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Autore: Adeia Di Elferas    06/11/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Avanti!” gridò Bartolomeo d'Alviano, brandendo la spada vero il cielo: “Non fatene scappare nemmeno uno! Non si fanno prigionieri!”

I suoi uomini risposero con urla roboanti, seguendolo mentre partiva alla carica.

Cavalieri, probabilmente circa trecento, e fanti, molti dei quali con i colori francesi, si erano spinti fin in prossimità di Faenza, senza trovare alcuna resistenza. Una scorribanda, non un vero e proprio attacco. Si doveva trattare per lo più di saccomanni e mezzi fuoriusciti, ma Bartolomeo non se li sarebbe lasciati scappare.

Costringendo i nemici in un punto strategico appena fuori dalle mura di Faenza, il comandante li sbaragliò senza subire quasi perdite. Da come erano scappati, Bartolomeo aveva avuto la certezza che quell'incursione nei territori faentini era stata solo un colpo di testa di pochi, non un'azione ragionata.

Controllata la città. Non trovando altro di preoccupante, l'uomo decise di tornare a seguire gli ordini e si diresse a Cesena, come parte del rafforzamento degli aragonesi pontifici.

Era il 12 ottobre e il cielo era grigio e minacciava già di lasciar cadere la prima neve. I contadini delle terre vicine a Faenza, nel vedere i francesi si erano spaventati, ma in pochi erano fuggiti al riparo. Bartolomeo, mentre guidava la sua colonna verso Cesena, si chiese cosa sarebbe accaduto, se in quella terra fossero arrivati a tempo i francesi, quelli veri, e la neve.

Ripulendo con uno straccio la spada sporca di sangue, mentre assecondava il passo lento e cadenzato del suo cavallo, si disse che preferiva non scoprirlo.

 

Francesco Gonzaga sorrise pacatamente a Ludovico Sforza: “Coi veneziani me la sono sistemata tutta quanta io, la faccenda, voi non abbiate timore.”

Il Moro sollevò un sopracciglio, accomodandosi sullo sgabello da campo. Ermes Sforza, in piedi dietro di lui, guardava con i suoi occhi a mezz'asta il Marchese di Mantova, senza lasciar trasparire nemmeno in minima parte i suoi pensieri.

“Ho lasciato un mio uomo di fiducia nel loro esercito e mi informerà se dovesse accadere qualcosa di particolare.” continuò Francesco, senza dar troppo peso all'espressione scettica del Moro: “In ogni caso, la Serenissima ha accettato le mie motivazioni e io non mi faccio altri problemi.”

“Potevate evitare di fare il mio nome con tanta facilità.” ribatté Ludovico: “Ora i veneziani potrebbero ritorcersi contro di me.”

“Io sono una spada al servizio di chi paga – fece il Gonzaga, battendo la mano sull'elsa al suo fianco a dimostrazione che quel che diceva era vero – e loro lo sanno. Ho solo detto che Ludovico il Moro, reggente del Duca di Milano ha chiesto con me un incontro e che io non ho potuto rifiutare.”

Ludovico guardò il Marchese, poi lanciò uno sguardo in tralice al nipote. Ermes non reagì in nessun modo e tanto bastò al Moro per ritrovare un minimo di tranquillità. Quel mutismo e quell'immobilità stavano a significare che Ermes concordava con il signore di Mantova. Quella scelta diplomatica, a quanto pareva, era corretta.

“Va bene – concluse Ludovico – spero che Carlo di Francia faccia buon uso di voi.”

Francesco Gonzaga sorrise con la sua bocca grande e un po' storta e, allungando una mano verso il milanese in segno di amicizia, chiese: “Come sta la sorella di mia moglie? Isabella è stata molto felice di saperla di nuovo in stato interessante.”

“Beatrice sta benissimo. Una regina, ecco cos'è.” si vantò il Moro, stringendo la mano al Marchese: “La corte di Milano è il suo regno e io vorrei essere con lei, adesso, invece di starmene in questo accampamento...”

