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Autore: Adeia Di Elferas    13/11/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina si alzò immediatamente e prese la missiva dalle mani della staffetta. Nel momento esatto in cui spezzò la ceralacca, già sapeva cosa stava per leggere.

'Cara cognata, scrivo questa mia contro il parere stesso di vostra madre, madonna Bona, ma voglio essere la prima a darvi questa tremenda notizia, perché dubito che vostro zio Ludovico avrà modi gentili di comunicarvi quanto successo, mentre io, per il bene che vi voglio come parente e come colei che ha cercato al meglio delle sue possibilità di aiutarmi a trovare la felicità coniugale, voglio porgervi questa dolorosa nuova come farebbe una sorella. Mi strazia più di quanto le parole possano esprimere dirvi che vostro fratello, mio marito, si è spento nella notte del 21 ottobre per il suo male incurabile. A consolarlo v'erano i suoi amati animali e vostra madre, che fino all'ultimo non l'ha lasciato mai. Quanto a me, egli non mi ha voluta, ma non gliene farò mai una colpa. Vostro zio Ludovico prenderà presto il suo posto, anzi, al giorno in cui questa mia giungerà a voi credo sarà di già il nuovo Duca, e a quel punto solo Dio potrà avere pietà di me, dei miei tre figli e della creatura che ancora porto in grembo. L'abbiamo tanto pianto, cognata carissima, ma ora vi chiedo solo di aiutare me e i miei figli a non soccombere.'

In fondo al messaggio, scritto in grande e con grafia molto chiara, campeggiava, volutamente senza alcun titolo, il nome di Isabella d'Aragona, accompagnato da un epiteto finale: 'Unica nella disgrazia'.

“Che nuove ci sono?” chiese subito Gian Piero, scostando la sedia per sporgersi verso la Contessa e sbirciare la lettera.

Caterina non rispose. Sentiva un peso nel centro del petto e qualcosa nel fondo della gola. Le sue dita stringevano il messaggio con tanta forza da stropicciarlo e mentre le sue labbra cominciavano a tremare un po', la Contessa comprese di essere sull'orlo delle lacrime.

Congedò con un gesto secco della mano il messaggero e poi tornò a sedersi, ignorando le domande del castellano che la tormentava per sapere cosa fosse successo e a chi.

Tommaso, invece, la guardava in silenzio, conscio del fatto che, quale che fosse il contenuto della lettera, doveva avere avuto un effetto devastante nella sua signora.

La Contessa avrebbe voluto prendersi qualche minuto per ragionare in silenzio su quello che aveva appena letto, ma più ci pensava, più i suoi nervi rischiavano di cedere.

Così, con l'unico scopo di evitare di scoppiare in lacrime davanti ai castellano e a Tommaso, lasciò che Gian Piero prendesse il messaggio e anticipò: “Mio zio Ludovico è il nuovo Duca di Milano. La nostra strategia deve cambiare. Adesso non c'è più nulla che ci leghi a Napoli.”

Poi si alzò, deglutendo più volte per sciogliere il nodo che le stringeva la trachea e aggiunse, in fretta: “Gian Piero, chiamate qualcuno che imposti delle lettere, una per il Marchese di Mantova e una per Piero dei Medici. Penserò poi io a completarle.”

Il castellano annuì all'istante e, senza perdere tempo a leggere la missiva giunta da Milano, schizzò fuori dalla saletta per cercare chi di dovere.

Mentre Tommaso prendeva la lettera per capire cosa fosse successo di preciso, Caterina lasciò il tavolo e si avviò alla porta con passo rapido e deciso. Colto da un dubbio improvviso, il Governatore la seguì. La Contessa si accorse solo in un secondo momento di averlo alle spalle, tanto era immersa nei propri pensieri.

Voleva solo trovare un angolo in cui piangere suo fratello in solitudine e poi doveva fare un'altra cosa, ancora più importante.

La presenza di Tommaso, però, le impedì di realizzare il primo punto del suo programma.

“Intendete rescindere l'alleanza con Napoli?” chiese il Governatore, standole alle calcagna.

“Andate da vostra moglie, Tommaso. Per oggi non ho più bisogno di voi.” rispose Caterina, tenendogli le spalle, cercando in vano di distanziarlo.

