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Autore: Adeia Di Elferas    03/11/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Cosa farete con vostro figlio Bernardino?” domandò la cameriera personale della Contessa, mentre la strada sconnessa faceva sobbalzare la carrozza.

La serva osservava il profilo della sua signora, cercando di intuire cosa nascondesse il suo sguardo rivolto al paesaggio che le circondava. Stavano parlando di quello che sarebbe accaduto una volta che gli scontri si fossero fatti più accesi e la Contessa aveva assicurato che avrebbe tenuto al sicuro i figli, tenendoli lontani il più possibili dal nemico e aveva accennato anche alla possibilità di richiamare sua madre a Forlì, nel caso in cui Imola si fosse dimostrata una città meno sicura.

La domestica si era domandata se la sua signora avesse intenzione di prendere parte attiva alla guerra ed ella non aveva scartato l'ipotesi.

Solo a quel punto alla moglie di Bernardino era venuto in mente il figlio più piccolo della sua signora, quello che era stato battezzato con lo stesso nome di suo marito, come segno di massima riconoscenza per i suoi servigi. Proprio per quel motivo e perché l'aveva visto venire al mondo coi suoi occhi, la donna si sentì impensierita per quel piccolo, che era stato mandato a vivere presso una famiglia di Forlì per allontanarlo dai pettegolezzi che faceva spuntare come funghi.

La Contessa si era già lasciata scappare con lei che, giunto all'età opportuna, aveva intenzione di richiamarlo alla rocca e fargli intraprendere quanto meno la carriera da cavaliere, partendo da una mansione semplice, ma utile alla sua formazione, impiegandolo magari come scudiero o coppiere.

A quel pensiero, la domanda della serva era giunta spontanea. Così, senza ragionarci troppo, l'aveva posta alla sua signora, che però parve subito contrariata da quella richiesta.

Caterina sbirciava fuori dal vetro, oltre la tendina, e non avrebbe avuto voglia di parlare, tanto meno di una cosa così delicata.

Tuttavia, era stata lei a decidere di portare con sé la sua serva per avere una compagnia che le distendesse i nervi e sapeva che quel genere di discorsi a volte avevano il potere di ridarle la calma di cui aveva bisogno.

Era partita da Forlì sollevando un mezzo polverone, dichiarando Giacomo Vicesignore delle sue terre e sapeva che, se non fosse stato per la guerra che stava distraendo tutti, sarebbe scoppiata come minimo una rivolta tra i nobili della città.

Aveva compiuto quell'atto quasi estremo solo in vista dei mesi difficili che sarebbero seguiti. Se le fosse accaduto qualcosa, che le piacesse o meno, Giacomo era l'unico uomo adulto che aveva in casa e l'unico che avrebbe potuto prendere sulle sue spalle il suo Stato.

Con quella nomina legittimava ulteriormente la sua posizione e gli assicurava, almeno in linea teorica, l'obbedienza del Consiglio e dell'esercito.

“Non lo so cosa ne farò di Bernardino.” soffiò Caterina, senza guardare la sua interlocutrice.

La serva si fece scura in viso e provò a dire: “Se la guerra dovesse arrivare a Forlì, forse fareste meglio a farlo tornare alla rocca, per tenerlo più al sicuro.”

“Per tenerlo più al sicuro, forse dovrei mandarlo a Roma, dal Cardinale Sansoni Riario.” fece Caterina, con un velo di ironia che la cameriera non colse.

“Quale luogo sarebbe più sicuro, se non al vostro fianco e al fianco del padre?” chiese la donna, le mani strette in grembo.

Caterina sospirò e ammise: “Anche Giacomo vorrebbe che lo portassi alla rocca, ma...” non seppe come concludere la frase, così lasciò cadere il discorso.

“Siete tranquilla a lasciare a Forlì da soli il Governatore e il signor Conte?” domandò la cameriera, con un filo di voce.

La Contessa occhieggiò verso di lei, sorpresa da quell'ardire nel parlare. Normalmente la sua dama di compagnia stava molto attenta a certi argomenti e non osava insinuare nulla, nemmeno quando sarebbe stata nel giusto.

