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Autore: Adeia Di Elferas    08/11/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La rocca di Mordano sembrava un alveare. I mordanesi tutti si erano immediatamente messi all'opera per difendere la loro terra e tener alto il nome della loro signora, in fiduciosa attesa degli aiuti promessi dai napoletani.

Le colubrine e gli altri pezzi d'artiglieria che la Contessa aveva ben pensato di dislocare lì in seguito alla sua ultima visita erano stati tutti messi in funzione e puntavano contro i nemici che stavano avanzando senza tregua.

Tuttavia, tra i difensori di Mordano, solo pochi erano soldati di professione e così a molti furono dati ordini che non riuscivano a comprendere o portare a termine, ma, nonostante ciò, la difesa riuscì a mettere in un primo momento in grande difficoltà i francesi.

Vedere come un esercito teoricamente di regola, con un addestramento alle spalle, stesse arrancando a quel modo stava dando un vigore del tutto eccezionale ai difensori della città e quello spirito stava facendo la vera differenza. Anche l'uomo più comune, vedendo cadere i primi francesi come mosche, poteva inorgoglirsi tanto da diventare un armigero esperto per puro animo patriottico.

Un artigiano che normalmente per vivere componeva bellissimi arazzi si trovò a maneggiare una spingarda sulla cima della rocca. Dopo alcuni colpi andati a vuoto, riuscì a prendere di mira un soldato francese la cui armatura lasciava intendere un'estrazione sociale di tutto rispetto.

Lo centrò in modo tanto preciso da far di lui mille pezzi di carne sanguinante che volarono per aria, colpendo i suoi compagni d'arme, che, inorriditi, per qualche minuto persero del tutto la bussola.

L'Aubigny, che aveva raggiunto Fracassa appena iniziato l'assedio, s'incollerì come non mai a quella vista. Una branco di contadini e artigiani stava tenendo testa a un esercito formidabile come il suo e i suoi uomini si stavano lasciando prendere dal panico davanti a un misero colpo di spingarda.

Non era accettabile!

“Orsù!” gridò allora l'Aubigny, tenendo alta la spada e sollevando anche la celata dell'elmo, affinché tutti lo sentissero: “Fate sul serio! E in fretta! Fate cenere di questi meschini!”

Le parole del comandante ebbero un effetto tangibile sul morale dei suoi soldati. Come se con quelle poche frasi l'Aubigny avesse potuto infondere una forza sovrumana ai suoi uomini, gli assedianti cominciarono a distruggere i muri, le case, ogni tipo di rifugio, usando tanto l'artiglieria quanto le mani nude, non curandosi più delle perdite, concentrandosi solo sulla distruzione completa e totale della città e della rocca.

I mordanesi, però, non si lasciarono abbattere dallo sconforto di fronte a quella furia. Pur non essendo uomini avvezzi alla guerra, tutti quanti fecero del loro meglio per contrastare il nemico.

Il Governatore guidava gli assalti e ordinava di concentrarsi di più ora su quel punto ora su quell'altro e i comandanti nemici non riusciva a capire come fosse possibile che poche centinaia di uomini stessero realmente tenendo testa a qualche migliaio di avversari.

Anche Pietro Calderini, imolese che si trovava a Mordano per puro caso in quei giorni, stava facendo del suo meglio per concorrere alla causa della sua signora. Tuttavia egli era un diplomatico, non un uomo d'armi, perciò cercava di starsene in disparte, osservando il più possibile, colpendo quando gli capitava qualche nemico, alla ricerca di un cavallo rapido per andare subito a Imola a informare chi di dovere di quello che stava accadendo.

Era ormai pieno pomeriggio, quando il castellano Mercatelli sentì il proprio coraggio vacillare. Per quanto i suoi concittadini stessero dando tutto pur di non arrendersi, era palese che la sorte della battaglia sarebbe stata a loro sfavorevole. I francesi erano troppi e sembravano continuare ad arrivarne.

