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Autore: Adeia Di Elferas    12/11/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La notte tra il 20 e il 21 ottobre al campo francese l'Aubigny ordinò che si facesse grande festa.

Gaspare Sanseverino non si era opposto alla decisione del comandante che aveva trascinato il sacco di Mordano, ma non trovava corretta quel modo spaccone di comportarsi di fronte a una vittoria che era stata tutt'altro che memorabile.

Avevano preso la città, era vero, ma l'avevano fatto distruggendola, quando invece gli ordini erano diversi: avrebbero dovuto espugnarla, anche comprandola, poco importava, e usare le sue fortificazioni come punto d'appoggio per poi scendere verso Imola e Faenza.

Invece l'Aubigny aveva fatto sì che Mordano venisse rasa del tutto al suolo, a parte un paio di inutili palazzi e una chiesa e inoltre aveva impiegato sedicimila uomini, perdendone pure parecchi, contro circa trecento tra volontari, contadini e donne. Secondo il Fracassa quella non era una vittoria da festeggiare.

Non sapeva nemmeno dire se fosse davvero una vittoria.

L'Aubigny non se ne curava e rideva come un matto, battendo la mano sul ginocchio di Giovan Francesco Sanseverino, che azzannava una coscia di pollo col volto illuminato dal fuoco del falò acceso dinnanzi a loro.

Per tutto il campo si udivano le trombe e gli altri strumenti musicali dei soldati e qualcuno intonava canti di guerra sia in dialetti del nord Italia, sia in francese. C'erano torce ovunque, tanto numerose da illuminare i padiglioni a giorno e chi non stava cantando, stava bevendo e mangiando, parlando a voce alta con la bocca piena, come nella peggiore delle osterie.

In molti si vantavano di quello che era stato fatto quel giorno e qualcuno si prodigava in dettagli, nello spiegare a chi era rimasto fuori dalla chiesa, quello che ne era stato delle donne di Mordano.

“Peccato fossero così poche!” esclamò uno, rosso di vino, gli occhi acquosi per il troppo bere.

Il Fracassa strinse i pugni sulle ginocchia, sul punto di alzarsi e dare una lezione al soldato che aveva appena parlato. Poi si ricordò che era stato l'Aubigny a ordinare lo scempio di quelle donne e così si trattenne.

“Fracassa!” esclamò a un certo punto lo scozzese rinnegato, chiamando Gaspare con un cenno della mano.

Suo malgrado, egli raggiunse l'Aubigny e si sistemò tra lui e Giovan Francesco, in attesa di sentire cosa avesse da dire.

“Domani ci riposiamo – disse quello, sputando un ossicino del pollo in terra – diamo il tempo a queste canaglie di riprendersi dalla sbronza e alla cagna della Sforza di sentire che abbiamo fatto festa pensando a lei, poi torniamo a Mordano e spazzoliamo tutto quello che possiamo: oro, cibo, armi, qualunque cosa.”

Gaspare e Giovan Francesco si scambiarono una breve occhiata ed entrambi capirono che l'altro la pensava esattamente allo stesso modo: se fosse dipeso da loro, le cose a Mordano sarebbero andate diversamente.

“Poi, il giorno dopo domani – riprese l'Aubigny, afferrando la caraffa di vino – partiamo alla volta di Bubano e facciamo quello che abbiamo fatto a Mordano.”

I due Sanseverino rimasero in silenzio, mentre le musiche della truppa festante rimbombava nelle loro orecchie come qualcosa di sinistro.

Quando l'Aubigny diresse la sua attenzione ad altri uomini che si erano andati ad appollaiare accanto a lui vicino al fuoco, Gaspare sussurrò al fratello: “Bubano la prenderemo a modo nostro.”

Giovan Francesco gli appoggiò la mano sulla spalla e la strinse un po', a significare che era del tutto d'accordo.

 

Ludovico Sforza si sedette con un tonfo sordo sulla poltroncina imbottita, mentre Beatrice gli ronzava intorno come un'apetta industriosa.

Il suo ventre cominciava a vedersi sotto la grande turchesca, ma in quel momento l'attenzione di chi la guardava ricadeva sull'espressione vincente che le campeggiava in volto. Quel giorno, il 22 ottobre dell'anno del Signore 1494, suo marito, Ludovico Sforza detto il Moro, era stato formalmente investito della carica di Dux Mediolani, diventando a tutti i conti Duca di Milano.

La cerimonia era appena terminata e il Moro sembrava distrutto, ma felice almeno quanto la moglie. Erano passati anni, da quando aveva cominciato a lavorare per quell'obiettivo e finalmente era arrivato al tanto sospirato coronamento del suo sogno più grande.