“Siete ancora insofferente nei confronti delle latrine da campo?” ridacchiò Francesco.

Ludovico fece una smorfia e, stando al gioco, concordò: “Lo potete ben dire!”

 

“Io te l'avevo detto che era troppo pericoloso.” fece Giacomo, ostinato, non appena il messaggero ebbe lasciato la sala di rappresentanza: “Cosa ti sarebbe accaduto se i francesi ti avessero sorpresa mentre te ne andavi a Faenza in carrozza con la tua serva?!”

Caterina stringeva le labbra, troppo concentrata su quello che aveva appena sentito dire per dar retta al marito.

Il Governatore Generale e Vicesignore di Imola e Forlì stava camminando nervosamente avanti e indietro, torcendosi le mani l'una nell'altra, il volto paonazzo e i capelli che gli andavano davanti al viso ogni volta che cambiava bruscamente direzione.

Da quando Caterina era tornata dal suo breve soggiorno a Imola, lei e il marito non erano ancora riusciti ad avere una conversazione distesa. Se quando erano soli al Paradiso avevano placato con il desiderio reciproco, rafforzato dalla lontananza, le loro divergenze, appena lasciavano il loro nido d'amore ritornavano a scambiarsi stoccate degne di cane e gatto.

“Vuoi stare fermo?! E che diamine!” scattò di colpo la Contessa.

Giacomo si bloccò sul posto. Mise le mani dietro la schiena e stava per ribattere, probabilmente rimarcando di nuovo il concetto di poco prima, quando la porta della sala si aprì ed entrò Luffo Numai.

Senza badare al Governatore, l'uomo si avvicinò alla sua signora e riferì, concitato: “A nord di Mordano i napoletani hanno provocato i francesi, inducendoli poi a inseguirli.”

“E dove si sono fermati?” domandò Caterina, il cuore che batteva più forte sotto alle coste.

Numai la tranquillizzò subito: “I francesi non li hanno inseguiti, ma i napoletani li hanno provocati per bene, mia signora. Potrebbero esserci delle rappresaglie. E inoltre...”

Luffo deglutì un momento, il collo dalla pelle tremula si mosse incerto e i suoi occhi un po' opachi saettarono inquieti verso la sua signora.

“Parlate, Numai, non è il momento di fare reticenze.” lo incitò la Contessa, ignorando Giacomo che alle sue spalle stava ancora smaniando in silenzio.

“Pare che su ordine del Duca di Calabria i napoletani abbiano usato come grido di battaglia il motto 'Duca, Duca'.” disse Luffo Numai, masticando un po' l'aria.

Le labbra di Caterina si incresparono appena in un sorriso ironico: “Il motto di Milano. Li hanno sbeffeggiati...”

“E inoltre, da quello che mi hanno riferito, i mordanesi l'hanno preso come il segno che siete stata voi, mia signora, a ordinare l'attacco dei napoletani.”

“Ma come...?” la Contessa trasecolò di fronte a quella affermazione.

“In molti ricordano come quel grido abbia accompagnato la vostra vittoria contro gli Orsi.” spiegò Luffo Numai, cupo.

“Ho capito.” disse piano Caterina, alzando una mano verso Giacomo, pronta a dargli degli ordini da far eseguire all'istante, ma Luffo Numai non aveva finito.

“Questo fatto pare abbia portato molti mordanesi ad armarsi e a farli partecipare al contenimento dei francesi. Dubito che i nostri nemici l'abbiano presa bene. Non possiamo esserne certi, ma potrebbe esserci una risposta a breve...” suggerì Luffo Numai, chinando il capo.

“Quanti soldati sono alla difesa di Mordano, attualmente?” domandò la Contessa, mentre finalmente anche Giacomo prestava attenzione a quello che si stava dicendo.