“Mio figlio è il legittimo Conte del mio Stato e Giacomo è...” rispose meccanicamente Caterina, dopo una breve esitazione, ma la sua voce si perse prima che la frase fosse completa.

La serva corrugò la fronte preoccupata e fece per riparare al suo errore scusandosi: “Avete ragione, vostro figlio è il Conte e il cavalier Feo è Governatore e Vicesignore...”

Mentre la cameriera si profondeva in panegirici di vario tipo per scusare la propria sconsiderata domanda, Caterina ripensò al modo in cui lei e Giacomo si erano lasciati quando aveva deciso di prendere la carrozza e andare a Imola da sola con la sua serva.

“Abbiamo ribadito i tuoi ordini e gli arruolamenti procedono bene, anche se i contadini che non hanno accettato di unirsi all'esercito si rifiutano anche di ritirarsi nei luoghi sicuri che sono stati loro indicati.” aveva detto Giacomo, scuotendo lentamente il capo: “I cavalcanti stanno facendo del loro meglio, ma quella gente ha la testa dura.”

“Ottaviano non ha fatto nulla per provare a convincerli?” aveva allora chiesto Caterina, conoscendo già la risposta.

Giacomo aveva scosso il capo, come previsto, ma aveva anche aggiunto: “Quel damerino di tuo figlio non ha nemmeno voluto venire a Mordano per paura di sporcarsi gli stivali di fango.”

La Contessa era rimasta molto irritata da quell'osservazione, a maggior ragione perché arrivava da un uomo che si sporcava le mani – o gli stivali come aveva appena detto – molto di rado e solo se messo alle strette.

“Se Ottaviano non ha fatto nulla, allora sta a me riparare alle sue mancanze.” aveva detto Caterina, con decisione, già pronta a partire.

“Non credo che potresti fare molto. I contadini hanno paura, è normale. Dai punti di osservazione di Mordano ho visto due consistenti blocchi dell'esercito francese.” aveva spiegato il Governatore: “Tutti quanti si sentono la morte addosso. Se non lo vedi, non puoi capire.”

“E allora andrò a vedere coi miei occhi.” concluse Caterina, muovendosi come per uscire dalla loro stanza.

Giacomo l'aveva afferrata per un braccio, svettando su di lei con un'autorità che non aveva mai osato mostrare: “No, tu non ci vai lì.”

Caterina si era liberata con uno strattone, l'aveva guardato a lungo e solo dopo qualche minuto Giacomo aveva piegato un po' le spalle e aveva detto, con un tono decisamente più pacato: “È pericoloso...”

La Contessa non aveva ribattuto in alcun modo e in breve aveva lasciato Forlì, in carrozza, senza armi, con la sola compagnia di un cocchiere e della sua cameriera personale. Avrebbe dimostrato sia a suo marito sia ai suoi sudditi che lei non aveva paura.

“Hai ragione, è stato un azzardo.” disse piano Caterina, senza guardare la sua serva, che aveva appena concluso di elencare le sue scuse: “Mio figlio non è pronto, ed è colpa mia, in buona parte.”

La domestica non disse nulla, le mani l'una nell'altra, lo sguardo basso. La Contessa sapeva che se avesse voluto parlare apertamente, le avrebbe dato ragione.

“Mentre Giacomo...” Caterina strinse il morso e si appoggiò il pugno chiuso contro le labbra, cercando le parole giuste da usare.

Quando parlò, il suo tono non era facile da interpretare e così le sue parole: “A volte non so come fare, con lui.”

Dal modo nervoso in cui la sua signora deglutiva, la serva intuì che quella frase aveva un senso molto più profondo di quel che poteva sembrare. In un lampo la memoria le tornò a quello che suo marito Bernardino le aveva detto qualche giorno addietro.

Alcuni suoi parenti, dei soldati della famiglia Ghetti, avevano cominciato a nutrire dei dubbi che il Conte Ottaviano stava avvallando uno dopo l'altro. Avevano il sospetto che messer Giacomo Feo fosse prepotente con la Contessa, intimidatorio, a volte addirittura violento.

