Pairing: Daichi x Suga |Asahi x Noya |(in più piccola parte anche Iwaizumi x Oikawa | Kageyama x Hinata).
Parte: 2/3 (sebbene la storia nasca e si sviluppi come unica e sia divisa solo per comodità).
Avvertimento: Soulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Molto angst | Sebbene siano vicende nuove, la storia nel suo continuum e contesto è legata alla prima soulmate di questa raccolta, che può essere letta qui.
Note d’Autore: (e maledizioni) a fine storia.
Ringraziamenti e dedica: Un immenso grazie, come sempre, alla mia Arianna che legge in anteprima, vigila, consiglia e beta tutto quello che scrivo.
Just a little late (you found me).
Parte
seconda
La madre di Yuu
fissava distrattamente la porzione di strada che poteva vedere dalla finestra
della stanza in cui avevano ricoverato suo figlio; si perdeva tra le figure
poco dettagliate che scivolavano lungo i marciapiedi o attraversavano la strada
ad intervalli fissi, seguendone alcune, quasi per gioco, finché non
scomparivano in una nuova svolta o dentro un palazzo. Andavano a lavorare, a
fare la spesa, i ragazzi si incontravano, le ragazze chiacchieravano camminando
in gruppo e fermandosi di tanto in tanto davanti a qualche vetrina. Era tutto
tranquillo, tutto sapeva di una quotidianità che lei, in quel momento, pareva
vivere dall’esterno, come un’estranea che osserva qualcosa che non le
appartiene, che non conosce.
Poco prima suo marito aveva dovuto
lasciarla per andare a lavoro – l’avevano chiamato, pareva una cosa urgente e
non aveva potuto esimersi – e da allora la stanza era piombata nel silenzio. Noya riposava: la donna aveva l’impressione che sul suo
viso ci fosse una stanchezza infinita, nonostante non si fosse ancora svegliato
da quando, quella notte, lo avevano portato in stanza e nonostante Tanaka fosse entrato in stanza quasi subito dopo la
partenza del marito, la signora non lo aveva mai visto tanto silenzioso dacché
lo conosceva. Se non fosse stata anche lei tanto preoccupata, per quanto le
condizioni di Yuu fossero buone, avrebbe cercato di
tirarlo su di morale: Ryuu era tanto un caro ragazzo
e la faceva ridere spesso.
Arresasi a quel silenzio, allora, il
suo sguardo aveva preso a far da spola fra le fattezze pallide del figlio e la
vita fuori dalla stanza: faceva vagare la sua immaginazione, la donna, in
maniera superficiale ed incontrollata, per distrarsi, aspettando che Noya si svegliasse e la sua vita potesse di nuovo andare
avanti al pari delle altre.
«Uumh… sai
che odio quando aprì così le tende: entra…entra tutta la luce… ed io voglio
dormire…».
Noya biascicò
le prime parole con la bocca ancora impastata dal sonno, sicché la frase
accelerò e si bloccò nei punti più strani, suonando buffa. La madre si voltò di
scatto verso di lui e stette a guardarlo, avvicinandosi lentamente, mentre
questi apriva gli occhi appena appena, infastidito dal sole che, data l’ora,
entrava tranquillamente nella stanza.
«Prometto che ti lascerò dormire tutte
le domeniche che vorrai», sussurrò mentre la voce si incrinava appena e gli
occhi le si riempivano di lacrime – lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto davvero
perché non s’era mai sentita tanto felice come in quel momento, mentre guardava
di nuovo suo figlio negli occhi.
Noya si
chiese ingenuamente che cosa avesse fatto per meritare una risposta tanto buona
ed accomodante; poi, fissando il soffitto, si accorse che quella in cui si
trovava non era la stanza di casa sua. In effetti, rifletté mentre i pensieri
si accavallavano confusi nella sua mente, non ricordava bene com’è che era
tornato a casa la sera prima – o non tornato,
a giudicare dal posto – e faceva difficoltà a mettere uno dopo l’altro gli
ultimi ricordi, che si accalcavano senza filo logico. Quando, muovendo lo
sguardo intorno a sé, si rese conto del braccio ingessato e del dolore che
sentiva in diversi punti del corpo, il panico, feroce, lo assalì.
«Mamma…?», chiamò – e sembrò la voce
del cucciolo più indifeso che cerca il calore e la rassicurazione del proprio
genitore.
«Ssh, non ti
agitare». La madre gli carezzò i capelli con dolcezza «Ricordi cosa è
successo?», chiese poi, ma il ragazzo scosse la testa senza smettere di
guardarla. «Ieri sera hai avuto un incidente, mente tornavi a casa in
bicicletta: una macchina ha spinto te ed un tuo compagno di scuola fuori
strada, in una scarpata. Ma stai bene». Gli diede un bacio amorevole tra i
capelli. «Stai bene, hai solo un braccio rotto e qualche graffio». Il bisogno
di calmarlo aveva reso la voce della donna serena e calma, come lei stessa non
credeva di essere: non tremava, mentre le sue mani accarezzavano il figlio e
gli occhi lo guardavano sereni, con appena un velo di lacrime a ricordare il
pericolo scampato.
Yuu, da
canto suo, cercava di aggrapparsi a quell’affetto, ma erano davvero troppe le
notizie che aveva appena ricevuto. Un incidente, l’ospedale, un braccio rotto…
e che cosa aveva detto sua madre? Un suo amico era rimasto coinvolto con lui?
Chi…? In un attimo il ricordo di se stesso che raggiungeva Daichi
in bicicletta per fare la strada del ritorno insieme lo freddò. Oddio…
«Daichi!
Mamma, dov’è Daichi?». Noya
aveva gridato ed era scattato in avanti, incurante del dolore. Perché Daichi non era magari in stanza con lui? Perché non era
lì…?
«Calmati, tesoro mio, calmati!», cercò
di trattenerlo la madre «Il tuo amico è ricoverato in un’altra stanza… lui… ha
battuto la testa e devono tenerlo in osservazione».
Noya trasse
il fiato e sentì il vuoto intorno a sé. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Ricordava. Ricordava di aver raggiunto Daichi in
bicicletta, di averlo rallentato, fermato, proponendogli di andare insieme.
Dio, dio, che aveva fatto? Se non lo avesse incontrato… se non gli avesse
parlato… Il ragazzo sentiva come se nulla avesse più senso, il petto gli faceva
malissimo e quasi tremava. Daichi…
«Voglio… voglio vederlo. Posso
vederlo?». Doveva rendersi conto di cosa aveva fatto, doveva essergli vicino,
fare qualunque cosa potesse. Starsene fermo in quel letto non gli avrebbe fatto
bene. Il dolore non faceva altro che aumentare.
«Hey, vacci piano Thunder».
La voce di Tanaka
mise il freno ai suoi pensieri. Il Libero alzò la testa per trovarsi davanti al
faccia del suo migliore amico, che lo fissava con una serietà che non gli
apparteneva. Era stato lì tutto il tempo? Non era sorpreso, no… dopotutto, lui
avrebbe fatto lo stesso se fosse successo qualcosa a Ryuu.
«Tu non capisci, Tanaka.
È colpa mia, devo averlo distratto e quella macchina…».
«Quella macchina vi è venuta addosso e
non c’è nulla che avresti potuto fare per evitarlo – il conducente era troppo
impegnato a discutere a telefono per prestare attenzione alla strada e deve
essere grato che non mi abbia incontrato!». Era minaccioso, Tanaka,
ma con una serietà che poteva davvero spaventare «Ora smettila di agitarti e
stenditi di nuovo – devi riposare: che facciamo, se la nostra Divinità Guardiana non ci protegge in
campo?».
Yuu sorrise:
per la prima volta da quando s’era svegliato si sentì più leggero, quasi come
se fosse tutto a posto. Tanaka lo guardava e
tratteneva a stento le lacrime di gioia nel poterlo vedere di nuovo sveglio –
sarebbe morto prima di farsi vedere piangere, ma a se stesso non poteva
nascondere il sollievo che stava provando in quel momento: non era stato in sé da
quando aveva saputo di Noya – aveva la sensazione che
non sarebbe mai più potuto essere se stesso se Noya
non fosse stato di nuovo bene.
«Ah, quasi dimenticavo: fammi prendere
uno spavento del genere un’altra volta e conoscerai la mia furia», lo minacciò,
in mancanza di altri modi per mostrargli quanto si fosse preoccupato. Yuu si fece scappare una breve risata.
Se ne accorse così e fu ironico, perché
parve causale sebbene non lo fosse affatto. Anzi, ce n’erano davvero tanti di
indizi, nel dolore che Noya stava provando, nella sua
instabilità, ma non se ne rese conto davvero finché non ci fu un attimo di
silenzio nella stanza. Perché il silenzio corrispose al vuoto. Ed il vuoto
all’assenza. Asahi non era lì con lui.
Come aveva fatto a non notarlo prima?
Come aveva fatto a vivere quegli istanti senza rendersi conto che il suo compagno non gli aveva ancora parlato?
La situazione l’aveva sconvolto così tanto che tutto era scivolato lontano. Per
un momento, forse, anche Asahi. Ora però comprendeva chiaramente il dolore che
sentiva - come un fastidio che lo punzecchiava, senza lasciarlo stare
tranquillo. Non gli piaceva, nulla di tutto quello gli piaceva.
«Dov'è Asahi?» chiese con malcelato
nervosismo. L'espressione del viso di Tanaka cambiò
immediatamente, rabbuiandosi di colpo; poi il ragazzo la nascose in parte,
abbassando la testa.
