Gian Galeazzo così, senza motivo, Ludovico aveva avuto la testa abbastanza fina da trovare la soluzione giuridica più inattaccabile del mondo.

Si trattava di una sottigliezza a cui nemmeno Calco aveva pensato, ma Ludovico sì. E il Moro era talmente fiero del suo acume che ancora non riusciva a smettere il sorriso che gli illuminava il largo viso.

Quando lui era nato, aveva fatto presente all'Imperatore, suo padre Francesco Sforza era già Duca, mentre quando era nato Galeazzo Maria, suo fratello maggiore, Francesco non era ancora Duca.

Era un'assurdità, dal punto di vista logico, ma la giurisprudenza e la logica erano due cose diametralmente opposte il più delle volte e quel caso non faceva eccezione. A quel modo solo i discendenti del Moro erano da ritenersi di stirpe ducale, mentre quelli di Galeazzo Maria erano solo i figli di un figlio di un capitano di ventura come mille altri.

Così Ludovico, anche quella mattina settembrina, fresco della notizia che l'Imperatore aveva finalmente firmato le carte necessarie, quasi saltellava di gioia sotto gli ampi archi della balconata del suo palazzo.

Aveva insistito per aspettare a ricevere ufficialmente la nomina a Duca. Gli pareva scortese farlo, mentre Gian Galeazzo era ancora vivo.

“Mio signore – chiamò Calco, apparendo in fondo alla balconata – credo sia ora che vi vestiate per il viaggio...”

Ludovico indirizzò un gesto di saluto al cancelliere e lo raggiunse con passo baldanzoso: “Mio caro Bartolomeo – gli disse, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro – questo è l'inizio di una nuova era.”

Poi, come colto da un'improvvisa reminiscenza, il Moro prese sotto braccio il suo cancelliere e aggiunse, ancor più raggiante: “Dimenticavo di dirvelo! Mia moglie è di nuovo incinta!”

 

Nubi nere si alzavano su Rapallo, le cui mura erano appena visibili oltre la foschia della battaglia.

Si era trattato solo di una scaramuccia, un modo per saggiare la forza dell'esercito nemico, ma era bastato al contingente napoletano – poco numero e mal assortito – per capire che i francesi facevano sul serio.

Fregosino, Giulio Orsini, Rolandino Fregoso e alcuni Fieschi erano gli unici uomini che non si erano dati per vinti fin dal primo assalto.

Peccato che il resto della truppa, non ascoltando nemmeno le grida del carismatica Fregosino, si era arresa pressoché immediatamente e nel giro di poco i francesi avevano preso prigionieri tutti i comandanti napoletani e avevano fatto strage dei soldati semplici che si erano arresi.

“Scappiamo – propose Ibleto Fieschi, non appena lui e gli altri comandanti furono tradotti in un carcere di fortuna – adesso non credono che potremmo farlo, cogliamoli di sorpresa. Con un po' di fortuna, troveremo ancora una delle nostre navi al porto e riusciremo a tornare a Napoli.”

Giulio Orsini e Rolandino Fregoso parvero subito molto affascinati da quella proposta, tanto che entrambi presero a proporre piani di fuga.

Fregosino, seduto in un angolo, si pulì un po' di sangue mezzo secco dal viso con la manica del camicione e sputò in terra. Quando l'avevano preso, gli avevano dato un colpo in faccia così forte da spaccargli un dente.

Stava pensando a come sarebbe stato il suo ritorno a Napoli, se fosse davvero riuscito a scappare. Lo avrebbero considerato un fallito e un perdente, un comandante inutile che si arrende alla prima scaramuccia, ancor prima dell'inizio ufficiale della guerra. Sua moglie Chiara lo avrebbe disprezzato.

“Fate come volete – disse, quando gli chiesero se avrebbe tentato la fuga pure lui – io non vi tradirò, ma non verrò con voi. Voglio trattare la mia posizione con i francesi.”

Quando una guardia si affacciò alla grata della scalcinata cella, Fregosino l'apostrofò con il suo francese incerto, imparato grazie ai precettori prezzolati che il Cardinale suo padre gli aveva sempre messo alla calcagna da bambino, e gli disse di voler parlare di persona con Luigi, il Duca D'Orléans.