“Dove state andando?” domandò l'uomo, ben lungi dal ritenere conclusa quella discussione.

“Non sono affari vostri.” disse la donna, dirigendosi verso il cortile della rocca, decisa ad andare nelle stalle e prendere un cavallo per portare a termine almeno la seconda parte del suo piano iniziale.

“Dove state andando?!” ripeté Tommaso, più aggressivo, seguendola fin nelle stalle.

“Ommioddio, quando fate così sembrate vostro fratello!” sbottò Caterina, alzando le braccia al cielo in segno di impazienza.

Il Governatore finse di non cogliere quell'accusa, che lasciava intravedere molte cose a cui non voleva pensare e si limitò a starle alle calcagna.

Caterina trovò uno degli stallieri e gli ordinò: “Preparatemi un cavallo poco appariscente. E in fretta.”

Mentre il ragazzo eseguiva e si metteva a sellare un destriero particolarmente anonimo, il Governatore Feo si parò davanti alla sua signora e chiese, per la terza volta: “Dove state andando?”

“A Mordano.” soffiò Caterina, senza guardarlo: “Devo vedere coi miei occhi quello che hanno fatto.”

“Perché?” chiese il Governatore, trovando l'idea semplicemente assurda.

“Perché devo sapere di cosa sono capaci i francesi e quanto è costato essere stati alleati dei napoletani.” fece la Contessa, atona.

Quando lo stalliere le porse le briglia del cavallo, Caterina fece per montare in sella, ma Tommaso la fermò: “Almeno prendete questa.” le disse, slacciandosi in fretta il cinturone con la spada e porgendole l'arma: “E questo.” concluse, togliendosi il mantello pesante imbottito di pelliccia.

La Contessa avrebbe voluto rifiutare e partire all'istante, ma era ancora abbastanza presente a se stessa per capire che Tommaso aveva ragione. Non poteva affrontare quella mattina gelata che prometteva pioggia senza nemmeno un mantello. E, senza un'arma valida oltre al suo fedele pugnale, se avesse incontrato qualche malintenzionato sarebbe stata spacciata.

“Aspettate, preparo un drapello di guardie e...” riprese Tommaso, felice di vedere che almeno la sua signora aveva accettato il mantello e la spada.

“Niente guardie, devo andare da sola.” si ostinò Caterina: “E se proverete a seguirmi, state certo che ve la farò pagare come minimo con l'esilio. Ne sono capace.”

Il Governatore sapeva che era così, ma tentò ugualmente di persuaderla a non partire. Le ricordò che Bubano era occupata e che di certo la strada sarebbe stata piena di fuoriusciti e saccomanni della peggior specie, ma la Contessa non dava segno di esserne impensierita. Ricordò all'uomo che nessuno la conosceva e che indossava abiti poco adatti al suo rango, dunque l'avrebbero scambiata per una popolana, se l'avessero vista.

Mentre Tommaso guardava l'abito semplice e un po' rovinato che in effetti la Contessa indossava, la donna diede di tallone al cavallo che partì all'istante come una freccia.

“Contessa!” provò Tommaso, mettendosi a correre per starle dietro: “Non andate! Contessa! Contessa!” quando ormai la donna era già oltre il ponte levatoio, il Governatore gridò un'ultima volta: “Caterina!” ma ovviamente nemmeno a quel richiamo la sua signora si voltò.

Gian Piero Landriani gli arrivò alle spalle, accaldato e sbuffante: “Ho trovato gli scrivani e stanno già lavorando... Dove sta andando?” chiese poi, intravedendo la figura a cavallo di Caterina che si allontanava.

Tommaso guardò il suocero da sopra la spalla e rispose: “A Mordano.”

“Per Dio, dobbiamo farla seguire... ! Ordino subito ai soldati di...” cominciò il castellano, ma il genero lo bloccò all'istante.

“No. Vuole andare da sola.” disse Tommaso, con un tono talmente autoritario da mettere a tacere ogni eventuale rivendicazione di Gian Piero.

Il castellano, allora, si strinse le mani al petto e ritornò da dove era venuto, lasciando il Governatore da solo, a rabbrividire nel vento freddo di quell'alba, gli occhi ancora fissi verso l'immagine di Caterina che si allontanava.