Asciugandosi il sangue che colava da una ferita alla fronte dovuta a una freccia raminga, Mercatelli trovò Borelli, che stava messo ancora peggio. Il Governatore si teneva con una mano il costato, da cui sgorgava un rivolo rosso chiaro.

“Arrendiamoci...” gli sussurrò, chinandosi appena per schiavare un colpo di bombarda che era planato sopra le loro teste e che si abbatté su un lato della rocca già pericolante, sbriciolandolo: “I napoletani non arriveranno mai, ci hanno ingannati, lo sappiamo tutti che è così... I Sanseverino intercederanno per noi. Fracassa ci stima, non ci metterà in torto, ci farà avere un buon trattamento...”

Con la forza che ormai lo stava abbandonando, Borelli trovò la determinazione necessaria a colpire il viso di Mercatelli con la mano. Anche se non fu forte come un pugno, quel gesto scosse nel profondo il castellano.

“Noi non ci arrendiamo.” ribatté Borelli con un soffio.

Erano passate otto ore dall'inizio dell'assedio eppure Mordano non accennava a cedere. Forse i mordanesi sarebbero riusciti a resistere per altre otto ore e di più, se non fosse stato per un terribile scherzo del destino.

Una palla di cannone colpì per sbaglio l'enorme catena che teneva sollevato il ponte levatoio.

Un fiume di soldati nemici attraversò il ponte e, mentre alcuni cercavano di sfondare il portone d'ingresso, incuranti delle frecce e delle pietre lanciate dall'alto, altri scalavano i muri in parte crollati e entravano nella rocca.

Dall'interno, quelli che erano riusciti nella scalata, spalancarono il portone principale e permisero ai commilitoni di invadere ogni angolo del castelletto.

I mordanesi a quella vista compresero che il loro destino era ormai segnato. Stremati da oltre otto ore di combattimento senza quartiere, cercarono riparo dove possibile. Pietro Calderini, capito che ormai l'esercito francese aveva sfondato ogni difesa, disarcionò con una scaltra mossa un cavalleggero che gli era passato accanto e saltò in sella, volto a Imola.

Entrati in città senza più trovare resistenze, i francesi si diedero al più sfrenato e bieco dei saccheggi. Incendiarono ogni cosa, distruggendo ogni edificio eccetto la Casa del Pubblico, una casa privata di pietra e la chiesa di Santa Maria.

Le donne rimaste in città – poche, grazie allo zelo di Borelli che le aveva fatte disperdere nelle campagne verso Imola già da giorni, seguendo i consigli della Contessa – si ritirarono in massa nella chiesa, sperando che i soldati nemici avessero rispetto almeno di quel luogo sacro.

L'artigiano esperto d'arazzi che aveva colpito con la spingarda il cavaliere francese quella mattina venne preso da un manipolo di uomini dell'Aubigny e venne squartato vivo. Il castellano Mercatello e il Governator Borelli e pochi altri uomini notabili vennero presi in ostaggio e portati via, nella speranza di ricavare un buon riscatto.

Il comandante francese Aubigny, camminando con la schiena dritta e lo sguardo fisso dinnanzi a sé, raggiunse per primo con un pugno di soldati la chiesa. Le donne ivi nascoste cominciarono subito a gridare e piangere, ma l'uomo gridò loro di non temere nulla, promettendo che non sarebbe stato fatto loro alcun male.

“Dov'è il parroco?” tuonò: “Dov'è?!”

Qualcuna delle presenti additò verso l'altare, così l'Aubigny, seguito a ruota da un paio di uomini che gli guardavano le spalle, camminò a passo sicuro fino al punto indicatogli. Aggirò l'altare e dietro vi trovò il prete, accucciato e tremante. Con un colpetto di piatto della spada lo invitò a mettersi in piedi.