«Non lo so, Noya.
Si è allontanato poco dopo che ti hanno portato in stanza e non l'abbiamo visto
più. L'ultima volta che ho chiesto, Tsukkishima e Yamaguchi erano andati a cercarlo».
Nishinoya tacque.
Nel suo petto risuonò nuovo dolore.
***
Asahi avrebbe voluto gridare. Sentiva
che gridare fino a non avere più voce sarebbe stata forse la sola cosa a farlo
stare meglio, perché il male che sentiva nel petto era a stento sopportabile;
diverso da quello che la notte prima lo aveva messo in allarme riguardo Noya, ora il suo dolore era lacerante e gli chiudeva
stomaco e gola, soffocandolo sempre più ad ogni passo che faceva per
allontanarsi dal compagno.
Lo aveva deciso non appena aveva saputo
che Yuu stava bene, che sarebbe stato bene. S’era
alzato, dopo aver visto la barella con cui lo portavano nella sua stanza ed il
suo viso pallido, ed era andato via. Non s’era guardato indietro – era stato
troppo codardo anche per fare un simile gesto. Non aveva ancora lasciato
l’ospedale, però: aveva preso la strada più lunga ed ora era giunto nel
giardino al piano terra, nel punto opposto al Pronto Soccorso dove erano
arrivati la notte, vicino ad una delle uscite.
S’era fermato solo per riprendere
fiato, o così gli piacque pensare. Ma poi il dolore non lo aveva lasciato
muovere più neanche di un centimetro. Così s’era seduto e con la stasi, col
silenzio, erano arrivati i pensieri. Forti, minacciosi, impietosi: gli
ritraevano la realtà con l’obbiettività di uno specchio, ma lo ferivano con
l’affilatezza di un vetro rotto.
Che stava facendo? Era davvero questo
quello che aveva deciso, alla fine? Asahi non era nuovo alle fughe – i più lo
attribuivano alla paura, ma lui sapeva che non si trattava propriamente di
questo. Non era paura in sé, paura di quello che aveva davanti: era paura di
deludere, gli altri e se stesso, di ferire e non essere capace di andare
avanti. Meglio rinunciare che perdere definitivamente. Scappare era un po’ come
tirarsi indietro e Asahi sentiva in quel momento l’estremo bisogno di tirarsi
indietro, perché non credeva di avere la forza di affrontare le conseguenze di
ciò che aveva davanti.
Era giunto ad una semplice conclusione:
senza Yuu, lui non era niente. Non si trattava di
retorica, di una bella frase che suonasse poetica e magari desse i brividi –
era la più concreta delle realizzazioni mai avute e lo aveva capito solo quando
Noya era stato in pericolo. In quel dolore lui si era
annichilito ed aveva perso qualunque cosa lo componesse – non restava più
nulla, nulla sarebbe rimasto se avesse perso Yuu. E
contemporaneamente aveva pensato che anche Noya si
sarebbe sentito in quel modo, se fosse successo qualcosa a lui: che gusto
poteva esserci nel tenere in quel modo tra le mani la vita della persona che
più si ama? Che gusto poteva esserci, quale gioia, nel sapere che al finire di
uno sarebbe finita anche la vita dell’altro?
S’era ritenuto fortunato, Asahi, quando
aveva capito che Noya sarebbe stato il suo compagno: s’era sentito appagato e completo
– vedere i colori e vedere lui brillare più di qualunque altra cosa al mondo
era stato indescrivibile, così come il senso di gioia estremo, di felicità
assoluta. Credeva che non potesse esserci nulla di migliore, niente che avrebbe
scavalcato quel momento – ed era così: non avrebbe mai cambiato quella
sensazione con nessun’altra. Ma se il prezzo era quello, se alla felicità più
assoluta doveva corrispondere il peggiore dei mali, l’annullarsi o l’esser
causa dell’annullamento altrui… ne valeva ancora la pena? Tutto quell’amore,
tutta quella devozione, quel legame tanto profondo… potevano giustificare
l’esistenza di un tale sentimento di smarrimento e vuoto, di annientamento?
Il ragazzo si sentiva ancora sul punto
di scomparire, con la pressante sensazione di aver perso se stesso. E allora
tanto valeva andare via, andare via come scelta personale, andare via perché
quel legame si affievolisse. Era folle, Asahi, a pensare una cosa del genere,
ma era disperato all’idea che lui e Noya fossero
legati fino a questo punto, che se mai gli fosse successo qualcosa lo avrebbe
ferito, annientato. Sentiva su di sé una pressione che mai avrebbe pensato di
avere: che sarebbe successo se si fosse infortunato mentre giocavano? O se
magari fosse di nuovo caduto, abbattuto da una sconfitta? Yuu
l’avrebbe sentito? Avrebbe intaccato il suo essere, la sua inestinguibile
forza? Avrebbe forse condizionato la sua essenza di Libero e ragazzo
meraviglio? Sarebbe cambiato a causa sua, si sarebbe bruciato, perso nella sua
debolezza.
Asahi non voleva avere alcuna parte in
una simile aberrazione – piuttosto lo avrebbe lasciato andare. Sì, si sarebbe
allontanato, si sarebbe preso colpa e pena ed avrebbe lasciato che Noya splendesse di nuovo solo per se stesso. E che lui,
nell’ombra dei suoi timori, tornasse ad essere qualcosa.
«Azumane?! Asahi?!».
Quella voce, che lo chiamava, gelò il
sangue nelle vene del ragazzo. Si guardò intorno, cercando di capire da dove
provenisse e fece appena in tempo a nascondersi dietro ad un albero del
giardino, prima di vedere Ennoshita che, insieme a Yamaguchi e Tsukishima, si
dirigeva proprio verso di lui. Trattenne il fiato, spalle all’albero, sperando
che non guardassero nella sua direzione e smettessero presto di cercarlo da
quella parte.
«Azumane! Azumane, dove sei?!», la voce di Ennoshita
suonava preoccupata ed Asahi dovette trattenersi dal non rispondere. Ma
rispondere sarebbe equivalso a dover poi dare spiegazioni del suo
allontanamento e davvero il ragazzo non ne aveva alcuna voglia. Riusciva a
malapena a spiegarlo con logicità a se stesso, figurarsi metterlo in parole per
qualcun altro.
S’accucciò, scivolando rudemente contro
la corteccia dell’albero e stringendosi le braccia contro il petto. Tremava, il
dolore della lontananza da Noya, dei dubbi, della sua
scelta che gli toglievano calore dal petto.
***
Erano passati due giorni da quella
mattina, tre dalla notte dell’incidente. Le cose, dall’esterno, sembravano volersi
avviare verso una ritrovata normalità, se non fosse stato per il fatto che i
medici non avevano ancora spostato Daichi dalla
Terapia Intensiva e questi non s’era ancora svegliato. I ragazzi erano tornati
a scuola per le ultime settimane prima della pausa estiva e cercavano in qualche
modo di riprendere la loro routine, sebbene fossero ancora abbastanza scossi da
tutto quello che era successo.
Il coach Ukai
ed il professor Takeda avevano deciso di lasciarli
liberi durante gli allenamenti, sicché a semplici partitelle, i più alternavano
lunghe conversazioni, che non avevano mai chissà quale profondità, ma servivano
a fare i conti con tutto quello che era stato, con le assenze del Capitano e
del Libero - Noya sarebbe stato dimesso la mattina
dopo, con la raccomandazione di tornare ogni giorno per almeno due ore di
riabilitazione per le successive quattro settimane.
A guardare la situazione dall’interno,
ad ogni modo, erano davvero poche le cose tornate a posto. Ad esempio, non era
tornato a posto Suga, sempre un po’ distratto e così poco sorridente da
ispirare tristezza solo a guardarlo; non era tornato a posto neanche Asahi che,
in disparte, pareva non voler parlare più con nessuno della squadra e a stento
si rivolgeva agli alzatori per chiamare la palla durante le sporadiche partite
d’allenamento. Tanaka poi era più nervoso del solito
ed Hinata più spento, sempre preoccupato, con un
ruolo di responsabilità che non gli era mai appartenuto, ma che voleva
rispettare il più possibile – doveva tantissimo a Sugawara.
Il resto della squadra sembrava doversi adeguare a quel nuovo clima e sperava
solo che col ritorno di Daichi e Nishinoya
le cose potessero effettivamente sistemarsi.
Sapevano ovviamente. Sapevano che il
Capitano non s’era ancora svegliato, che il giorno seguente avrebbero finalmente
provato a togliere i sedativi e vedere come avrebbe reagito il corpo. E
sapevano che Azumane non era più tornato in ospedale,
che di fatto non aveva più visto Noya dall’incidente
– sebbene non se ne spiegassero la ragione, si chiedevano come potesse succedere
una cosa del genere tra due compagni
e se magari fosse semplicemente colpa di un dolore che loro non vedevano ma che
Asahi provava ancora.
«Domani andrò in ospedale appena finite
le lezioni, ho già avvisato il coach che non sarò qui per gli allenamenti. Mi
chiedevo se ti andasse di venire con me».
Suga aveva parlato con gentilezza, ma
una certa stanchezza appesantiva la sua voce: non aveva quasi chiuso occhi in
quelle notti, il pensiero fisso di Daichi a
riempirgli la mente e togliergli il sonno – davvero non comprendeva come Asahi
potesse star separato da Noya e non provare nulla.
«Sai che non voglio venire». Anzi,
sceglieva di farlo.
«Continua a chiedere di te. Gli abbiamo
detto che stai bene, che sei solo sconvolto da tutto quello che è successo, che
presto…».