 

Giacomo Feo era rientrato a Forlì molto prima di quanto Caterina non si sarebbe aspettata. L'aveva fatto partire verso Mordano e Tossignano controvoglia, ma, per quanto desiderasse riaverlo al fianco, non riusciva a capire come avesse fatto a sbrigare tutte le sue consegne tanto in fretta.

“Non sono sicuro che mi abbiano ascoltato davvero – spiegò Giacomo, non appena si ricongiunsero, appena oltre al ponte levatoio di Ravaldino – ho ribadito le tue disposizioni, ma hanno sollevato molti problemi...”

Caterina apprezzò la franchezza del marito che, una volta tanto, ammetteva apertamente la sua inadeguatezza pur di evitare una catastrofe inutile.

Il Governatore Generale, che non aveva dato l'ordine di scaricare i suoi bagagli, si strinse nel mantello da viaggio di mezza stagione e, stringendo gli occhi sotto al sole di metà settembre, disse, a malincuore: “Vogliono vedere il Conte. Dicono che non muoveranno un dito se non ci sarà anche Ottaviano.”

Caterina, che aveva già pensato di andare di persona a Imola e dintorni lasciando suo marito e suo figlio a Forlì, a quelle parole vide aprirsi dinnanzi a sé uno scenario diverso. Doveva dare ai suoi sudditi quello che volevano, se voleva sperare in una loro collaborazione.

Le sue spie – e anche Bernardi – le avevano confermato che da Imola a Forlì il malcontento si stava spandendo a macchia d'olio. La paura per una possibile invasione si stava mescolando alla povertà delle messi di quell'anno e in molti stavano perdendo ogni fiducia in lei.

Volevano Ottaviano? Avrebbe dato loro Ottaviano.

Prese per una manica Luffo Numai, che stava al suo fianco, i libri contabili tra le braccia, la canizie che quasi riluceva sotto al sole, e gli ordinò: “Fate preparare mio figlio, che parta immediatamente assieme al Governatore Generale per dare disposizioni ai sudditi di Mordano e Imola.”

Numai chinò il capo e partì con passo incredibilmente spedito verso l'interno della rocca.

I pochi soldati che avevano accompagnato Giacomo, intuendo che la loro ripartenza era imminente, stavano mettendo le pastoie ai cavalli e sistemavano le selle e i finimenti.

Ignorando quello che succedeva attorno a loro, Caterina si avvicinò al marito e gli disse, a voce bassa: “Stai attento a Ottaviano. Cerca di non litigare con lui almeno per qualche giorno. Torna solo quando avrete fatto quel che dovete.”

Giacomo allungò una mano, senza riuscire a trattenersi, nemmeno quando notò una delle guardie, Gian Antonio Ghetti, che occhieggiava verso di loro. Passò con delicatezza la punta delle dita sulla guancia della moglie ed emise un breve sospiro spezzato.

“Lungo la strada abbiamo intravisto le colonne di fumo degli accampamenti dei francesi a Villafranca e Cotignola. Secondo gli osservatori, per ora si tratta solo delle prime colonne dell'avanguardia, ma...” la voce di Giacomo sembrava lontana e i suoi occhi tradivano una paura profonda.

Caterina si scostò, quando si avvide che Ghetti li stava ancora guardando, e disse, veloce: “La guerra non è mai facile, nemmeno quando si hanno i numeri per vincere.”

Il Governatore si atteggiò in modo sostenuto, rimesso a posto da quella massima che voleva ricordargli come fosse stato lui stesso a caldeggiare una loro scesa in campo. Forse, Caterina ne era convinta, non avrebbero comunque potuto evitare una situazione simile, ma la insistenze di Giacomo di certo avevano accelerato i tempi.

Ottaviano comparve nel cortile dopo quasi un'ora. Era pallido e indossava abiti scuri da viaggio, forse troppo pesanti per quel clima che a tratti aveva ancora il retrogusto dell'estate.

“Ti farai spiegare bene ogni cosa lungo la strada – gli disse la madre, tenendolo per le spalle e guardandolo negli occhi – non deludermi.”

Ottaviano, con la gola tanto secca da non riuscire a spiccicare parola, montò in sella a un baio che era appena stato condotto lì da uno dei soldati della scorta. Numai, che seguiva a breve distanza, aiutò l'uomo d'armi a fissare il bagaglio di Ottaviano alla sella del cavallo.