La moglie di Bernardino non poteva dire, in tutta coscienza, di averlo mai visto alzare le mani sulla sua signora, né di aver visto coi suoi occhi nessuna scena particolarmente allarmante tra loro. Però, però...

Ricordava molto bene com'erano il cavalier Feo e la sua signora, quando avevano cominciato la loro relazione clandestina e quello che suo marito aveva sentito dire da Gian Antonio e Domenico poteva anche avere un fondo di verità.

Ciò che la Contessa aveva appena detto sul suo marito segreto fece credere alla serva di essere sulla strada giusta.

Con un altro scossone la carrozza imboccò la porta di Faenza e Caterina fu distratta dalla guardia che chiedeva il pedaggio. Viaggiando con quel mezzo era impossibile prendere per i boschi.

La dama di compagnia osservò la sua signora sborsare la somma necessaria e si chiese come fare per capire davvero cosa stesse accadendo tra la Contessa e il bel Governatore.

 

La situazione a Imola sembrava sotto controllo. La mano sicura di Tommaso Feo stava guidando la popolazione con saggezza in quelle ore concitate e Caterina non poté che esserne felice.

A Mordano, Tossignano e Bubano la situazione era molto più complessa. I cavalcanti cercavano invano di far rispettare il volere della Contessa, ma i contadini non arruolatisi non ne volevano sapere di abbandonare i terreni più esposti al pericolo. Nemmeno la vista della loro signora aveva avuto alcun effetto.

Caterina si era fermata proprio a Mordano, la prima sera, per poter spiegare meglio quello che andava fatto in caso di attacco. Aveva preso da parte il Governator Borelli e gli aveva spiegato che alle prime avvisaglie di uno scontro lì o nei dintorni la prima cosa da fare era mandare una staffetta rapida a Cesena, dove Ferrandino d'Aragona aspettava alla testa dei suoi uomini.

Il Governatore aveva accolto quella direttiva con una smorfia un po' restia, che stava a significare che lui non si fidava dei napoletani. La Contessa non vi fece caso e passò a ribadire i metodi migliori per allontanare la popolazione dal pericolo.

“Almeno le donne e i bambini.” aveva detto Caterina al Governatore di Mordano, Borelli: “Loro fateli riparare lontano dalla città, laddove i francesi non si spingeranno.”

L'uomo aveva annuito con forza, asciugandosi il sudore che scendeva lungo le tempie e le aveva assicurato la sua massima fedeltà e disponibilità.

La seconda e ultima sera della sua piccola trasferta, Caterina si fermò alla rocca di Imola, da sua madre e da Gian Piero Landriani.

Per l'occasione, più per motivi pratici di discussione che non per altro, anche Tommaso Feo era stato invitato a cena e con lui c'era anche Bianca.

Caterina parlò pressoché tutto il tempo con Gian Piero e Tommaso, ripercorrendo nel dettaglio ogni possibile strategia da mettere in atto. Più ragionavano sugli scenari che sarebbero potuti avverarsi, però, più il loro ottimismo veniva meno.

Finita la cena, Lucrezia aveva invitato il marito e il genero ad assaggiare un ottimo liquore che aveva fatto espressamente arrivare per loro, e, dopo che Caterina ebbe declinato l'invito a unirsi ai bevitori, la Contessa e sua sorella Bianca rimasero le uniche sedute al tavolo della cena, mentre gli altri si stavano alzando per andare nel salottino privato di Lucrezia.

“Come stai?” chiese piano Caterina.

Si sentiva ancora a disagio a starsene da sola con sua sorella. Da quando Bianca era tornata in Romagna col marito, lei e Caterina avevano avuto pochissime occasioni di parlare a quattr'occhi e forse era stato un bene.

“Come sempre.” rispose Bianca, senza particolari intonazioni.

“Quello che ti ho fatto avere – chiese Caterina, facendosi coraggio per rompere la lastra di ghiaccio che si era formata tra loro – ti sta servendo?”