«Non vi ho mai chiesto di fare una cosa
del genere!». La sua voce non era alta – Asahi non gridava quasi mai – ma suonò
allo stesso modo tagliente. A Suga però sfuggì la disperazione che tratteneva
«Smettetela di ripetergli qualcosa che non è vero. Non voglio andare in
ospedale, non voglio vederlo».
«Sai che domani sarà dimesso, vero?
Probabilmente torneremo insieme…».
Azumane non lo
stava più ascoltando. Aveva finito di sistemare le ultime scope nello stanzino:
aveva dato uno sguardo veloce a quella, un po’ più alta delle altre, che aveva
aggiustato quando era tornato in squadra e la sua semplice visione lo aveva
ferito. Scattò, come ad allontanarsi da qualcosa di troppo caldo, ed uscì fuori
senza neanche salutare. Koushi lo guardò andare via,
senza sapere che cosa pensare. Perché si comportava in quel modo? Perché aveva
alzato quel muro e sembrava non voler più farsi toccare da nessuno? Tanaka, poco lontano dall’alzatore, fece per seguirlo, ma
questi lo fermò con un gesto del braccio.
«Lasciagli ancora un po’ di tempo»,
disse.
«Quanto tempo? Sono passati giorni: Noya…».
«Lo so. Magari domani andrà meglio».
Suga si stava ingannando con quella
frase da quando tutto era cominciato: ingannava gli altri ed ingannava se
stesso, perché non c’era alcuna sicurezza che il giorno dopo sarebbe andata
meglio e anzi dovevano essere grati anche solo per il fatto che non andasse
peggio, perché di scenari più scuri di quello riusciva ormai ad immaginarne
tantissimi.
Quando andarono via tutti, Hinata e Kageyama si accodarono a
Koushi: avevano preso a farlo quasi senza pensarci e
la cosa sembrava troppo giusta per smettere – non volevano che Suga stesse da
solo e dall’incidente sembrava improvvisamente non essergli rimasto più nessuno
accanto. Dal suo canto, l’alzatore non poteva non apprezzare quella presenza: Oikawa avevo visto giusto quando gli aveva consigliato di
non isolarsi, perché era questo il rischio più grosso in un dolore, e lui stava
facendo di tutto per non ricadere in quell’istinto, per non lasciare che le sue
paure, le sue incertezze gli togliessero anche l’affetto che ancora aveva.
Quando si salutarono, davanti casa di Koushi, Hinata lo abbracciò
stretto: avrebbe voluto con quel gesto trasmettergli tutto il suo calore,
sostenerlo come lui aveva fatto quando Kageyama era
stato lontano. Suga lo strinse a sé, bisognoso.
La notte era il momento peggiore. Il
ragazzo semplicemente non poteva prendere sonno: non appena gli occhi stavano
per chiudersi ed il corpo abbandonarsi a quel riposo, la mente s’allarmava e i
pensieri tornavano fissi a Daichi, a quello che
magari sarebbe potuto succedergli mentre Suga dormiva. E così restava sveglio e
il buio pareva amplificare le sue paranoie, fissarle ed ingigantirle,
aggravarle per il semplice fatto che potevano avanzare verso la peggiore delle
ipotesi. Spesso non avevano davvero una logica le sue paure, ma Koushi era troppo stanco per potersene rendere conto,
troppo spaventato. Non era pronto a lasciar andare il suo compagno, non era pronto a perdere le sfumature di colori che
vedeva e s’era anzi quasi convinto che fosse meglio così, meglio quella stasi a
ciò che sarebbe potuto succedere nel caso, il giorno seguente, Daichi non avesse reagito bene. Nel caso non si fosse
svegliato.
Suga non l’aveva detto, ma quando aveva
chiesto ad Asahi di andare in ospedale con lui, in minima parte lo aveva fatto
anche per non essere solo davanti alla peggiore delle eventualità. Non aveva
voluto chiederlo a nessuno altro perché l’idea di essere un peso, qualcuno di
cui doversi preoccupare, lo infastidiva molto: non s’era mai trovato in una
simile situazione e l’idea semplicemente era inconcepibile. Ma aveva creduto
che con Asahi fosse diverso: avevano un rapporto diverso loro, entrambi
all’ultimo anno, e in quella situazione avrebbero dovuto essere ancora più
vicini.
Mandò il messaggio senza pensarci su
due volte – era sempre stato fin troppo bravo a ponderare le sue scelte, ma
quella volta sentì che non ci fosse niente da controllare, nessuna cosa su cui
pensare. Oikawa gli aveva lasciato il suo numero di
cellulare prima di andare via con Iwaizumi, la
mattina in cui lo aveva aiutato.
Ricevette una risposta quasi immediata
e fu un po’ più sereno.
«Non avrei davvero voluto disturbarti,
ma-».
La mano di Oikawa
sventolò su e giù per scacciare il senso di colpa di Suga.
«Lo faccio con piacere», disse con un
sorriso, mentre entrambi entravano da uno degli ingressi laterali dell’ospedale.
Suga gli aveva dato appuntamento lì
alla fine delle lezioni. Superare quella mattinata era sembrato assurdamente
difficile: la sua incapacità di concentrarsi era aumentata man mano che si
avvicinava il termine delle lezioni e quando finalmente era potuto uscire,
s’era ritrovato tutti i ragazzi della Karasuno
all’ingresso. Non avevano fatto nulla, erano stati lì a guardarlo e lui aveva
guardato loro senza replicare: era parsa un’investitura, un dire che sarebbero
stati con lui per tutto il tempo, che la distanza era davvero poca cosa. Forse
per questo s’era sentito un po’ in colpa quando aveva visto il capitano dell’Aoba aspettarlo come avevano concordato. Eppure non si
pentiva di averlo contattato: quell’estraneo riusciva a dargli la libertà e la
sicurezza necessarie ad essere debole – qualcosa che non era ancora disposto a
fare davanti ai suoi amici.
Oikawa, da
parte sua, non gli chiese perché fra tutti avesse chiamato proprio lui:
immaginò che l’averlo aiutato fosse parte del motivo e che il non conoscersi
poi così bene dovesse sicuramente aver giocato un ruolo altrettanto importante.
Per il resto aveva accettato di buon grado quell’imprevisto: quella sera Hajime e Kageyama avevano
pianificato di vedersi.
«Mi salvi da un pomeriggio di noia,
credimi», aggiunse, restando sul vago, ma Suga notò lo sguardo dell’altro, il
modo in cui s’offuscò e toccò terra, nascondendosi, cercando di sviare e non
farsi notare. Avrebbe dovuto dire qualcosa? Era la seconda volta che quel
ragazzo diventava improvvisamente serio e lui non sapeva che cosa fare.
«Mi dispiace se tutto questo sta…
facendo riaffiorare brutti pensieri. Io… Hinata mi ha
spiegato come stanno le cose fra voi e forse… non sono io quello che dovrebbe
lamentarsi». Oikawa sorrise. A Suga quel sorriso parve
fare male.
«Il fatto che il mio legame sia
incasinato non toglie nulla al dolore del tuo. E se per questo non hai detto
nulla agli altri ragazzi della tua squadra, non credo dovresti farti simili
problemi. Per il resto… io e Hajime stiamo bene.
Insomma, il meglio che possiamo stare. E sono felice con lui, davvero felice».
Fece spallucce, tornò l’Oikawa di sempre, quello
sorridente e non troppo pensieroso, quello fin troppo entusiasta e non dal viso
tanto scuro.
Erano più o meno le stesse parole che
gli diceva Hinata, pensò Suga, ogni volta che ne
parlavano.
Quando arrivarono davanti alla stanza
di Daichi, a Suga girò la testa: la porta era aperta
e lì davanti il padre del ragazzo discuteva alquanto animatamente con uno dei
medici, quello più anziano che s’era occupato da vicino del suo caso;
dall’interno, invece, non parevano arrivare voci e l’alzatore non sapeva se
fosse o meno un buon segno. Si fermò – Oikawa mezzo
passo dietro di lui – ed attese un segnale da parte dei due adulti che, però,
presi nel loro discorso, quasi non lo videro. Allora Suga si fece forza ed
entrò dentro.
Quello che vide fece nascere in lui la
migliore delle sensazioni possibili, un senso di liberazione e gioia che lo
invasero quasi stordendolo, lasciandolo così leggero che gli parve di volare: Daichi era sveglio, Daichi aveva
gli occhi aperti – occhi castano scuro, di una sfumatura che Koushi riteneva bellissima – e parlava con sua madre, in
quella che gli pareva la più normale delle situazioni. Brillava agli occhi di
Suga di uno splendore che mai era stato tanto forte, che si caricava della
vitalità che il ragazzo ora stava mostrando. Finalmente.
«Oh, Koushi».
Nella sua gioia, Suga non percepì la strana sfumatura – preoccupata, si sarebbe
detto – che la voce della madre di Daichi ebbe nel
pronunciare il suo nome «Sei arrivato».
A quelle parole, il capitano della Karasuno si voltò verso di lui, giusto in tempo per
ricevere da Suga un forte abbraccio – era così felice, l’alzatore, che non si
preoccupò dei convenevoli: tutto quello che voleva era stringere il suo compagno a sé, sentire il suo calore,
petto contro petto, respirare il suo odore, sentire in quella stretta tutto il
bene che si volevano. Ma non successe: nessuna stretta rispose a quella con cui
Koushi stava abbracciando Daichi,
non ci furono mani ad accarezzarlo e la testa del bruno si tenne a pochi
centimetri da quella dell’altro, quasi si scansasse con accuratezza e fuggisse
quel contatto forzato. Suga si ritrasse lentamente, in modo sgraziato e guardò
prima lui, poi la donna, con sorpresa, senza capire.