Caterina salutò il figlio con la raccomandazione: “Saluta tua nonna, Gian Piero e tua zia anche da parte mia.” e poi rivolse uno sguardo carico di significato a Giacomo, che, con un gesto fluido, salì sul suo cavallo e ordinò al corteo di ripartire.

 

Ludovico Sforza cominciava a ricordarsi cosa non gli piaceva della vita militare. Quando aveva aperto il vaso di Pandora della guerra non aveva calcolato con sufficiente attenzione la sua inadeguatezza alla vita campale.

Lo sgabello su cui si era sistemato era scomodo, il padiglione pieno di spifferi e il vino che stava bevendo aveva un sapore aspro che gli faceva fare una smorfia a ogni sorso.

Accamparsi ad Asti era stata una buona decisione, per organizzare l'esercito e re Carlo sembrava adorare il clima secca di quelle giornate settembrine. Solo, Ludovico avrebbe preferito essere a Vigevano a rimirare i suoi gelsi e le viti pronte per la vendemmia.

“Il re vi attende alla sua tenda, mio signore.” annunciò una delle guardie, mettendo un attimo la testa dentro il padiglione.

Ludovico ringraziò con un cenno del capo e abbandonò il pessimo vino che stava bevendo per andare da Carlo di Francia.

Quando arrivò nel tendone mezzo aperto in cui il re stava tenendo una delle sue adorate riunioni, il Moro si sentì ancor più fuori posto. I generali francesi indossavano quasi tutti l'armatura e parlavano tra loro strettamente, impedendogli di capire cosa si stessero dicendo.

L'unico italiano con cui Ludovico avrebbe potuto intrattenere una conversazione nell'attesa era Giuliano Della Rovere, ma il Cardinale stava accanto al re, annuendo a ogni sua parola. Le sue labbra erano sporte in fuori e i suoi occhi lampeggiavano interesse e il suo portamento, così affettatamente militaresco, in netto contrasto con la veste porpora che indossava, avevano il potere di tenere a distanza tutti fuorché Carlo.

Il re era intento a controllare una mappa spiegata sul tavolone che stava nel centro del padiglione e non degnò di uno sguardo Ludovico.

Mentre cercava un posticino un po' ritirato per non dare nell'occhio, in attesa che venisse anche il suo momento di avere un abboccamento con il re – sperando che quella volta riuscissero a trovare un linguaggio ibrido con cui comprendersi un po' di più – tutti i presenti si zittirono all'unisono, distratti dall'arrivo di due individui.

Uno, Ludovico lo riconobbe subito, era Luigi, il Duca d'Orléans. La sua armatura fregiata luccicava al sole e i suoi capelli d'un castano scuro molto particolare scendevano ai lati delle guance cadenti, dandogli un aspetto che sarebbe stato comico, se non fosse stato per l'aggressività dei suoi occhi.

Accanto a lui c'era un altro uomo, il cui volto era celato dal cappuccio. Ludovico strinse gli occhi, per cercare di capire chi fosse e solo quando Carlo salutò i due con il suo vocione chiassoso, il Moro ebbe l'illuminazione.

Ogni dubbio gli fu tolto quando il nuovo arrivato lasciò scivolare il cappuccio sulle spalle. Avrebbe riconosciuto Fregosino Fregoso ovunque.

Luigi annunciò che Fregosino era passato al soldo francese e che avrebbe dato il suo apporto alla causa, mettendo a servizio del re la sua conoscenza dei campi di battaglia italiani e le sue doti da stratega e da guerriero.

A Ludovico si stavano torcendo le budella. Aveva sperato per molto tempo che quel maledetto traditore fosse morto nel naufragio, poi aveva sperato che almeno se ne restasse rintanato nei sobborghi romani fino alla sua morte. E invece se lo ritrovava davanti.

Fregosino lo aveva visto subito e, dopo aver ricevuto le congratulazioni del re per il suo passaggio di bandiera, andò dal Moro. Lo guardò per un lungo istante, porgendogli la mano affinché gliela stringesse.

Vista la gran quantità di testimoni, Ludovico non poté rifiutare e, mentre stringeva le grosse dita attorno a quelle più sottili del figlio di sua nipote, Fregosino ebbe il coraggio di dirgli, in un soffio: “Ora siamo di nuovo alleati, che vi piaccia o no.”

 

Franceschino Beccaria era appena uscito dal salottino portando con sé la brocca di vino vuota.