Bianca sapeva che la sorella alludeva alle pozioni per la fertilità che le aveva procurato qualche tempo addietro, perciò non fece finta di non capire.

“Per ora non ho ancora avuto nessun risultato.” rispose, a voce bassa.

“Forse non dovresti insistere così. Una moglie non ha come unico scopo quello di dare figli al marito... Tommaso capirà se...” prese a dire la Contessa, ma la sorella minore si alzò di scatto.

“Facile parlare per te. Mi sembra di sentire nostra madre. Tu hai avuto sei figli che nemmeno volevi e un altro dal fratello di mio marito e su questo preferisco non dire altro – fece Bianca, parlando fittamente, come se ogni parola fosse una goccia di veleno che andava sputata in fretta prima che la uccidesse – e nostra madre ne ha avuti quattro quando era l'amante del Duca di Milano e due dal suo secondo marito.”

Il modo in cui Bianca stava parlando di Lucrezia fece accapponare la pelle di Caterina, ma la Contessa non fece nulla per farla smettere. Anzi, non si alzò nemmeno da tavola, tanto era stranita da quel discorso.

“Voi continuate a dire che una donna ha altre cose che la rendono importante, oltre a fare figli, ma è facile dirlo, per voi, che di figli ne avete avuti tanti e tutti in salute!” continuò Bianca: “Io non ho nulla di particolare, nessuna dote speciale, nemmeno un nome importante.”

Due servi si erano palesati in fondo alla sala, per sparecchiare. Cercarono di fare retro front quando videro la moglie del Governatore Tommaso Feo che piangeva, stringendo i pugni lungo i fianchi, in piedi davanti alla Contessa che stava seduta davanti al piatto vuoto, ma ormai Bianca li aveva visti.

“Non badate a me – disse loro, chiamandoli con un cenno della mano – fate quello che dovete.” e con un ultimo sguardo alla sorella, lasciò la sala dei banchetti, probabilmente diretta al salottino di Lucrezia.

La Contessa si morse le labbra e restò seduta al suo posto ancora a lungo, mentre i servi le volteggiavano attorno togliendo piatti, calici e avanzi.

La sofferenza di Bianca era evidente, eppure non riusciva a provare nessuna pena per lei. Trovava insensato il suo atteggiamento e incomprensibile il suo punto di vista.

Con lentezza, quando fu sola, Caterina si puntellò con i palmi delle mani sul tavolo e si alzò dalla sua sedia. Si sentiva a pezzi. Era stanca, demotivata, senza la minima speranza circa il futuro che attendeva lei e il suo Stato. Tutto sembrava contro di lei e perfino sua sorella pareva averla in odio.

Tossendo un paio di volte, si incamminò verso la porta, decisa a ritirarsi e dormire fino all'alba.

Nella stanza che sua madre le aveva fatto preparare, la sua serva la stava aspettando fedelmente. La spogliò e la preparò per la notte, accettando il suo mutismo e la sua espressione funerea.

“Domani ripartiamo presto, fa che tutto sia pronto al sorgere del sole.” disse la Contessa, a mo' di congedo, quando fu sotto le coperte.

La dama di compagnia fece la riverenza e uscì, chiudendosi la porta alle spalle con la maggior discrezione possibile.

 

Martino da Casalmaggiore bussò con leggerezza alla porta di Angelo Poliziano. L'uomo gli disse di entrare pure e così il coppiere aprì e andò alla scrivania.

Alla luce di tre candele, Poliziano teneva la penna in mano, rileggendo quella che doveva essere una delle sue ultime composizioni. A Martino non importava cosa stesse scrivendo, aveva una missione da portare a termine e si sentiva malissimo. Aveva la schiena sudata, le mani gelate e le gambe ogni tanto cedevano un po'.

Angelo lo ringraziò con un cenno del capo, mentre Martino appoggiava la brocca di vino sul tavolo, poi, colpito dalla strana aura che permeava il suo servo, lo guardò di sfuggita: “Tutto bene?” domandò.