“Contando anche quelli che si sono offerti volontari nelle ultime ore, circa duecento.” rispose prontamente Numai.

“Chi comandava l'armata francese che ha ricevuto la provocazione di Ferrandino?” si informò Caterina, cercando di farsi un'idea il più possibile precisa della situazione.

“Gaspare Sanseverino.” disse piano Numai, ricordandosi bene il resoconto della staffetta.

“Fracassa...” sussurrò la Contessa tra i denti: “Quindi ha con sé almeno duemila uomini. Se non di più... Luffo, chiamate un corriere veloce. I francesi attaccheranno presto, meglio scrivere subito ai napoletani affinché intervengano.”

Numai fece un rapido inchino e camminò rapido fuori dal salone.

“Adesso vedremo quanto sono disposti a fare per noi i tuoi cari napoletani.” disse Caterina, guardando Giacomo, che nel frattempo era sbollito in parte dal suo accesso di collera.

“Non chiamarli così.” si irritò il Governatore Generale.

“Sei stato tu a forzarmi la mano per allearci a loro, dunque ritieniti responsabile per come si comporteranno.” ribatté seccamente la Contessa: “Devo tornare immediatamente a Imola.” e con quelle parole lasciò anch'ella il salone, lasciando il marito da solo a confrontarsi con le proprie paure.

 

Re Carlo di Francia aveva appena lasciato il castello di Pavia, dopo essere andato a porgere il suo saluto al legittimo Duca di Milano, formalmente suo alleato, e suo parente per lignaggio.

Gian Galeazzo, che aveva in un primo tempo espresso il desiderio di incontrare il re ad Asti, aveva dovuto accettare il fatto di non essere in grado di lasciare la propria camera e così aveva accolto con gratitudine quella visita.

Isabella sua moglie, dopo essersi negata al re di Francia che pure aveva chiesto di poterla vedere, si era dichiarata oltraggiata da quell'iniziativa di Carlo VIII.

“Quello zoticone è venuto qui per strapparci il Ducato e tu lo hai accolto come un padre!” rimbrottò il marito, che, dopo la partenza del francese, si era subito rimesso a letto.

Gian Galeazzo le aveva spiegato che non aveva nulla di personale contro Carlo VIII e che anzi, nel corso della visita, sarebbe stata utile anche la sua presenza, giacché, in quanto figlia di Alfonso d'Aragona, avrebbe potuto cercare di smorzare l'animosità dei francesi.

Punta sul vivo da quell'osservazione, Isabella aveva lasciato suo marito al suo destino, disinteressandosi completamente di lui per qualche ora.

Il giorno appresso, a sera, il Duca di Milano fu colto dalla ricaduta più violenta che mai l'avesse colpito.

Quando Isabella fu chiamata da una delle serve al capezzale del marito, lo trovò praticamente privo di coscienza, intento a farneticare qualcosa di incomprensibile, le mani strette ad artiglio sullo stomaco e il viso scavato come quello di un vecchio.

Passati altri cinque giorni, durante i quali Isabella non lasciava mai la stanza del marito se non per brevissime pause, Gian Galeazzo perse del tutto la sensibilità agli arti superiori, divenne più pallido di un fantasma e a intervalli regolari venne colto da convulsioni e conati di vomito.

Gli accessi febbrili erano numerosi e repentini e nei rari momenti in cui il Duca riprendeva lucidità, era tormentato da una sete implacabile, dalla dispnea e da crisi di pianto che non gli lasciavano nemmeno un soffio di fiato per parlare.

 

“Non me ne importa un accidenti se i Colonna e i Savelli ci stanno portando la guerriglia sotto le mura di Roma!” inveì Alessandro VI, facendo impallidire Ascanio Sforza con la sua voce potente e profonda: “Quello che voglio è che Giulia Farnese ritorni qui immediatamente!”