 

Il cielo si era fatto ancora più grigio, mentre la mattina avanzava. Il freddo era insistente e nell'aria c'era l'odore inconfondibile della pioggia. Probabilmente poco lontano da lì c'era stato qualche rovescio.

Caterina aveva aggirato accuratamente Bubano, anche se aveva visto da lontano le colonne di fumo dell'accampamento dei Sanseverino e la tentazione di presentarsi davanti a loro a chiedere ragioni di un'aggressione tanto violenta era stata forte. Tuttavia vinse lo spirito di autoconservazione e il fermo proposito di visitare Mordano, o meglio, quello che ne rimaneva.

Lungo la strada, percorsa a velocità media per non dare nell'occhio in caso di incontri spiacevoli, la Contessa ripensò a suo fratello, Gian Galeazzo, a come avesse intrattenuto con sua moglie Isabella una corrispondenza molto strana anni addietro e a come Ludovico fosse alla fine riuscito a toglierselo di torno.

Quando era stata a Milano per l'ultima volta, Caterina aveva già avuto dei dubbi sulla malattia del fratello, tuttavia poi erano passati gli anni e si era abituata all'idea che Gian Galeazzo fosse malaticcio, ma non in vero pericolo. Si era sbagliata.

Avevano sei anni di differenza, ragion per cui da piccoli non avevano legato molto. Nonostante ciò, però, la Contessa si sentiva straziata dalla notizia della sua morte. Era un sentimento del tutto diverso da quel distaccato dispiacere che aveva provato nel sentire undici anni prima il luttuoso annuncio della dipartita di suo fratello Carlo. In parte erano diverse le circostanze, dato che Gian Galeazzo era presumibilmente morto per mano della sua stessa famiglia, tradito e bistrattato come Caterina si era sentita tradita e bistrattata a suo tempo. E in parte, forse, con gli anni la Contessa aveva rivalutato il suo sangue e l'attaccamento ai suoi fratelli, anche a quelli che aveva potuto conoscere meno.

Quale che fosse la ragione, per tutto il tragitto la donna non riuscì a pensare ad altro che a Gian Galeazzo, alla moglie Isabella e ai loro poveri figli. Avrebbe voluto poter fare qualcosa per sua cognata e i suoi nipoti, ma poteva davvero?

Quando finalmente giunse in vista di Mordano, tirò appena le redini del cavallo. La bestia rallentò, dandole modo di osservare con gli occhi sgranati le rovine della città.

Colonnine di fumo si alzavano ancora qua e là, dove le case di legno erano state date alle fiamme.

Le mura non esistevano più e nemmeno la rocca, e pure il ponte levatoio era distrutto.

Allacciandosi meglio il mantello datole da Tommaso e assicurandosi che la spada fosse ancora al suo posto, Caterina spronò il cavallo e avanzò.

Non appena varcò il confine ormai del tutto immaginario di Mordano, smontò di sella e andò a legare il destriero a un albero che stava a qualche metro dai resti di una parte delle mura.

Il silenzio che la circondava era surreale e assordante. Ovunque guardasse, non c'era altro che macerie, cadaveri e qualche saprofago solitario e affamato che becchettava indolente brandelli di carne qua e là.

La prima reazione a quella vista fu di vomitare. Caterina si piegò su se stessa, tenendosi lo stomaco orrendamente contratto, ma non rigettò altro se non un po' di acido. Si ricordò solo in quel momento di non aver mangiato niente per quasi due giorni interi.

Si rimise dritta, con una mano davanti al naso e alla bocca per sfuggire agli effluvi di morte che aleggiavano ovunque. Si rese conto che i suoi piedi calpestavano il sangue ormai secco dei mordanesi e dei soldati francesi, ma non c'era modo di evitarlo.

Gli occhi spenti e appannati dei morti la scrutavano silenziosi, mentre lei avanzava guardandosi attorno in cerca di qualche cosa che le ridesse speranza. Per un breve momento fu certa di aver visto un corpo muoversi, ma poi si rese conto che era stata opera di un paio di ratti che, scavando nelle carni in putrefazione, avevano dato l'illusione di un soffio di vita laddove la vita non c'era più.