Il corpo di Gian Galeazzo, lo sfortunato figlio di Galeazzo Maria Sforza, era ancora scoperto in Duomo, alla mercé delle lacrime degli stessi milanesi che nulla avevano fatto per tenerselo come Duca, e il Moro già pontificava su cosa fare per tenersi l'amore del popolo che quella mattina aveva festeggiato in suo nome, malgrado il lutto.

“Per prima cosa – fece Ludovico, la voce spezzata dalla stanchezza e dall'euforia – toglierò i dazi e le tasse sulla biada e sui mangimi in generale...”

Beatrice gli si avvicinò e, posandogli ambo le mani sulle sue, lo esortò alla calma: “A quello penseremo domani. Adesso dobbiamo solo far sì di liberarci di mia cugina.”

Il Moro guardò la moglie per un istante infinito. Con quelle parole la sua dolce Beatrice stava suggerendo di togliere di mezzo Isabella d'Aragona per sempre?

Se era quello l'intento della neo Duchessa, Ludovico finse di non averlo capito.

“Le imporremo una vita ritirata a Pavia, come ho fatto con mia cognata Bona.” disse l'uomo, facendosi più serio: “Le restituiremo anche Francesco. Un bambino suo non ci serve e faremo una buona impressione alla corte.”

Beatrice restò di sasso per qualche momento. I suoi occhi indagatori scrutarono il volto del marito e alla fine ella ritirò le mani e si mise a sedere davanti al Moro, su una delle sedie con lo schienale in pelle pirografata.

Ludovico la guardò in modo abbastanza insolente, deciso a rimetterla al suo posto, in caso di bisogno. Certo, Beatrice era stata sempre una preziosa alleata per lui, ma ora che erano i Duchi di Milano doveva far sì che al suo spirito ribelle venisse messo un freno quando necessario. Secondo Ludovico, la Duchessa, checché lei potesse pensarla diversamente, il più delle volte era solo una ragazzina che giocava a far la donna.

“Come vuoi tu.” disse alla fine la Duchessa, la fronte aggrottata e ogni segno di giubilo scomparso dalle guance che avevano perso il colore acquistato nel corso della lunga cerimonia di investitura: “Ridalle suo figlio. Io non me ne faccio nulla.”

Il Moro fece un cenno con il capo, a metà strada tra il ringraziamento e un segno di autocompiacimento per essere stato ubbidito senza incorrere in nessuna recriminazione e poi prese a spogliarsi con lentezza, stufo degli abiti da cerimonia che gli stringevano sulla pancia e nelle spalle.

“Mia signora...” una voce di donna arrivò sottile e lontana da oltre la porta.

Beatrice riconobbe il tono dimesso e pacato di Lucrezia Crivelli, una delle sue nuove dame di compagnia e così la invitò a entrare per dire cosa l'avesse portata lì.

La serva mosse rapidi passi e giunse dinnanzi alla sua signora: “Le balie chiedono di voi per vostro figlio Massimiliano.”

Beatrice sospirò e fece per alzarsi, quando qualcosa colpì la sua attenzione. Gli occhi di suo marito Ludovico si erano piantati sulla figura della nuova arrivata.

La Duchessa guardò Ludovico, assorto, quasi fulminato, il giubbotto coi lacci in parte smollati e la bocca appena aperta. E poi guardò Lucrezia Crivelli, quarant'anni passati da un paio di primavere, coetanea esatta del Moro, capelli castani lisci, occhi apparentemente timidi, ma in realtà molto arditi, pelle liscia e profilo morbido.

Beatrice sentì uno spiacevole crampo alla pancia, laddove il figlio di Ludovico cresceva giorno dopo giorno e, trattenendo le lacrime che in quei giorni minacciavano di affiorare per i motivi più disparati, affiancò la sua dama di compagnia e le ordinò: “Accompagnatemi dalle balie.”

 

Tommaso Feo era rientrato nel palazzo in cui viveva con la moglie quando ormai era sera tardi. Era stato tutto il giorno alla rocca, assieme alla Contessa e al suocero, Gian Piero Landriani. Da quando Caterina era arrivata da lui la sera in cui era giunta a Imola la notizia del sacco di Mordano, Tommaso non si era separato da lei nemmeno per un momento.

Aveva ascoltato le sue ingiurie e le sue bestemmie, mentre sfogava la rabbia per quanto accaduto e poi l'aveva calmata come meglio poteva, cercando di farla ragionare, senza provare a influenzarla nelle sue valutazioni. Tommaso sapeva essere un soldato e come tale stava al suo posto.

In ogni caso, però, anche se la Contessa aveva ritrovato un contegno e aveva subito preso in mano le redini della situazione, ordinando a più di una staffetta di correre al campo di Ferrandino d'Aragona, la confusione che la governava non poteva essere tacitata.