In qualità di Vicecancelliere, il Cardinale Sforza era andato a riferire al papa le ultime novità per quanto riguardava lo stato di sicurezza del Vaticano, ma, da quando la bella Giulia aveva opposto un rifiuto dopo l'altro alla richiesta esplicita del Borja di tornare a Roma, la mente di Rodrigo sembrava non aver spazio per altro.

L'unica cosa che aveva concretamente fatto in merito alla sfida aperta dei Colonna, era stata additare pubblicamente Prospero Colonna, imporgli ufficialmente di restituire Ostia, confiscargli i beni e imporgli il titolo di ribelle. Nulla di più.

Giulia Farnese aveva declinato in un primo tempo l'ingiunzione formale del papa con la scusa di andare assieme alla suocera, Adriana Mila, al capezzale del fratello morente, ma, dopo il decesso del suddetto parente, la donna si era ben guardata dal far ritorno a Roma.

Si era ritirata a casa del marito Orsino Orsini e da quel momento in poi, per quanto le lettere del papa fossero numerose e sempre più colleriche, non c'era stato modo di forzare la mano alla Farnese. Lo stesso Orsino, rischiando molto, aveva fatto notare per missiva espressa come fosse fuori luogo per il Santo Padre dimostrare una simile insistenza nel voler la moglie d'un altro al suo cospetto con una tale urgenza.

Ascanio, in fondo, era grato a quella donna per aver creato una simile distrazione al papa. Le sue spie lo avevano informato praticamente senza possibilità di fallo, che Giovanni Sforza aveva commesso molti errori, fino ad arrivare a fare da delatore per Ludovico il Moro.

Anche se il Cardinal Sforza era certo che il signore di Pesaro non potesse sapere nulla di cruciale e che quindi non avesse potuto riferire alcunché di pericoloso a Milano, c'era sempre il rischio, se il papa fosse venuto a conoscenza di un simile tradimento, di scatenare l'ira di Rodrigo Borja e non sarebbe stato facile placarla.

“Scriverò oggi stesso una nuova lettera.” disse a un certo punto Alessandro VI, annuendo tra sé: “La chiamerò ingrata e perfida e voglio vedere se questa volta non cederà e ritornerà da me.”

Solo a quelle parole Ascanio comprese che il papa stava ancora pensando solo ed esclusivamente alla bella Giulia, non badando troppo a quello che la guerra stava portando appena fuori dalla porte di Roma.

“Tutti quanti mi fanno guerra, Sforza.” fece Rodrigo, gli occhi brillanti improvvisamente puntati in quelli del Cardinale: “I Colonna, i Savelli, i francesi, i milanesi e ora perfino Orsino Orsini...”

Ascanio chinò appena il capo, non sapendo come rispondere a quella frase, così il papa lo congedò di malagrazia, ringraziandolo distrattamente per l'impegno e dicendo, apparentemente in modo casuale: “Spero di non dovermi ricredere anche su di voi, Ascanio...”

 

Il 20 ottobre il sole faticava a sorgere su Mordano. L'aria era fredda e spazzata da un vento costante che tirava in tutte le direzioni, facendo sì che la temperatura percepita fosse ancora più bassa di quanto non fosse in realtà.

Nella bruma del mattino, i soldati francesi avevano piazzato l'artiglieria leggera tutt'attorno ai confini della città e, non appena gli osservatori di Mordano videro cosa andava apparecchiandosi dinnanzi a loro, Gaspare Sanseverino mandò uno strillone sotto la roccaforte a chiedere un'udienza con chi di dovere.

Il castellano, Marino Mercatello, non voleva dare udienza al Fracassa, temendo una trappola. Il Governatore Borelli, però, ricordava bene cosa la Contessa aveva detto loro in merito a eventualità del genere.

Così il Governatore fece partire subito una staffetta per Imola, sostenendo di essere sotto attacco, e convinse il castellano a dare udienza a Sanseverino, per prendere tempo.