Martino chinò la testa e assicurò: “Benissimo, mio signore.”

“Non sarà un malanno di stagione, eh?” chiese Poliziano, versandosi un bicchiere.

Il servo lo guardò mentre vuotava il liquido e per un istante fu tentato di fermarlo. Poi ricordò le parole di suo fratello Cristoforo, che gli aveva illustrato ampiamente i motivi per cui era necessario farlo. Il più importante, secondo lui, era la riconoscenza che il signore di Firenze avrebbe avuto per loro.

Da quando Cristoforo era segretario di Pico della Mirandola, era stato immerso fino al collo nelle informazioni più importanti e vitali per lo Stato, gli aveva detto, ed era giunto il momento di sfruttarle a suo favore.

E Martino doveva fare la sua parte, se voleva ricavarne qualcosa.

“Va bene, per stasera è tutto.” fece Angelo, trovando ancora molto strano il colorito cereo e lo sguardo vacuo di Martino.

Il servo uscì, inchinandosi più volte, risultando quasi comico. Poliziano scosse piano la testa, sorridendo tra sé. Rilesse la composizione che aveva davanti e ancora una volta la trovò orribile.

Aveva perso il tocco, ecco cos'era successo, da quando si era avvicinato troppo a Savonarola. Con tutti il suo parlare di inferno e dannazione lo aveva spoetizzato.

Angelo si grattò con due dita il dorso del naso aquilino e sospirò un paio di volte, chiedendosi quale direzione avrebbe mai preso Firenze, se fosse andata avanti di quel passo. Lui, che aveva abbandonato il suo cognome, Ambrogini, quando, orfano di padre da tempo, aveva lasciato Montepulciano a nemmeno quindici anni, in cerca di protezione, e si era chiamato Poliziano in linea con il suo sentire umanista, non riusciva più a capire chi era davvero. Quella realtà così caotica e frammentaria stava mettendo in discussione tutti i capisaldi della sua mente.

Da quando il suo fraterno amico Lorenzo era morto, per lui non c'era stato altro se non un lento tirare avanti, su un sentiero pieno di dubbi e domande.

Aveva compiuto quarant'anni da un paio di mesi, avrebbe dovuto avere l'età della sicurezza e invece si sentiva più incerto di un ventenne.

A cosa serviva continuare a fingersi amico di Piero Medici, per far sì che intercedesse per lui aiutandolo a ottenere la veste cardinalizia, se poi nel suo cuore non provava altro che ribrezzo per quello che il Fatuo stava facendo?

In animo sentiva il bisogno di schierarsi per i Popolani, per la frangia esiliata, ma ancora verace di quella famiglia straordinaria. Conosceva molto bene Lorenzo e Giovanni, i due cugini di Piero che avevano osato alzare la voce contro di lui. Era stato loro maestro e loro amico. Al momento giusto, sarebbe passato apertamente dalla loro parte.

Distrattamente, gli occhi ancora sulla pagina, Angelo afferrò il calice e bevve una generosa sorsata.

Era tanto assorto nella rilettura che in un primo momento non si rese conto del sapore strano che aveva il vino di quella sera. Addirittura, vuotò il bicchiere, prima di avere qualche dubbio.

Sentì la bocca impastata e una strana nausea lo prese fin nelle viscere. Con circospezione, annusò la brocca, ma prima di poter sentire quale odore celasse, dei fortissimi dolori all'addome lo fecero torcere su se stesso. Iniziò a tossire, una tosse secca, asinina, incoercibile. La sua gola stava andando a fuoco.

Raggiunse a fatica il letto, scosso dai tremiti per il dolore che provava nel petto e nella pancia. Si coricò e, mentre cercava di coprirsi, un conato di vomito lo prostrò tanto da fargli perdere i sensi.

Dopo poco più di un'ora, quando una delle cameriere andò a controllare se al suo signore servisse ancora qualcosa, Angelo Poliziano venne trovato morto, sporco di vomito e con un rivolo di sangue che sgorgava dalle labbra coperte di vesciche.

 

 
   
 
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