Il parroco eseguì, mostrando il volto paonazzo e rigato di lacrime. Mormorava qualcosa che sembrava una preghiera, ma l'Aubigny non provò nemmeno a capire che stesse dicendo.

Fece un segno ai suoi e quelli, senza aspettare ordini più chiari, presero il prete e lo spogliarono con la forza, riducendo i suoi abiti in brandelli e lasciandolo nudo, senza nemmeno le scarpe ai piedi.

Il parroco tentò di coprirsi, imbarazzato, infreddolito e sconvolto da quel gesto, mentre l'Aubigny prese la tovaglietta bianca bordata di pizzo che copriva l'altare.

Se la passò sulla barba scura, sporca in più punti di fango e sangue e poi con essa pulì anche la spada che ancora gocciolava.

Quando la lama tornò a splendere, lanciò la tovaglietta insanguinata al prete e gli disse: “Corri a Imola da quella cagna della tua padrona e mostrale il sangue dei mordanesi.” e detto ciò diede un fortissimo colpo, sempre di piatto, sul fondoschiena del prete, che cominciò a correre, nudo e a piedi scalzi, il fiato spezzato dal pianto e dalla paura.

L'Aubigny lo seguì con lo sguardo fino a quando non lo vide uscire dalla chiesa e imboccare la strada centrale del paese, in direzione di Imola.

“Molto bene...” mormorò l'uomo, poi rinfoderò la sua spada e si rivolse ai soldati che lo avevano seguito e a quelli che si erano affacciati in quel momento sul portone per vedere che stesse accadendo: “Fate di loro quel che volete – disse, indicando le donne assiepate nella chiesa – ma alla fine uccidetele tutte.” e con quell'ordine, lasciò quel luogo sacro, del tutto insensibile alle urla di dolore e terrore che si stava lasciando alle spalle.

 

Caterina accorse fuori dalla rocca di Imola non appena sentì fare il suo nome dalle guardie. Da tutto il giorno aspettava una risposta da parte del Duca di Calabria e ingenuamente s'era fatta convinta che oltre il ponte l'attendesse davvero una staffetta napoletana per rassicurarla circa il pronto intervento del suo signore.

Invece, quando arrivò fuori dalla rocca, seguita a fatica dalla madre e da un paio di soldati, si trovò davanti un uomo sporco e sconvolto, nudo e coi piedi sanguinanti, che portava con sé un cencio mezzo cremisi e mezzo infangato.

“Chi siete, da dove venite?” chiese la Contessa, avvicinandosi all'uomo: “Dategli qualcosa per coprirsi!” ordinò anche, rivolta a uno dei soldati, che si tolse prontamente il mantello e lo pose sulle spalle del rifugiato, che tremava per il freddo e la vergogna.

L'uomo, grato per il tessuto caldo che lo avvolgeva, porse la tovaglia imbrattata alla sua signora e, piangendo, disse: “I francesi... I francesi!”

“Cosa?” chiese Caterina, prendendo il pezzo di stoffa e guardandolo attonita: “Cos'è successo?”

“Hanno dato il sacco a Mordano...” disse il prete: “Hanno distrutto tutto... Ucciso tutti... Nemmeno per la casa di Nostra Signore hanno avuto rispetto...! E nemmeno per me, un uomo di Nostro Signore...”

Caterina si sentì gelare il sangue nelle vene.

Si aspettava un attacco a Mordano, ma aveva già mandato messaggi a profusione fin dall'alba a Cesena, possibile che in quasi venti ore nessun napoletano fosse accorso in aiuto dei mordanesi? Ormai era sera, il 20 ottobre stava giungendo al termine, il tempo per arrivare in loco c'era stato eccome!

“Non è arrivato nessuno ad aiutarvi?” chiese la Contessa, lasciando la tovaglia insanguinata a sua madre, che le si era messa al fianco e si teneva una mano sulla guancia, atterrita da quella notizia.

Il prete scosse il capo e, singhiozzando, negò: “Nemmeno un soldato, mia signora... Hanno distrutto tutto...”