Isabella lo aveva seguito fino alla fine coi suoi occhi iniettati di sangue per l'assenza di sonno. Non riusciva a evitare che quel coppiere portasse da bere a suo marito quando lei non c'era, perciò aveva cercato di vegliare Gian Galeazzo come meglio poteva, anche a costo di perdere le ore di riposo di cui avrebbe avuto bisogno nelle sue condizioni.

Si era addormentata seduta su una delle sedie di pelle, con il viso appoggiato al letto del marito, e quando si era svegliata, aveva visto Franceschetto prendere dal tavolo la brocca vuota e uscire in silenzio.

Gian Galeazzo sembrava lucido, anche se dolorante e, malgrado la fronte fradicia di sudore come il camicione, non sembrava nemmeno particolarmente in difficoltà. Tuttavia, se aveva appena finito di bere il vino portato dal suo coppiere, Isabella era certa che di lì a poco avrebbe avuto come minimo un nuovo accesso febbrile.

Doveva sfruttare quel breve momento di normalità, per far sì che suo marito capisse una volta per tutte cosa era necessario fare.

“Come stai?” domandò Isabella.

Gian Galeazzo aggrottò la fronte e si ripulì l'angolo della bocca con il dorso della mano: “Per ora mi sembra bene...”

“Perché hai bevuto da quella brocca? Ti ho pregato di non accettare nulla da quel coppiere...” disse la giovane, la voce un po' stridula per la stanchezza e la preoccupazione.

Il Duca sbuffò: “Avevo sete. Che vuoi che cambi, tanto?”

“Aspettiamo un altro figlio.” fece subito Isabella, che da qualche tempo aveva quel dubbio, ma che non aveva avuto il coraggio, mentre erano nel parmense, di sperare in una simile grazia.

Un altro figlio, soprattutto se maschio, avrebbe potuto ridare vigore alla loro causa e suo padre Alfonso avrebbe davvero messo a ferro e fuoco il mondo, pur di ridare il Ducato ai suoi nipotini.

Gian Galeazzo tossicchiò e si puntellò sui gomiti, con grande sforzo: “Un altro figlio?”

Isabella annuì in silenzio e lasciò che la prospettiva di diventare padre per la quarta volta facesse breccia nella mente di Gian Galeazzo. Se ripensava alle circostanze in cui avevano concepito quella nuova vita, non poteva fare a meno di provare rancore per il marito, che non le aveva portato alcun rispetto, ma ci sarebbero stati altri momenti, per le recriminazioni di quel tipo.

“Cosa dobbiamo fare?” chiese il Duca, che aveva finalmente metabolizzato la notizia, ragionando su come la nascita di un nuovo erede avrebbe potuto ridare speranza a lui e a sua moglie.

“Per prima cosa, caccia dal castello Franceschino Beccaria.” ordinò Isabella, perentoria.

“Mio zio non me lo permetterà.” obiettò Gian Galeazzo.

“Se non vuoi morire in questo letto – lo redarguì la moglie – richiama qui il tuo coppiere e mandalo via immediatamente. Altrimenti sarò io ad andarmene.” e per rafforzare la sua dichiarazione, la giovane si prese le gonne e si alzò di scatto dalla sedia.

Gian Galeazzo, con un guizzo sorprendente, si sporse da letto e la fermò, agguantandole un lembo dell'abito: “Va bene. Fai venire qui Beccaria, lo licenzierò all'istante.”

 

Caterina ruppe il sigillo con un suono secco e lesse in fretta la missiva che portava la firma di Raffaele Sansoni Riario.

'Cugina – aveva scritto, tralasciando i preamboli – Prospero Colonna ha preso per sé Ostia, strappandola agli Orsini, con un trattato ottenuto con alcuni fanti spagnoli che ne erano alla guardia, tradendo la nostra fiducia e la nostra amicizia. Ha innalzato subito il vessillo del re di Francia e del Cardinale Giuliano Della Rovere, nostra sventato cugino che già ci aveva traditi salpando per la Francia e lasciando noi qui in grandi ambasce. Una volta entrato con due soldati, Colonna ha minacciato il castellano, trovandolo solo, e ha dato il segnale a duecento dei suoi che sono entrati trovando la porta della rocca d'Ostia spalancata. Ha dato ordine, a quanto dicono, di far spianare la casa sua e di suo cugino Fabrizio in Roma e abbiamo tema che cominci a infastidire la città con scorribande. Questo per dirvi, cara cugina, che nemmeno il fronte romano è tranquillo. Ora che anche i Colonna sono per la Francia, non ci resta che sperare in Dio. State attenta.'