«Daichi,
cosa…?».
«Scusami». Nella sua voce non c’era
alcuna particolare inflessione, si sarebbe potuto rivolgere allo stesso modo ad
uno sconosciuto che aveva urtato, camminando per la strada – solo un lieve
imbarazzo la colorava. «Scusami davvero, io… io non ho idea di chi tu sia».
Se quello voleva essere uno scherzo, Koushi non stava affatto ridendo. Il ragazzo spostò
nuovamente il suo sguardo da Daichi alla madre e di
nuovo su Daichi, perché la mente non aveva alcuna
intenzione di cercare di capire quello che le orecchie avevano sentito. Che
cosa stava succedendo? Come poteva essere che lui…
«Si tratta di Amnesia retrograda transitoria. Il trauma cranico che ha riportato ha
causato una perdita di memoria estesa a tutto ciò che conosceva prima
dell’incidente». Il medico doveva essere entrato in stanza, pensò Suga, perché
la sua voce era vicina, ma lui non l’aveva sentito. Non sentiva nulla. «Ad ogni
modo, è molto probabile che sia qualcosa di temporaneo e che il ragazzo possa
lentamente recuperare gran parte dei suoi ricordi. Tuttavia, non possiamo
sapere né quando né come accadrà».
Koushi avrebbe
voluto ridere e piangere nello stesso tempo, ma se ne stava lì, in mezzo alla
stanza, con volto terreo ed espressione indecifrabile, gli occhi appena un po’
spalancati, fissi in quelli anonimi di Daichi.
«Io ti conosco, vero?». Le sue parole
facevano male, ma il ragazzo annuì in risposta. «Sei stranamente più luminoso
degli altri. Quando ti guardo, intendo – hai… come un alone di luce tutto
intorno. C’è qualcosa in te, qualcosa che non ricordo ma che mi dice che posso
fidarmi, che mi hai voluto bene».
Oh. Quindi è così che funzionava. Daichi non ricordava neanche il suo stesso nome, ma poteva
vedere i colori e sentire che Suga era
importante. Koushi sentì vagamente il medico dire che
la memoria affettiva probabilmente era rimasta intatta, che pur non ricordando
il ragazzo provava determinate emozioni, che era un buon segno perché queste
avrebbero potuto innescare dei ricordi veri e propri. A lui non importava.
Sentì un dolore tremendo pervaderlo tutto: Daichi
aveva parlato al passato, come qualcosa che era successo e finito. Era questo
che restava di loro? La sensazione che fossero stati importanti? Erano stati
soltanto il fuoco di un fiammifero, morto ancor prima di poter davvero
bruciare? Quello era un modo tutto nuovo di essere invisibili e Suga non voleva
abituarsi.
«Sc-scusate,
io… io devo uscire. Ho…ho bisogno di prendere aria».
Suga barcollò e nel voltarsi non scorse
gli occhi turbati di Daichi. Si gettò fuori dalla
stanza con le ultime forze che gli restavano: sentiva che avrebbe vomitato se
fosse stato all’aperto invece che nel corridoio di un ospedale. Aveva
completamente rimosso la presenza di Oikawa lì fuori
ad aspettarlo e quando se lo ritrovò accanto non seppe come spiegare quello che
era successo.
«Lui- Lui- Non ricorda-», buttò fuori,
senza guardarlo negli occhi «Ti prego, ti prego, chiama qualcuno. Ho bisogno…
ho bisogno di qualcuno».
Tooru lo portò
lontano da quella stanza e lo fece sedere prima di prendere il cellulare. Pensò
che la cosa migliore fosse avvisare Hinata perché
venisse e intanto consultarsi con lui sul da farsi: Suga non aveva detto più
nulla dopo quelle poche parole e sembrava fissare il vuoto in un apparente
stato di shock che, in realtà, lo preoccupava non poco. Era diverso
dall’attacco di panico che aveva cercato di controllare la volta precedente:
adesso anche lui non sapeva come muoversi intorno al ragazzo.
La risposta di Hinata,
fortunatamente, non si fece attendere – sarebbe arrivato quanto prima e intanto
gli chiedeva di restare accanto a Sugawara e vedere
magari se Nishinoya era stato già dimesso: qualche
volto amico non avrebbe potuto che fare bene. Oikawa,
però, pensò che non sarebbe potuto andare troppo lontano per cercare il Libero
della Karasuno se Suga non si fosse mosso con lui.
«Ehi, ascolta: Hinata
dice che il tuo Libero, l’altro ragazzo che è stato ricoverato qui, doveva
essere dimesso questo pomeriggio. Magari è ancora nei paraggi – ti va se lo
cerchiamo? Camminiamo un po’, magari lo contattiamo». Oikawa
non voleva trattarlo con accondiscendenza né girargli intorno come uno stupido,
ma fortunatamente Koushi recuperò quel po’ di
lucidità necessaria per capirlo ed annuire alla sua richiesta.
S’alzò e prese a camminare verso le
scale – impressionante come in pochissimi giorni avesse imparato tanto bene ad
orientarsi tra quelle mura; la stanza in cui era stato ricoverato Noya era al secondo piano, lungo il corridoio di destra
rispetto alle scale e i due ragazzi vi si avviarono in silenzio. L’alzatore
della Karasuno camminava come per inerzia, incapace
di pensare: sentiva che se si fosse fatto trascinare dai pensieri non sarebbe
più stato in grado di emergere dall’abisso della sua nuova disperazione; il
capitano dell’Aoba poteva facilmente immaginare il
dolore che l’altro stava affrontando e taceva perché ricordava bene che, quando
era stato infelice per il suo compagno,
non aveva voluto sentir parlare nessuno. Era cose che, purtroppo, pareva più
facile poter affrontare da soli.
«Vedrai
che in men che non si dica sarai tornato in perfetta forma! Non dimenticare
quello che ha detto Tanaka!».
La voce di donna che proveniva dalla
stanza di Nishinoya fece fermare i ragazzi sulla
soglia, indecisi sul se entrare rischiando di dar fastidio.
«Sì, Tanaka
farà le tue veci mentre sarò a scuola, mamma, credimi», rise il Libero che, di
spalle, si infilava con una certa difficoltà la maglietta, nonostante il
braccio ingessato dal polso a sopra il gomito gli impedisse gran parte del
movimento. Non vide Suga dietro di lui, finché non fu la donna a guardarlo con
una certa sorpresa – doveva avere davvero una brutta cera se suscitava una
simile espressione, pensò Koushi.
Quando anche Noya
s’accorse di Oikawa e Sugawara,
sorrise in modo sincero, lasciando la maglietta infilata a metà per andare verso di loro. Tooru si rese conto con un certo fastidio che stava
diventando davvero bravo a riconoscere un certo tipo di tristezza nelle persone,
perché anche quella del Libero era visibile, nonostante tutto, e si chiese se
poi il suo compagno fosse più passato
a trovarlo. L’Asso, ricordò; Azumane, che non era
stato con lui neanche nel momento in cui s’era svegliato. Improvvisamente,
sentì il chiaro bisogno di avere Hajime accanto –
tutta quella pesantezza, quella serietà lo stavano logorando.
«Suga! Hai visto? Mi hanno già dimesso
– tra poco la vostra Divinità Guardiana
tornerà a proteggervi! Sei stato da Daichi? Come
sta?».
Koushi sussultò
a quella domanda, guardandolo dritto negli occhi: era sempre così, con Noya – era la persona più diretta che conoscesse e quella
con cui si sentiva più tranquillo a parlare, se si escludevano i ragazzi del
terzo anno. Nella sfortuna, era stato fortunato ad avere proprio lui lì.
«Cosa… cosa è successo?». Yuu intanto aveva chiaramente compreso che qualcosa non
andava.
Suga si mosse verso di lui senza dire
nulla, fino ad arrivare ad un soffio dal suo corpo; non aveva mai smesso di
guardarlo e man mano che s’era avvicinato, l’espressione di Noya
era cambiata, diventando prima seria e poi triste. Quando l’alzatore gli si
fermò davanti i tuoi occhi erano pieni di lacrime e Yuu
dovette trattenersi dal non avere la stessa reazione: qualunque cosa fosse
successa con Daichi sembrava averlo spezzato.
«Sono così distrutto, Noya… così solo…». La verità era che Suga s’era visto
strappare i due più grandi sostegni che aveva in una sola volta: Daichi in quella situazione e Asahi che ormai a stento gli
parlava. Per un ragazzo del terzo anno ed uno così sensibile come Koushi, anche se non lo dava a vedere, era dannatamente
difficile mostrarsi debole davanti agli altri, che guardavano a lui come ad uno
dei più grandi del gruppo, che traevano forza dalla sua presenza. Ora, però,
Suga non poteva più reggere quel ruolo. Non ce la faceva.
Calò la testa sulla spalla di Nishinoya con lenta fatalità, fino a nascondere lo sguardo
nell’incavo della spalla sana. Yuu lo strinse a sé
con il braccio che poteva muovere e per la prima volta la differenza di altezza
in quel gesto parve rendere lui un gigante e Suga un bambino.
«Sono qui, Suga. Va tutto bene, sono
qui».