Caterina sentì bollire nelle viscere una rabbia primordiale che non provava da tempo. Avrebbe voluto imbracciare una lancia, prendere una spada e partire subito alla volta di Mordano e uccidere con le sue mani ogni soldati francese che avesse trovato sul suo cammino.

Tuttavia, cercò di controllarsi. Non era il momento di agire d'impulso. Esistevano trattati, alleanze. Era ingarbugliata con un patto che non aveva voluto e adesso si stava scontrando con l'inconsistenza del Duca di Calabria, che s'era preso gioco di lei scatenando contro i suoi sudditi l'esercito nemico senza nemmeno onorare l'impegno preso.

“Va bene...” fece la Contessa, con la bocca secca: “Che quest'uomo abbia un alloggio subito. Dategli vestiti, dell'acqua, del cibo, un posto dove riposare...” ordinò rivolta alle guardie, che si affrettarono a portare dentro alla rocca il prete esule.

Caterina stava per rientrare anch'ella nella rocca, quando, a cavallo, arrivò un altro uomo. Era messo decisamente meglio del primo profugo, ma sul suo viso si leggevano gli stessi orrori. I suoi occhi erano tanto sgranati e le sue labbra tanto tirate che la Contessa ci mise un po' prima di riconoscere in lui Calderini, uno degli ambasciatori che aveva mandato a Roma a parlamentare col papa un paio d'anni addietro.

“Che è successo?” chiese, sperando di trovare in lui un interlocutore più chiaro.

L'uomo smontò di cavallo e fece gli ultimi metri che lo separavano dalla Contessa con passo tremante. Quasi cadde, quando fu davanti a lei e così Caterina dovette sorreggerlo.

“Il diavolo, mia signora, ecco cosa sono.” cominciò e per un secondo rimase in silenzio, lasciando che i suoi occhi parlassero per lui: “C'erano i due Sanseverino e anche l'Aubigny. Credo avessero con loro circa sedicimila soldati. È dall'alba che si combatte e ora non è rimasto più nessuno e più niente. I francesi hanno raso al suolo Mordano e non s'è salvato nessuno...”

“Non sono arrivati i napoletani in vostro soccorso?” chiese la Contessa, conoscendo già la risposta.

“Nessuno è venuto in nostro soccorso, mia signora, nessuno.” rispose Calderini, mentre le gambe gli cedevano di nuovo.

Caterina ordinò che anche per lui venisse preparato un pronto ricovero e poi si diresse a passo spedito verso il palazzo del Governatore.

Non doveva agire d'impulso, ne era consapevole, ecco perché aveva intenzione di andare a parlare con Tommaso Feo. L'esperienza le aveva insegnato che anche nei momenti più tragici e concitati era necessario avere ben chiari tutti i punti della questione, giacché ogni errore poteva essere fatale.

Doveva capire cos'era successo, scrivere ancora a Ferrandino d'Aragona, chiedendo conto del suo mancato intervento e poi avrebbe preso una decisione.

Perché se non si fosse fermata un attimo, quel demone che albergava in lei e che da anni, dalla morte di suo marito Girolamo, teneva sotto silenzio e bene o male sotto controllo, sarebbe esploso con tutta la sua forza, inducendola a spazzare via ogni cosa, anche a costo di perdere tutto.

Doveva vedere Tommaso. Era l'unico, in quel momento, che sarebbe stato in grado di tenerla presente a se stessa. Lui avrebbe saputo darle un buon consiglio e insieme avrebbero trovato un modo per risollevarsi da quella catastrofe.

 

“I miei cani da caccia!” la voce di Gian Galeazzo Sforza era acuta e penetrante: “Portateli qui! I miei cani! E anche i miei falchi li voglio tutti qui!”

Bona di Savoia fece un cenno alla serva che le stava alle spalle e questa andò subito al canile per eseguire l'ordine silenzioso della madre del Duca.