Le notizie che erano arrivate in quelle ore erano terribili e raccontavano non solo di un nuovo saccheggio a Mordano – paese ormai fantasma – ma anche della resa incondizionata di Bubano, le cui case erano state prontamente setacciate e derubate. L'unica consolazione, almeno in quel caso, era stato sapere che per espresso ordine dei fratelli Sanseverino, alla popolazione che si era consegnata spontaneamente a loro non era stato fatto alcun male.

Bianca Landriani aveva visto di sfuggita il marito passare nel corridoio, con una torcia in mano e il passo svelto di chi non ha tempo da perdere. Non lo vedeva praticamente da due giorni e, per quanto capisse che il momento era critico per lo Stato di sua sorella, non riusciva a ignorare la gelosia che la divorava.

Raggiunse Tommaso nella stanza in cui l'aveva visto entrare e lo trovò davanti a una delle scrivanie con secretario in cui teneva i documenti più importanti. Mentre l'uomo si passava tra le mani delle carte, Bianca gli arrivò alle spalle.

Tommaso l'aveva sentita, ma non aveva mosso un muscolo. Non aveva voglia di parlarle e di rispondere a domande scomode che di certo lei avrebbe posto.

La giovane, guardando le spalle ampie e dritte del marito, sentì dentro di sé crescere il bisogno di sentirsi rassicurare. L'incertezza della sua posizione le sembrava evidente ogni giorno di più.

Tommaso l'aveva sposata per capriccio, per ripicca e anche se non aveva mai fatto nulla di irrispettoso nei suoi confronti, con la sua fredda gentilezza le ricordava sempre più spesso che lei non era la donna che avrebbe davvero voluto al suo fianco per il resto della vita.

Senza dire nulla, sempre standogli alle spalle, mentre l'uomo ancora sfogliava degli incartamenti, Bianca lo abbracciò, facendo scorrere le sue braccia esili sul suo petto, stringendo a sé quella schiena che tanto amava.

“Bianca... Per favore...” sussurrò Tommaso, cercando di continuare la sua ricerca, benché l'abbraccio della moglie gli impedisse un po' i movimenti.

Le intenzioni della moglie gli pareva abbastanza chiare, ma non aveva alcuna intenzione di assecondare i suoi desideri, quella sera. Non era del giusto umore e, se anche lo fosse stato, davvero non avrebbe avuto tempo.

La giovane non si mosse, inspirando lentamente il giubbotto del marito, che aveva lo stesso odore della nebbia che si stava alzando su Imola.

“Devo tornare subito alla rocca, da tuo padre e...” la voce di Tommaso si spense sul finale, mentre i muscoli della sua schiena si irrigidivano appena, tradendo la sua inespressa tensione.

“E mia sorella.” concluse Bianca, staccandosi all'istante dal marito.

L'uomo fece passare ancora un paio di documenti tra le dita e poi prese quelli che gli servivano, li piegò e se li infilò nella tasca interna del giubbotto. Si voltò verso Bianca e per un istante la guardò con attenzione in viso, senza sapere che altro aggiungere.

Alla fine si sentì in dovere di scusarsi: “Non dipende da me.”

“Lo so.” rispose Bianca, guardando altrove per non tradire troppo le proprie emozioni.

“Ti sono sempre stato fedele.” fece Tommaso, capendo quello che le parole di Bianca celavano.

“A parte una volta.” gli ricordò la donna, facendo un passo indietro, in modo tale che la torcia agganciata al ferro del muro non la illuminasse più in modo tanto diretto da abbagliarla.

“Solo un bacio.” disse Tommaso, la voce appena tremula: “E mi è costato molto caro.”

Nessuno dei due avrebbe voluto rivangare quell'episodio. Non lo facevano mai, anche se in ogni loro minimo screzio era sempre sottinteso. Com'era sottintesa la condizione infelice che aveva portato alla loro unione, unione che Bianca aveva sperato sempre di poter tenere viva pur potendo contare solo sull'amore che lei provava per lui senza essere realmente ricambiata.

“È costato molto caro anche a me, sai?” dichiarò Bianca, più ferma: “E comunque sono sicura che non ti saresti fermato solo a un bacio, se non ti avessero arrestato subito.”

Tommaso abbassò lo sguardo e rimase in silenzio. Alla fine, senza guardarla più, l'uomo prese la torcia dal muro e fece per uscire dalla stanza e tornare alla rocca.

“Ti aspetto sveglia?” chiese Bianca, mentre i suoi occhi si velavano di lacrime nel buio.

“No.” rispose secco Tommaso, per poi aggiungere, un po' meno piccato: “Aspettiamo notizie dal campo degli Aragona. Potrebbe volerci tutta notte. Non credo che tornerò prima di domani mattina.”

 

“Ma che razza di risposta è questa?” sbottò Gian Piero Landriani, abbandonando la sua classica pacatezza e brandendo oltraggiato il messaggio appena arrivato dal campo aragonese di Cesena.