La Contessa lasciò cadere la missiva sulla scrivania e premette la punta delle dita sulle tempie, che pulsavano veloci. Quel tradimento era prevedibile, secondo lei, tuttavia perdere Ostia era per il fronte napoletano un grave colpo. I francesi stavano approfittando dei loro generali italiani per mettere in atto una serie di piccoli attacchi che avevano il potere subdolo e immenso di destabilizzare l'alleanza tenuta in piedi da Alfonso d'Aragona.

Sarebbe stata una situazione comica, se solo non fosse stata una catastrofe anche per lei. I francesi stavano lasciando agli italiani il compito di distruggersi tra loro, per poi fare la discesa in grande stile e radere al suolo un cumulo di macerie.

Tuttavia, Caterina non poteva cedere al fatalismo. Fece chiamare a sé Luffo Numai e gli ordinò di raggruppare i soldati più validi di Forlì e di inviarli insieme a Marco Antonio Giuntino a Imola, affinché i primi andassero a rinforzare la difesa della città e il secondo costituisse all'istante un banco di arruolamento per i contadini.

“Dite a mio figlio di dare ordine agli abitanti di Imola e dintorni di arruolarsi, lasciando perdere i campi. Dobbiamo ingrossare le nostre fila o saremo spacciati.” disse Caterina, parlando occhi negli occhi con Giuntino, prima di lasciarlo partire.

L'uomo si inchinò e, assicurata la spada al fianco, prese un cavallo e si avviò verso il quartiere militare, dove avrebbe radunato i soldati migliori prima di andare a Imola.

Fatto ciò, Caterina tornò nello studiolo del castellano e, presa carta e penna, scrisse la formale richiesta di un nuovo incontro con Ferrandino d'Aragona.

 

Bartolomeo d'Alviano si levò con sdegno l'elmo e puntò i piccoli e freddi occhi sul cognato, Virginio Orsini: “Questa è una notizia che non volevo.”

Virginio alzò la mani, come a dire che non era colpa sua, e disse, versando da bere all'altro: “Che vi devo dire? L'Auvergne sembrava proprio in vena di accettare, ma poi Sanseverino l'ha convinto a dirci di no.”

Bartolomeo prese il calice offerto dal cognato e fece segno a uno degli scudieri di portargli uno straccio per togliersi il sangue dal viso e dal collo. Bevve tutto d'un fiato l'acqua, benedicendo l'acume di Virginio. Dopo una battaglia durata tutta notte come quella che aveva appena vinto a Sant'Agata assieme a Giovanni Savelli, il vino non era il suo primo pensiero.

“Una sfida tra campioni sarebbe stata interessante, oltre che utile.” borbottò Bartolomeo, facendosi servire dell'altra acqua.

“Sanseverino ne sa una più del diavolo – commentò Virginio a denti stretti – piuttosto, c'era anche lui a Sant'Agata?”

Bartolomeo bevve, sempre più assetato. Si passò lo straccio umido datogli dallo scudiero sul collo e sulla faccia e quando lo guardò lo trovò completamente imbrattato di sangue.

Il vento che si stava alzando assieme al sole, scuoteva il padiglione e faceva troppo fracasso, secondo Bartolomeo. Voleva riposare, ma quel rumore glielo avrebbe impedito.

“C'era – fece, rispondendo finalmente a Virginio, che era in attesa – ma poi non s'è più visto. A quanto dicono è scappato, tornando a nord per prendere nuovi soldati e vettovaglie fresche.”

Orsini ridacchiò tra sé: “Mi è stato detto che li avete sbaragliati.”

“Questa era solo una scaramuccia.” fece notare Bartolomeo d'Alviano, cominciando a slacciarsi i nodi che tenevano insieme i pezzi dell'armatura: “Non è ancora iniziata, Virginio. Era solo un modo per saggiarci a vicenda. Pregate solo che i francesi non decidano di scendere tutti quanti in Romagna, o a casa vivi non ci torniamo.”

Virginio alzò un sopracciglio e prese un calice anche per sé, però colmo di vino: “Avete paura per Bartolomea?”

L'altro lo guardò di sottinsù e rise: “Sono i francesi che dovrebbero avere paura di lei.”

 
   
 
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