Il Fracassa entrò alla rocca accompagnato da alcuni soldati. Era grande e grosso, tanto temibile quanto aggressivo. Solo a sentirlo respirare si poteva percepire il pericolo che portava con sé.

“Arrendetevi senza combattere – disse Gaspare al Governatore e al castellano – lasciate questa roccaforte a me e agli altri comandati dei francesi e non vi faremo alcun male. Non avete speranze, contro di noi.”

Borelli scosse con forza il capo: “Non se ne parla, noi abbiamo ordini precisi e non lasceremo mai questa roccaforte.”

“Ho con me duemila uomini.” disse Fracassa, piantatosi i pugni sui fianchi: “E se non cederete subito, vi attaccheremo senza pietà. A poche ore da qui, poi, c'è mio fratello e con lui Robert Stuart d'Aubigny, che è di nascita scozzese, ma vi giuro che uccide in nome di re Carlo di Francia, e con loro ci sono quattordicimila soldati al seguito. Ragionate e non fate follie.”

Fu Mercatello a rispondere. Gonfiò il petto, guardò un attimo Borelli in cerca di appoggio e poi si parò davanti a Sanseverino, che lo superava di quasi tutta la testa.

“Non ci piegheremo mai all'onta di arrenderci, tanto meno a voi, che siete milanesi, ma vi comportate come i cani del re di Francia. Moriremo, piuttosto, daremo il sangue e la vita, ma non tradiremo mai la nostra signora.” dichiarò il castellano di Mordano, senza che vi fosse mai un minimo cedimento nella sua voce.

Gaspare Sanseverino lo fissò a lungo, in silenzio. Non poteva negare con se stesso di provare per quegli uomini un sincero rispetto. Approvava come non mai la loro fierezza e il loro proposito di morire pur di restare fedeli alla loro causa.

Tuttavia, in quella guerra, la sorte li aveva messi su fronti opposti.

“Uomini miei...” disse piano Fracassa, con un mezzo sorriso che tradiva la sua improvvisa contrarietà nel dover annientare soldati tanto coraggiosi: “Sappiamo che tutti voi siete uomini di valore, tuttavia, per mio avviso, voi non dovreste piegarvi alla forza di questi francesi, ché sono loro i veri cani rabbiosi e tocca a loro darvi battaglia per accordi presi tra noi. State sicuri che loro vi conquisteranno a viva forza, vi metteranno senza dubbio a fuoco, a sacco e a filo di spada senza che noi – e con quel 'noi' Sanseverino fece capire chiaramente che intendeva dire 'noi altri italiani' – possiamo inframmezzarci ad arrestare lo scempio, perché così ci è stato ordinato.”

Il Governatore e il castellano ascoltavano inermi, comprendendo appieno quanto al Fracassa risultasse penoso dover attaccare quella città, ora che, in pochi istanti, i suoi maggiori esponenti gli avevano fatto conoscere il valore dei suoi abitanti.

“Quindi, cari fratelli – riprese Sanseverino, con un sospiro – Iddio voglia darvi una buona ispirazione e farvi scegliere il partito migliore per voi e per questo castello.”

Un silenzio pesante e interminabile seguì quell'ultimo consiglio. Marino Mercatello teneva gli occhi socchiusi, puntati verso il pavimento; il suo cuore correva come un fuggiasco che cerca di mettersi in salvo da un pericolo ineluttabile. Borelli si sentiva più tranquillo, invece. La sua decisione era stata presa da tempo e non sarebbe tornato indietro per nessun motivo.

“Che vengano pure i francesi.” disse il Governatore: “Io e i mordanesi tutti siamo pronti a morire per il Conte Ottaviano Riario e per sua madre, la Contessa Caterina Sforza.”

Con la morte nel cuore, Fracassa fece un cenno col capo e senza aggiungere alzò una mano a richiamare i soldati che l'avevano accompagnato e uscì.

 
   
 
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