Yuu si
premurò di accompagnare Suga fino a casa – l’alzatore aveva insistito per
andarsene da solo, una volta calmatosi, ma Noya non
gli aveva permesso di muoversi e, aiutato anche dalla madre e da Oikawa, lo aveva portato in macchina fino alla sua
abitazione. Durante tutto il percorso non avevano più parlato: non c’era poi
molto da dire una volta che Koushi aveva spiegato
come stavano le cose con Daichi, ma Noya lo aveva tenuto accanto a sé per tutto il tempo e
Suga, stavolta, aveva messo da parte la sua reticenza da adulto ed accettato un
po’ di calore umano, un po’ di sincero conforto. Si era chiesto, mentre
attraversavano la città, che cosa il Libero avesse pensato di lui, quando gli
era crollato praticamente addosso, ma in
breve aveva lasciato perdere quella preoccupazione, riservandosi delle
dovute scuse una volta che la situazione fosse almeno un po’ migliorata. Per
ora, Yuu gli teneva compagnia e tanto bastava.
«Sei sicuro di non voler restare da me
almeno per qualche ora?», gli chiese nuovamente il ragazzo «Sono certo che io e
Tanaka potremmo distrarti almeno un po’ o aiutarti a
pensare alla prossima cosa da fare».
«No. Non serve», sussurrò Koushi, con ancora la testa sulla sua spalla «Forse ora ho
solo bisogno di stare un po’ tranquillo e rifletterci con calma». Trattenne a
stento un “mi dispiace”: sapeva che Noya non avrebbe
apprezzato.
«D’accordo», accettò il Libero «Ma puoi
chiamarmi, per qualsiasi cosa», gli ricordò alla fine. Non gli aveva detto che
quando Suga era scomparso per qualche minuto in bagno, per sciacquarsi il viso
sporco di lacrime, il capitano dell’Aoba gli aveva
parlato: poche parole, davvero, ma dense. “Non
lasciatelo solo”, aveva detto “Non
riesce chiedere aiuto, ma ne ha bisogno. Soprattutto dai suoi compagni di
squadra e da quelli del suo stesso anno”. Non poteva parlare con assoluta certezza per
gli altri, ma lui non aveva nessuna idea di abbandonarlo, men che meno in un
simile momento.
Un po’ a malincuore, quando furono
arrivati davanti casa sua, Noya lasciò scendere Suga,
salutandolo con affetto e ripromettendosi di farsi sentire e che si sarebbero
poi senz’altro visti il giorno dopo a scuola. L’alzatore annuì, raccomandandosi
di stare attento e prendersi cura di sé e ringraziò la signora per aver avuto
tanta premura ad accompagnarlo.
«Andiamo a casa?», chiese la donna,
quando riprese a guidare.
«No. Andiamo da Asahi».
La madre di Yuu
guardò per qualche istante nello specchietto retrovisore e scorse un espressione tesa sul viso del
figlio; non avrebbe mai voluto vederlo in quello stato e se fosse spettato a
lei, sarebbe già andata a parlare con quel ragazzo che aveva improvvisamente
preso a rendere tanto triste il suo bambino. Ma aveva anche imparato a non
intromettersi nella vita del figlio, non in questi casi almeno, e per quanto
avrebbe fatto di tutto pur non portarlo da chi poteva ancora ferirlo, sapeva
che la sola cosa di cui Yuu aveva bisogno al momento
era vedere Asahi e parlargli. Capire.
Non disse nulla, quindi; non commentò
né gli diede pareri, ma guidò con calma
fino alla casa della famiglia Azumane. Il ragazzo le
disse di non aspettarlo, che sarebbe tornato a piedi e lei annuì appena – aveva
capito che Yuu non voleva essere visto, nel caso
avessero discusso fuori casa, o che comunque non avrebbe voluto affrontare lei
subito dopo aver affrontato Asahi, nel caso le cose non fossero andate per il
meglio. Lo salutò e gettò occhiate verso di lui, dallo specchietto, finché non
ebbe svoltato.
Solo quando l’automobile della madre fu
sparita alla prima volta, Noya si decise a bussare.
Attese qualche istante prima che la signora Azumane
venisse ad aprire la porta. Lo guardò con un sorriso e lo sguardo un po’ triste
– Yuu capì che non doveva aspettarsi qualcosa di
facile.
«Asahi è in camera sua. Sono contenta
che tu sia venuto a trovarlo. Come stai?».
Noya fece uno
dei suoi radiosi sorrisi, alzando un pollice in segno d’assenso.
«Sono di ferro, signora, ancora non
l’ha capito?», rise «Questo non è che un graffio», minimizzò.
La donna gli scompigliò i capelli con
una familiarità che poteva concedersi da tempo: conosceva quel ragazzino da due
anni e da quasi un anno il legame lo aveva unito a suo figlio, consolidando
l’affetto che i due già provavano l’uno per l’altro. Non credeva di far torto a
nessuno quando pensava a lui come ad un altro figlio, per cui sperare sempre e
solo il bene.
Noya non
disse più nulla, ma si diresse verso la stanza si Asahi, su per le scale. Si
fermò per qualche istante contro la porta e per la prima vola si concesse di
pensare davvero a quello che stava per fare. Era per la prima volta davvero
solo con i suoi pensieri ed i suoi dubbi e tutti gli sforzi che fino a quel
momento avevo fatto per non pensare a ciò che stava succedendo vennero meno;
doveva essere così, dopotutto, doveva concedersi di pensare a cosa sarebbe
significato discutere con Asahi e doveva farlo ora che era da solo, prima di
vederlo. Per i giorni che era stato in ospedale s’era proibito di pensare al
perché: perché il suo compagno non
era mai venuto a vedere come stava? Perché era andato via la sera stessa
dell’incidente, perché non s’era preoccupato per lui? Lo aveva nascosto agli
altri, fingendo che andasse tutto bene, ma da quando s’era svegliato, il legame
faceva stranamente male, come un’eco di sottofondo, un sottile dolore che non
lo faceva stare tranquillo; aveva creduto che sarebbe passato, che fosse dovuto
all’incidente e che non appena Asahi si fosse presentato alla porta della sua
stanza d’ospedale sarebbe sparita ogni cosa, ma non aveva fatto altro che
diventare più insistente, più persistente. Lo sentiva suo, aveva idea che
avrebbe dovuto imparare a conviverci. Che Asahi non sarebbe mai tornato.
Dopotutto, non era lui ad essere andato a casa dell’Asso?
E, si rese improvvisamente conto Noya, il solo pensare ad una simile eventualità lo
terrorizzava.
Quando si decise finalmente a bussare
alla porta, il giovane Libero aveva meno della metà della sicurezza con cui era
entrato in quella casa e il doppio dell’urgenza di vedere il suo compagno e sapere come stavano
effettivamente le cose. L’espressione sorpresa e forse spaventata con cui Asahi
lo accolse, facendo scorrere il pannello, non fece altro che agitarlo ancora di
più. Noya non era mai stato tanto nervoso: era
abituato ad affrontare tutto ciò che gli veniva in contro di petto e a testa
alta. Ma le cose con Azumane cambiavano
drasticamente.
«C-ciao. Ero convinto che tu… Quando ti
hanno dimesso?». Nonostante tutto l’Asso non poté trattenersi dall’osservarlo
per bene, alla ricerca di lividi o ferite – le braccia e le gambe, coperte a
metà dai vestiti, lasciavano intravedere qualche graffio; la cosa peggiore era
quel braccio ingessato.
«Questo pomeriggio, poco fa. Posso
entrate?». Noya non voleva sembrare tanto serio, ma
era più teso di quanto pensasse. Si sentiva sull’orlo di una battaglia che non
avrebbe voluto mai affrontare.
«Yuu, io…». Asahi invece non aveva proprio idea di cosa
fare: che cosa aveva deciso? Qual era il suo proposito finale? Se n’era andato,
lo aveva lasciato solo, ma adesso? Sapeva che prima o poi sarebbe stato
dimesso, che prima o poi questo confronto sarebbe avvenuto. Come faceva a
spiegargli qualcosa che neanche lui era riuscito a comprendere in pieno? Quel
senso di soffocamento, come se avesse la testa sott’acqua e non potesse
prendere fiato, che lo attanagliava da quando era successo l’incidente?
«Hai avuto paura. Lo so, Suga me ne ha
parlato: non sei stato molto in te». Noya parlava e dava
tempo ad Asahi di pensare, ma contemporaneamente rimpiccioliva l’entità del
problema, rendendo senza saperlo il tutto più difficile «Ma adesso sono qui.
Guardami: sto bene!».
Asahi avrebbe voluto ridere e
stringerlo forte: era la sua àncora, il suo personale coraggio. Se quella
sensazione di vuoto non fosse stata tanto pesante nel suo cuore, quelle poche
parole sarebbero bastate a farlo tornare sui suoi passi, a ricordargli che con Noya poteva superare tutto. Ma non fu così – e l’Asso prese
la peggiore delle decisioni.
«Suga si sbaglia. Non si è mai trattato
di paura».
Yuu lo
guardò sorpreso: aveva pensato di mettere da parte la rabbia ed il dolore che
stava provando, di comprendere e parlarne, di andare avanti. Aveva sbagliato
comunque?
«Non ho avuto paura. In realtà, non ho
sentito proprio nulla».
Ad Asahi venne fuori tanto bene quella
bugia che fu impossibile tirarla indietro. Non seppe come, ma mentire fu estremamente
facile, come cacciare in fuori l’aria, forse perché per un attimo ebbe la
sensazione di riuscire a mentire anche a se stesso, nascondendosi dietro
qualcosa di molto più facile. Perché, paradossalmente, era molto più facile
dire qualcosa del genere che spiegare i propri dubbi. I legami si
affievolivano, i legami potevano spezzarsi. Era più facile che confessare di
avere paura perché la loro connessione, invece, era troppo forte. Forte da
mandarlo nel panico più totale.