Isabella aspettava fuori dalla stanza del marito. Stava seduta in terra, senza più nessuna attenzione a quello che una donna del suo rango avrebbe dovuto fare. Teneva le ginocchia piegate e la testa tra le mani. Suo marito l'aveva cacciata via dal suo capezzale, dicendole che non la voleva più vedere, che non la sopportava più, che la detestava. Aveva augurato la morte al loro figlio non ancora nato e poi aveva invocato l'arrivo di sua madre.

Bona era subito accorsa e aveva fatto spegnere metà delle candele che illuminavano la stanza in quella notte nuvolosa, a cavallo tra il 20 e il 21 ottobre.

Con latrati e abbaiate da mercato, i levrieri del Duca arrivarono come un esercito alla sua stanza. Isabella non si scostò nemmeno, lasciando che qualcuno di loro le sbattesse contro, del tutto insensibile a quello che le accadeva attorno. Sapeva che suo marito stava per morire.

Pochi minuti dopo arrivò anche il falconiere, portando sul braccio i tre falchetti preferiti di Gian Galeazzo. Uno di loro diede un profondo grido quando entrò nella stanza già piena di cani, ma la confusione che seguì non smosse Isabella di un millimetro.

Il priore di Vigevano aveva fatto del suo meglio per strappare l'ultima confessione al Duca, intimandogli di pentirsi di tutti i suoi peccati, per la salvezza della sua anima, e Gian Galeazzo aveva risposto a voce tanto alta da farsi sentire da tutti: “Mi pento, dannazione! Ora andatevene e lasciatemi morire!”

Isabella restava seduta contro la pietra fredda, le orecchie piene degli strepiti degli animali che suo marito aveva amato in vita, molto più di quanto non avesse mai amato lei.

La donna sentì un crampo all'addome e si ripiegò su se stessa. Dopo qualche istante, il dolore passò. Il figlio che portava in grembo sembrava soffrire quanto lei per quello che stava accadendo. Da quella notte in poi, sarebbero stati soli.

Passate da poco le tre del mattino, Bona di Savoia uscì in lacrime dalla stanza, seguita dai cani e dal falconiere.

Allungò una mano verso Isabella e sussurrò: “Se n'è andato.”

La Duchessa di Milano non riuscì nemmeno a piangere. Guardava la suocera con occhio spento. Anche la luce fioca della torcia che era stata messa nel corridoio le dava fastidio, in quel momento. Se non avesse avuto lo spirito forte degli Aragona a batterle nel petto, Isabella avrebbe cercato di raggiungere il marito negli inferi quella stessa notte.

“Dobbiamo portarlo via subito.” disse piano Bona, che con la morte del figlio stava rivivendo le stesse paure avute alla morte del marito: “Nessuno deve poter fare scempio di lui.”

Così, nel buio pesto della notte, il feretro del Duca, coperto da un drappo di broccato d'oro scelto appositamente da Isabella, accompagnato da un corteo raffazzonato di religiosi, frati e servi, imboccò la strada per Milano. Sarebbe stato deposto a Sant'Eustorgio.

Giunta la notizia luttuosa alla corte del Moro, Ludovico fece una smorfia e concesse quello che ai più parve un atto di gentilezza, quando invece si trattava solo dell'ultima beffa nei confronti del nipote. Egli, infatti, consegnò le insegne ducali, la berretta e lo scettro, al corteo giunto da Pavia, assieme all'abito da cerimonia di broccato che Gian Galeazzo avrebbe indossato nella tomba.

Quella consegna, avvenuta sotto gli occhi degli ancora assonnati cortigiani del Moro, ricordò a tutti come il Duca di Milano appena morto non fosse mai stato davvero Duca, tanto che in tutti quegli anni, mai aveva avuto modo di conservare quei simboli di potere presso di sé, come sarebbe stato legittimo.

 
   
 
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