Caterina, seduta davanti a lui, aveva già letto la missiva, eppure più che offesa dalla risposta ricevuta da Ferrandino d'Aragona, sembrava abbattuta.

Tommaso Feo si fece passare il biglietto e lo scorse in fretta. La grafia del napoletano era molto precisa, ma tradiva una certa impazienza.

'Quello che avete subito non lo chiamerei un vero attacco – aveva scritto il Duca di Calabria – piuttosto una rappresaglia spiegabile con la chiara provocazione che i vostri sudditi, i vostri cara Contessa, hanno portato all'esercito francese. Non trattandosi di un attacco dichiarato, come da accordi, non mi sono sentito in dovere di prestare soccorso. Non ho violato il nostro patto, piuttosto siete voi che pretendete più di quel che s'era deciso. Or dunque, essendo io un uomo onorevole, mi impegno ugualmente a mandarvi armi e vettovaglie e altri beni di pronto consumo per soccorrere i vostri sudditi. Chiedo inoltre un incontro privato tra noi per chiarire la posizione della nostra alleanza.'

Il Governatore di Imola riappoggiò il messaggio al tavolo e restò in attesa di sentire cosa il suocero e la cognata avessero da dire ancora. Lanciò qualche sguardo in tralice a Gian Piero, ma capì subito che l'uomo, non più giovanissimo e d'indole pacifica, era sulla graticola e non sapeva da che parte prendere.

Evitò di incrociare lo sguardo della Contessa. Anche se negli ultimi tempi avevano imparato a stare nella stessa stanza senza cedere all'imbarazzo per quanto intercorso tra loro in passato, a volte Tommaso faceva ancora fatica a puntarle gli occhi addosso senza provare un profondo senso di vergogna e colpa.

Così cercò semplicemente di concentrarsi su quello che stava accadendo. La guerra era un pensiero sufficientemente pesante da distoglierlo almeno un po' dai suoi tormenti.

L'attacco a Mordano l'aveva colto di sorpresa e ancora di più era rimasto attonito dinnanzi alla totale mancanza d'impegno degli aragonesi e dalle risposte sprezzanti che Ferrandino aveva inviato alla signora di Imola e Forlì, spedendo per di più le staffette con un ampio ritardo. Per come la vedeva lui, c'era solo una cosa sensata da fare: voltare le spalle a Napoli, dimostratasi inaffidabile, e volgere l'attenzione ai milanesi e ai francesi.

“Cercare sottigliezze in un contratto...!” continuò Gian Piero, appoggiando i palmi delle mani sui braccioli della sua sedia: “Mi pare ovvio che il Duca crede di potersi prendere gioco di noi!”

Caterina, senza guardare il castellano, scosse appena la testa, tenendo una mano sulle labbra. Il Duca di Calabria non aveva ottemperato ai suoi doveri per un motivo ben diverso, secondo lei.

“Aveva solo paura di andare incontro a una disfatta. Sedicimila uomini non sono uno scherzo.” fece la Contessa, guardando prima Gian Piero e poi Tommaso, che si era alzato, nervoso, ed era andato alla finestra oltre la quale si intravedeva l'alba attraverso le nubi: “Ha pensato che se i Sanseverino hanno potuto schierare sedicimila soldati per un paesino a suo avviso inutile come Mordano, allora in caso di scontro con lui avrebbero tirato fuori chissà da dove per lo meno un esercito composto dal doppio o dal triplo degli uomini.”

Landriani sospirò, allargando le braccia, con un fare a metà strada tra il fatalista e lo scettico.

Tommaso, invece, continuò a scrutare il sole che faticava a mostrarsi tra i cirri e si limitò a stringere un pugno lungo il fianco.

“Ferrandino d'Aragona è solo stato prudente.” concluse la Contessa, massaggiandosi lentamente le occhiaie che la notte insonne le aveva portato in dono: “Ma questa prudenza potrebbe costargli cara.”

A quelle parole, i due uomini che erano con lei nella saletta la fissarono in silenzio. La donna non diede loro ulteriori spiegazioni, però, sviando il discorso con domande precise e circoscritte sulle difese di Imola.

Mentre Tommaso ripeteva automaticamente i dati che aveva già ripetuto allo sfinimento nel corso della notte, qualcuno bussò alla porta gridando: “Messaggio!”

La Contessa ordinò alla staffetta di entrare e quando si trovò davanti un giovane uomo apparentemente sfinito chiese subito: “Da dove venite? Bubano? Cesena? Forlì?”

“Vengo da Milano.” disse il messaggero, scuro in volto, porgendo alla Contessa una piccola lettera chiusa da ceralacca rossa che portava inciso lo stemma degli Sforza.

 

 
   
 
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