«…Cosa? Cosa intendi? Come può
essere…?». Noya però non capiva: come poteva essere
possibile? Non lo aveva sentito? Non s’era preoccupato? Ma il loro legame, la
loro connessione… Asahi era letteralmente l’unica persona su cui Yuu avrebbe sempre potuto contare, quella di cui sentiva di
non poter fare a meno… Che cosa significava questo?
«Mi dispiace. Io non avevo idea di come
dirtelo – è stato… è stato Suga a chiamarmi quando è successo: credeva che
stessi troppo male per muovermi ed invece… io non ti ho sentito, Yuu. C’è qualcosa che non va, il nostro legame non è così
forte come pensavamo… forse… forse non lo è mai stato».
A Noya parve
improvvisamente girare la testa. Ad Asahi, invece, mancava l’aria. Che cosa
stava facendo? Ingigantiva quella bugia ad ogni parola che aggiungeva, spinto
dalla forza della disperazione. Non credeva in nulla di ciò che stava dicendo e
allo stesso tempo non riusciva a smettere: aveva dato inizio a qualcosa che ora
pareva alimentarsi da sé, spinto dall’incontrollabile capacità di fare la cosa
più sbagliata nel momento più sbagliato. Asahi si rendeva a malapena conto che
quella bugia stava distruggendo entrambi.
«Ma i colori…», ebbe la forza di
sussurrare il Libero – sentiva il bisogno di sedersi, quasi come se le gambe
che lo avevano retto per tante e faticose partite ora avessero decido di
abbandonarlo senza apparente motivo.
«Ci siamo illusi che bastassero, ma Yuu, i colori vanno e vengono… spariscono… forse non è mai
stato destino, forse non era con noi due che doveva succedere». Forse non ti merito, forse starai meglio
senza di me, più al sicuro, più tranquillo, più te stesso.
Noya restò a
pensarci per qualche istante portandosi la mano al petto e stringendo la
maglietta. Era questo allora? Il dolore che sentiva da quando s’era svegliato e
che aveva attribuito alla lontananza di Asahi era questo in realtà? Il loro
legame che cedeva, che nel momento fondamentale si rivelava insufficiente…? Non
erano abbastanza uniti da sentirsi, i loro colori non bruciavano con tutta
l’intensità che era loro possibile, le loro anime non erano davvero sulla
stessa lunghezza. E lui per tutto questo s’era illuso di averlo trovato il
proprio compagno e che fosse Asahi.
Il suo Asahi…
L’Asso vedeva il dolore, la delusione,
lo sconforto dipinti sul volto della sola persona di cui gli importava più che
di se stesso e l’idea di essere la causa di tutto quello lo faceva sentire male.
Cercava di ripetersi che era per il suo bene, per evitargli qualcosa di gran
lunga peggiore, per liberarlo da un compagno
che aveva paura, che prima o poi gli avrebbe fatto del male e non se lo sarebbe
mai perdonato, ma il loro legame pareva ferito da ogni parola e faceva
dannatamente male – era forte: tutte le bugie sulla sua debolezza parevano
averlo reso, per ripicca, ancora più forte, perché entrambi sentissero il male
che Asahi stava facendo loro.
«Yuu,
ascolta, io…». Eccolo, il primo momento di esitazione. Asahi non voleva far
loro del male. Non volontariamente.
«Va tutto bene». Noya
si accorse appena che una lacrima era rovinata giù, lungo la guancia, andandosi
a perdere tra le pieghe del collo «Devi solo… dammi solo del tempo per capire
che ci stiamo lasciando, che mi stai lasciando».
«Io non ti sto-». Oh. Come poteva
essere che, pur non sapendo, Yuu avesse centrato il
punto della situazione? Perché Asahi la verità la sapeva: lui lo stava
lasciando. E in modo subdolo e meschino, con l’inganno. Eppure, Noya riusciva a dire le cose giuste, a ferirlo e punirlo
per quella tortura.
«Certo che sì. Perché ti direi di
provarci comunque, ti direi di guardare Kageyama ed Hinata, prendere esempio da loro, da come abbiano scelto di stare insieme, nonostante tutto,
perché si sono trovati al di là di ciò che aveva deciso il loro legame, ma se
tu volessi davvero farlo, crederci,
avresti cominciato in questo modo la conversazione, invece di dirmi soltanto
che non mi hai sentito. È ovvio che non ci credi, che non vuoi provarci. E ho
mentito, non va bene, non va per nulla bene».
Noya cercò di
non alzare la voce, ma questa saliva su fino ai toni più alti, ispirata dalla
rabbia e dal dolore che fino ad allora aveva contenuto nel petto. Perché al di
là di tutto, Asahi aveva aspettato che fosse lui a cercare il dialogo, dopo
giorni senza farsi sentire, e aveva rinunciato a tutto, stava rinunciando a
tutto senza neanche lottare per loro. Che senso aveva, per lui, volerlo fare,
se il suo compagno non era disposto a
tanto?
Asahi avrebbe voluto piangere. Quanto
era stato stupido per non rendersi conto che Yuu non
avrebbe mai accettato una simile situazione, vera o inventata che fosse, senza
combattere? Come aveva anche solo potuto pensare che ci sarebbe sceso a patti
senza rispondere, contrattaccare, difendere quello che avevano? Sentiva le sue
forze venire meno e con esse crollare le mura che aveva innalzato intorno a sé
per permettersi di scappare.
Ma come cadevano le sue mura, anche le
forze di Noya si disperdevano e questo lo salvò. Il
ragazzo gli voltò le spalle, facendo qualche passo verso la porta della stanza
– non aveva più senso restare.
«Asahi…?». Si fermò sulla soglia.
Ecco, pensò
l’Asso, se parla ora, se torna sui suoi
passi ed insiste, sono finito. Non ce l’avrebbe fatta a reggere ancora
tutto quel dolore, tutte quelle bugie dette con troppa leggerezza e
l’espressione distrutta, tradita sul volto di Noya.
Se gli avesse chiesto di non allontanarlo, di non allontanarsi, di restare, lui
lo avrebbe fatto. Dopotutto, si rese conto in quel preciso istante, al di là
del dolore e dei dubbi, della disperazione e dell’annientamento che aveva
provato, era Yuu che voleva.
«Suga ha bisogno di te. Senza Daichi, ora sei il solo che possa davvero stargli accanto.
Non lasciare anche lui». Noya non si voltò, poi sparì
oltre la porta, lungo le scale.
Erano passate da poco le nove quando Koushi sentì bussare alla sua porta; la madre si affacciò
con cautela, premurandosi di non fare rumore nel caso stesse già dormendo,
poiché non lo aveva sentito rispondere: lo trovò steso sul letto, gli occhi
chiusi, il viso gettato di lato, stanco. Lo osservò con un po’ di apprensione –
gli pareva di non vederlo sereno da anni, nonostante in realtà fossero solo
pochi giorni – e stava per uscire, quando il ragazzo la chiamò.
«Non volevo svegliarti, mi dispiace».
«Non dormivo». Non dormo da così tanto tempo, mamma… «È successo qualcosa?».
La donna parve pensarci su prima di
rispondere.
«C’è un tuo compagno di squadra alla
porta, ma se vuoi posso dirgli che dormi e mandarlo via». Suga sorrise appena,
con stanca dolcezza.
«È Noya? Gli
avevo detto che non doveva preoccuparsi…».
«No, in realtà si tratta di Azumane».
Koushi rimase
per qualche istante interdetto, senza sapere che cosa rispondere: Asahi era lì?
Voleva vederlo o forse parlagli? Pensò che non sapeva se era in grado di
reggere un nuovo confronto, ma allo stesso tempo aveva davvero voglia di stare
con lui, perché in quei giorni gli era mancato davvero tanto. Ad ogni modo,
prima ancora di poter decidere, fu proprio la voce dell’Asso a sorprenderlo.
«Mi-mi dispiace… so quanto sia
maleducato venire su senza permesso ma… Ho davvero bisogno di stare un po’ con
te, Koushi».
Suga non sarebbe mai riuscito a dire di
no a quella richiesta: Asahi era uno dei suoi migliori amici, dopotutto, e il dolore
che provava poteva leggerlo, uguale, nei suoi occhi bassi, nel modo in cui si
torturava le mani o nel lieve pallore del suo viso. S’erano allontanati, si
rese conto, in un momento in cui avrebbero potuto farsi forza a vicenda e anche
se in ritardo, Koushi non chiedeva altro. La
delusione per averlo visto andare via non contava più niente ora che lo aveva
di nuovo di fronte.
«Mamma, lascia che Asahi stia qui, va
bene?», chiese con gentilezza, facendo qualche passo verso il ragazzo «Abbiamo
molte cose da dirci».
In realtà, per i primi momenti rimasero
in silenzio, Suga seduto sul proprio letto ed Asahi sulla sedia della
scrivania: il primo non sapeva da dove cominciare per mandare avanti la
conversazione, il secondo non aveva alcuna intenzione – né voglia – di
confessare all’altro quello che aveva fatto, perché parlarne con Suga, tirare
tutto fuori, avrebbe smontato ogni cosa, lo avrebbe reso debole e distrutto
tutta la sua stessa messinscena.
«Daichi non
ricorda». Koushi aveva rinunciato ad organizzare i
suoi pensieri o ad aspettare che lo facesse l’Asso. «Non ricorda di essere al
terzo anno con noi, non ricorda la sua squadra di pallavolo, non ricorda che la
prima volta che ci siamo baciati c’era la neve e che io ero tanto sorpreso da
aver quasi preso uno scivolone. Non c’è nulla di lui – mi guarda e non sa chi
sono. Brilla e non sa chi sono».
Asahi lo guardò senza sapere come si
facesse a parlare. Si sentiva così male con se stesso da aver voglia di
vomitare: Suga soffriva per il suo compagno, si aggrappava a quel dolore perché
lo voleva, voleva stare con Daichi con tutto se
stesso – mentre lui aveva deliberatamente allontanato Noya…
«Non può dimenticarti». Parlò sinceramente
– fu strano tornare ad essere se stesso, non dover fingere «Potrà non ricordare
in questo momento, ma non può dimenticare per sempre, non te, Suga». Gli
sorrise e fece male, perché sapeva che quelle parole valevano anche per se
stesso, perché Noya avrebbe potuto non salutarlo mai
più, odiarlo per sempre e lui non avrebbe mai dimenticato tutto il bene,
l’amore che provava per lui, il motivo per cui lo aveva lasciato andare. Si
sarebbe aggrappato a quello, alla sua felicità per superare il proprio dolore.
Perché, ne era certo, Yuu sarebbe stato di nuovo
felice.
«Resteresti
con me, stanotte?».
«Posso restare con te, stanotte?».
Avevano parlato insieme e risero
entrambi: per un secondo parve loro di essere tornati quelli di prima, prima
dell’incidente, prima che Asahi si allontanasse, prima che Suga si sentisse
tanto solo.
«Mi spiace di non esserti stato
accanto», si scusò l’Asso, senza riuscire a guardarlo negli occhi, mentre
l’altro gli faceva segno di venire con lui sul letto.
«Quando vorrai parlarne, voglio che tu
sappia che sono qui. E che non ti giudicherò».
Asahi era certo che, invece, se gli
avesse davvero raccontato tutto, Suga gli avrebbe fatto una bella lavata di
capo – e se la sarebbe meritata tutta, perché nella situazione in cui era
l’alzatore, mai avrebbe potuto capire che cosa aveva provato. Eppure quelle
parole gli avevano portato un conforto che non s’aspettava. S’accucciò accanto
a lui e nonostante fosse il più alto dei due, Koushi
gli dava sicurezza col calore del proprio corpo, un calore che ad Asahi mancava
tantissimo.
«In un certo senso, ho chiarito con Noya. Ma grazie».
Suga non fece altre domande, non
insistette, ma fece passare una mano lungo il volto dell’amico, in una carezza
che fece sorridere entrambi. Asahi si accucciò, su di un fianco, contro il
profilo del corpo di Suga, che, supino, tirò a sé una delle sue braccia sul
proprio addome. Cercavano la pace, provavano a trovarla nella loro amicizia.
«Staremo bene», sussurrò l’alzatore,
chiudendo gli occhi.
Asahi si lasciò cullare da quella
bugia.
Nello stesso momento, Iwaizumi sussurrava ad Oikawa
che, nonostante il pomeriggio con Tobio, gli era
mancato molto e Kageyama tirava a sé Hinata in un tenero bacio.
***
Col passare dei giorni, tutti si resero
conto che “stare bene” era un concetto davvero troppo vago e che in esso poteva
entrare tranquillamente una casistica così ampia da perdere velocemente il suo
reale significato. Di certo, infatti, nessuno avrebbe potuto negare che la
squadra stesse bene: aveva ripreso ad allenarsi con una certa regolarità e
pareva aver addirittura ritrovato la carica giusta per essere competitiva.
Suga stava bene, mentre con Ennoshita gestiva la squadra e preparava schemi e
formazioni col coach Ukai; Asahi stava bene e anzi
pareva ancora più concentrato nel suo ruolo di Asso. Noya
stava a bordo campo: osservava la squadra e nella sua mente si muoveva come se
fosse in partita - il braccio rotto non pareva disturbarlo troppo ed aveva
rassicurato tutti con un caldo sorriso che sarebbe tornato presto in forma.
Infine c'era Daichi.
Era stato dimesso ed aveva preso da subito a frequentare le lezioni con la
speranza che tornare a fare le cose più quotidiane lo avrebbe aiutato a
ricordare. Dopotutto, stava fisicamente bene e non c’era alcun motivo per
costringersi ad un isolamento più grande di quello in cui era già precipitato.
Diversi ragazzi della squadra erano stati da lui, sia in ospedale che a casa, e
lo avevano aiutato nel suo reinserimento a scuola: a quanto pareva, era molto
amato dai suoi compagni – addirittura, aveva scoperto di essere il capitano del
club di pallavolo!
Nonostante questo, Daichi
continuava ad avere solo sensazione confuse a riguardo e sebbene il calore che
sentiva non gli dispiacesse affatto, non aveva confessato a nessuno di avere
sempre più paura di deludere le aspettative di tutti. Da Suga aveva tenuto
maggiormente le distanze e dal giorno in cui lo aveva incontrato per la prima
volta in ospedale, non s’erano più rivolti la parola: davanti ai suoi occhi
brillava più di qualunque altra cosa e il ragazzo non aveva la minima idea di
cosa significasse. Aveva solo la sensazione che Koushi
fosse quello che avrebbe deluso più profondamente se non fosse tornato ad
essere chi si aspettavano che lui fosse.
Si era dato del tempo prima di presentarsi
al club di pallavolo, qualche giorno per cercare un po’ pace dentro, stemperare
il tormento, la voragine che pareva circondarlo ed inghiottirlo e magari
recuperare frammenti della sua vita passata così da potersi presentare con
qualcosa in più, qualcosa da offrire in cambio dell’attesa per il ritorno del
loro capitano. Quando, però, non era successo nulla, s’era semplicemente
buttato.
I ragazzi – se l’aspettava – lo avevano
accolto con sorrisi ed entusiasmo, gli avevano dato pacche sulla spalla e strette
di mano: per qualche istante Daichi era stato
ciecamente convinto di averlo trovato, il suo posto, la sua pace. Di avere un
punto da cui partire, che non fossero necessariamente i ricordi. Poi le
aspettative avevano distrutto ogni cosa. Perché ovviamente dal capitano ci si
aspettava quanto prima almeno la presenza in campo, mentre il ragazzo guardava
la palla senza sapere come muoversi – di tanto in tanto un certo istinto pareva
scuoterlo, ma erano molte di più le volte in cui stava fermo per paura di sbagliare.
Ed era irritante, frustrante, perché Daichi in cuor suo sapeva di non essere quel tipo di
persona; sapeva con certezza, anzi, di essere sicuro di sé, eppure non poteva
fare a meno di temere che se ci avesse provato la mente non sarebbe riuscita a seguire
l’istinto, che il corpo lo avrebbe tradito in qualche modo, che deludendo i
suoi compagni anche quel briciolo di pace che stava faticosamente accumulando
sarebbe stata spazzata via.
Per questo preferiva stare a bordo
campo e guardare, studiare quelli che dicevano di essere i suoi compagni e che
per lui erano solo degli sconosciuti. Restava seduto in panchina, un po’ distante
dal coach Ukai e dal professor Takeda,
in silenzio. Di tanto in tanto, gli occhi cadevano su Suga, sul modo in cui
gestiva la palla in quella partita, sul coinvolgimento che lo trascinava e la
serietà che mostrava, il volto appena bagnato dal sudore dello sforzo.
«Suga!». Asahi chiamò la palla con una
sicurezza che sorprese un po’ tutti – certo, restava sempre l’Asso e tuttavia, soprattutto
all’alzatore, la sua parve una consapevolezza del tutto nuova e piuttosto
forte. Asahi non era mai stato concentrato in questo modo sul suo gioco. Fece
punto senza alcuna difficoltà, superando il muro di Kageyama
e Tsukishima in modo fin troppo facile. Suga sospirò
soddisfatto e il gioco riprese con una certa sobrietà.
«Era una buona azione», si lasciò
scappare Daichi, attento come sempre al gioco «Sono
così concentrati su quello che fanno da non concedersi neanche un istante di
compiacimento».
Ukai lo
guardò, colpito da quelle parole come da un’improvvisa luce: sì, erano stati
bravi e Daichi, nonostante tutto, poteva sentirlo a
pelle. Ma si sbagliava: la Karasuno era abituata ad
esultare, era composta da ragazzi che avevano lavorato tantissimo per arrivare
al punto in cui erano e che erano felici e fieri di ogni piccolo miglioramento,
di qualunque obiettivo raggiunto. Quelle partite di allentamento, di solito,
erano molto più rumorose di così.
Stava bene, la squadra. E in quella
definizione classica e tanto ampia rientrava la perdita di una brillantezza che
era loro propria. No, la Karasuno non stava affatto bene.
La squadra era partita di notte per arrivare
nella prima mattinata, pronta a giocare in quei due giorni di allenamento
proposti dalla Nekoma. Quel primo breve campo d’allenamento
sarebbe stato un assaggio di ciò che li avrebbe impegnati a breve per un’intera
settimana, con le altre squadre della Fukurodani Accademy
Group, e tutti speravano che in qualche modo potesse essere produttivo:
coincideva, probabilmente, col momento in cui la Karasuno
era meno concentrata in assoluto. Questa era la più grande preoccupazione del
coach Ukai: non poteva fare nulla per i problemi
personali che quei ragazzi stavano affrontando, ma avrebbe provato qualunque cosa
per tenerli con la testa nel gioco e far sì che quelle settimane portassero i
frutti sperati.
«Crede che siano in grado di affrontare
questo doppio allenamento?».
Ukai non si
era reso conto di quanto il professore fosse preoccupato: il tono della sua
voce era tirato, quasi stridulo. Tolse per qualche istante gli occhi dalla
strada e intravide la sua espressione seria, terribilmente innaturale sul quel
viso solitamente tanto dolce.
«Credo possa fare loro bene – avere la
mente fissa su qualcosa, scaricare in questo modo lo stress e la tensione…
magari potrebbe persino aiutarli». Ukai si scoprì più
ottimista di quanto credesse di essere – forse lo aveva detto solo per
tranquillizzare il professore: c’era qualcosa di troppo sbagliato nel non
vederlo sorridere.
Takeda s’era
voltato ad osservare i ragazzi: qualcuno dormiva già, qualcuno guardava la
notte fuori dal finestrino; sperava ci fosse un modo per far tornare la loro
brillantezza, un modo per riportare a galla il loro genuino entusiasmo. Avrebbe
voluto essere loro d’aiuto, consigliarli o semplicemente ascoltarli in caso
avessero bisogno di qualcuno con cui parlare, sfogarsi. Aveva sempre pensato
che tutta questa faccenda dei compagni
non sarebbe dovuta accadere ad un’età tanto giovane, quando tutto era ancora
così incerto, inclusi i sentimenti; invece, accadeva sempre più spesso e sempre
prima, quasi ci tenesse a mostrare l’imperfezione in un sistema in teoria tanto
perfetto.
Il professore sospirò: aveva idea che quei
campi d’allenamento sarebbero stati più di una semplice sessione di
preparazione alle qualificazioni del Torneo primaverile. Dopotutto, ci sperava.
Suga, quasi in fondo al pullman, si
faceva pigramente distrarre dallo scorrere veloce delle luci dei lampioni sulla
strada, senza prestare davvero attenzione a nulla: non sapeva a cosa pensare e
anzi, come mai prima nella sua vita, si sentiva estremamente nervoso riguardo
ai giorni che avrebbe passato con la squadra – con Daichi.
Fino a quel momento erano stati dolorosamente bravi a d evitare anche solo che
i loro occhi si incontrassero: cosa sarebbe successo ora che erano costretti a
stare tanto tempo a contatto? Si sarebbero continuati a schivare, come un tiro
troppo lungo o un pugno dritto al viso, fingendo di non sapere che cosa li
univa? Koushi avrebbe semplicemente abbracciato lo
stesso inconsapevole oblio in cui era scivolato Daichi,
ignorando il dolore che, comunque, provava? Il suo legame continuava a fare
male, una sofferenza sottile e malinconica, una triste e costante presenza che
gli ricordava ciò che aveva perso, ciò che stava continuando a perdere minuto
dopo minuto.
L’alzatore si voltò verso Noya, seduto al suo fianco – lui aveva lo sguardo perso
lungo la forma del sedile che aveva di fronte e la luce del pullman lo
illuminava a tratti, gettando strane ombre sul suo viso appena tirato. Lo spiò
finché il Libero non si rese conto di avere i suoi occhi addosso e ricambiò il
suo sguardo; rimasero semplicemente a studiarsi per qualche istante, senza
imbarazzo e consapevoli del tormento altrui, finché il libero non sospirò
sorridendo.
«Non devi essere preoccupato per me,
Suga», lo rassicurò «Mi sto riprendendo». Aveva fatto in modo di togliere il
gesso proprio quella mattina, giusto in tempo per il Campo ed ora il braccio
era tenuto fermo da un tutore. «Tornerò a giocare in men che non si dica,
vedrai! Per le qualificazioni del Torneo Primaverile sarò in perfetta forma!».
Suga lo guardò con un abbozzo di
sorriso, troppo debole, troppo incerto. Il buio lo aiutò ad esporsi – tutta la
bontà e la gentilezza, tutta la premura che aveva per i suoi compagni rendevano
ancora più difficile per lui cambiare il ruolo che aveva preso su di sé,
spostarsi dall’altro lato, chiedere ed avere bisogno di aiuto.
«Non so davvero come tu faccia… Io… Io
non so per quanto ancora riuscirò a reggere tutto questo… Gli allenamenti, Daichi… Il legame… fa sempre più male ogni volta che sento
il suo sguardo su di me e mi sforzo di non ricambiarlo, ogni volta che lui non sa
chi sono. Mi sento come sospeso, in attesa di svegliarmi da questo incubo».
Noya distolse
lo sguardo: capiva, capiva bene quello che Suga intendeva dire: per lui era
esattamente la stessa cosa – il dolore, la solitudine… faticava a concentrarsi
ed era ancora peggio dal momento che non poteva neanche sfogarsi attraverso la
pallavolo. Asahi lo trattava come un estraneo con cui essere gentile senza
esporsi, restando formale e con una freddezza che uccideva il libero
lentamente, ma a cui non poteva opporsi in alcun modo.
«Credo che dovresti parlargli», stava
continuando intanto Suga, «Sai com’è fatto Asahi: si spaventa con poco, è così
insicuro di sé, ma non vale la pena allontanarvi tanto per questo… Ha sofferto
molto quando ha sentito l’incidente e
quel tipo di dolore non ha nulla a che vedere con ciò che stiamo provando noi
ora: è come sentirsi strappare la vita da dosso, ti annienta, ti senti
completamente impotente ed inutile. Immagino sia quella la sensazione che resta
quando il tuo compagno…».
Yuu aveva
smetto di ascoltare l’alzatore. S’era fermato ad una delle prime frasi che
aveva detto e non era stato in grado di sentire oltre le sue parole. Asahi era
stato male? Male per lui, male per il legame che li univa? Ma allora-
«Ne sei sicuro?!», lo interruppe: c’era
urgenza nella sua voce, mentre gli teneva il braccio con una stretta forte
della mano.
«Si-sicuro? Di cosa?». Suga lo guardava
senza capire.
«Del fatto che Asahi sia stato male».
«C-certo che ne sono sicuro! Quando
sono arrivato, era già seduto nel corridoio di attesa: aveva sentito il tuo incidente e i suoi
genitori lo avevano accompagnato di corsa in ospedale. Era pallido, sudava
freddo e tremava tutto mentre si ripeteva che le cose sarebbero andate bene,
che tu non potevi essere… Poi è semplicemente rimasto in silenzio per tutto il
tempo che i medici hanno tenuto te e Daichi in sala
operatoria. Quando gli ho parlato era come se non fosse davvero lì con me e se
n’è andato solo dopo aver saputo che saresti stato bene».
Noya non
riusciva a credere alle parole di Suga. Che cosa significava tutto quello?
Asahi gli aveva chiaramente detto di non aver sentito nulla, anzi era stato
proprio quello il motivo per cui s’erano lasciati, per cui lui aveva ceduto…
Possibile che gli avesse mentito, che avesse usato una scusa simile solo per
allontanarlo? E per quale motivo, poi? Paura? Paura di perderlo? Non lo aveva
perso comunque in quel modo, non s’erano persi comunque? Anzi, era stato
peggio: Asahi lo aveva lasciato andare, aveva volontariamente rinunciato a lui
– lo aveva lasciato indietro.
«Noya, che
succede? Qualcosa non va? Ho detto qualcosa che-».
«No», lo bloccò il Libero – sorrideva
di un sorriso isterico e Suga vide i suoi occhi brillare di lacrime. Sapeva di
aver fatto qualcosa di sbagliato, di aver detto qualcosa che non avrebbe dovuto
lasciarsi scappare, ma non sapeva cosa e come porvi rimedio.
Si sporse verso di lui, prendendogli il
braccio e ricambiando il quel modo la stretta con cui l’altro ancora lo teneva.
Yuu era pallido, tremava quasi, qualche lacrima era
scesa sul viso – era questo il valore che aveva per il suo compagno? Qualcuno da tenere vicino ed allontanare a proprio
piacimento e al primo spavento? Era tanto debole per lui, tanto insignificante
da non meritare la verità? Noya piangeva, ma il
dolore del suo legame s’era trasformato in una rabbia cieca, in un ringhio
istintivo che nasceva dal profondo delle viscere, montava come la marea: aveva
voglia di gridare tutto il rancore e la follia che sentiva dentro, prendere a
pugni tutto ciò che gli si parava davanti. Asahi lo aveva tradito e lui non
aveva meritato nulla di più di una bugia.
«Yuu, mi sto davvero spaventando».
Le ultime parole di Suga, il suo tono,
fecero sì che il ragazzo prendesse nuovamente contatto con la realtà che lo
circondava. Mise a fuoco l’amico e cercò di calmarsi: Sugawara
non aveva colpe e anzi avrebbe dovuto ringraziarlo perché gli aveva aperto gli
occhi. Ora Noya bruciava di una fiamma che Asahi
aveva rischiato – cercato? – di spegnere e che lui avrebbe, invece, conservato
e protetto. E gliel’avrebbe mostrato di nuovo, quel fuoco. Lo avrebbe bruciato
nelle sue fiamme.
Fece un profondo respiro e trattenne
tutto quello che ancora lo agitava; si asciugò le lacrime che ancora gli
bagnavano il viso e si poggiò contro lo schienale del sediolino,
improvvisamente calmo, della calma che segue una decisione. Ora sapeva che cosa
fare.
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Ed ecco anche la seconda parte! Spero
che il tutto stia continuando a piacervi e ringrazio coloro che in un modo o
nell’altro hanno lasciato un segno al loro passaggio!
Probabilmente entro la fine della settimana
sarà online anche l’ultima parte, quindi a prestissimo~
Alch.