I passi lenti della Contessa la portarono a visitare ogni strada della città. Poté notare come vari corpi indossassero ancora pezzi di armatura o abiti di foggia francese o milanese. A colpo d'occhio si poteva ben dire che Mordano si era difesa molto bene, fino all'ultimo, e che i mordanesi avevano almeno avuto la consolazione di aver portato nell'aldilà con loro parecchi nemici. Se fosse o meno una consolazione sufficiente, Caterina non sapeva dirlo.

Gli unici palazzi rimasti in piedi erano tre: la Casa del Pubblico, le cui finestre sembravano bocche spalancate in un urlo, un'abitazione privata visibilmente deserta, e la chiesa di Santa Maria.

A quella vista, le parole del parroco giunto a Imola nudo e tremante ritornarono prepotenti nella mente di Caterina. Egli le aveva detto che i nemici non avevano avuto rispetto nemmeno per la casa del Signore.

Davanti alla prospettiva di quello che avrebbe visto, il coraggio della Contessa venne meno.

Restò immobile davanti alla chiesa per quella che poteva essere stata anche un'ora intera. L'olezzo che la circondava e le nuvole nere che la sovrastavano le facevano sentire la morte vicina, come un'entità materiale, presente e impossibile da ignorare.

Ricordando come suo padre l'esortasse sempre a essere coraggiosa, soprattutto quando la paura sembrava in grado di paralizzare i muscoli e togliere il fiato, Caterina ricominciò a mettere un piede davanti all'altro ed entrò nella chiesa di Santa Maria.

Se quello che c'era tra le strade della città l'aveva sconvolta, ciò che trovò in chiesa bastò a sopraffarla per parecchi minuti.

Il pavimento era completamente ricoperto di sangue rappreso, scuro, quasi del tutto solido. Il tanfo era pressoché insopportabile e la vista era ancora peggiore. C'erano corpi straziati, mutilati, impalati, completamente sventrati. A Caterina ci volle un po' per capire che quelli erano corpi di donna, i cadaveri delle donna di Mordano.

Era stata tale la ferocia di chi le aveva aggredite, da non lasciare di loro che qualche misero segno per potervi riconoscere delle donne...

Senza distogliere lo sguardo, la Contessa avanzò fino all'altare, mentre l'immagine delle mordanesi ridotte in pezzi di carne marcescenti le si imprimeva nella mente.

La cattedra del Signore era spoglia, come da attese, dato che la tovaglia con pizzo era stata portata a Imola dal prete.

Caterina stava quasi per andarsene, senza nemmeno alzaro lo sguardo verso il crocifisso, quando un dettaglio attirò la sua attenzione. Proprio accanto all'altare c'era un corpo più integro e riconoscibile degli altri. Si trattava di una bambina. Non poteva avere più di nove o dieci anni.

Probabilmente era stata la vittima più giovane di quella follia, dato che il Governator Borelli aveva sfollato tutti i bambini per tempo.

Anche se orribilmente mutilata, con la parte inferiore del viso ridotto a un grumo di denti, ossa e sangue, uno dei due occhi si poteva vedere ancora. Aveva la classica patina che offusca lo sguardo dei morti, ma nell'iride azzurra si poteva ancora leggere tutto il terrore e il dolore che aveva accompagnato la sua ignobile fine.

Fu uno strano lampo quello che attraversò la mente di Caterina. Per quanto fosse un paragone quasi irrispettoso, vista la fine fatta dalla ragazzina, la Contessa si rivide in lei. Aveva conosciuto anche lei la bruttura del mondo e lo aveva fatto più o meno alla stessa età. Però era sopravvissuta.

In un gesto istintivo, privo di ogni logica e ragionamento, Caterina si tolse il mantello e lo adagiò con cura sul corpo della bambina. Si sentiva in colpa per non essere riuscita a proteggerla. La vita di quella bambina dagli occhi azzurri, nel suo modo di vedere il ruolo che il destino le aveva riservato come Contessa e signora di quelle terre, era stata nelle sue mani e lei non era stata in grado di difenderla.

Rialzandosi, presa da una frenesia che somigliava più a furia che non a pietà, iniziò a strappare lembi di stoffa dall'ampia sottana del suo vestito e cercò di coprire quante più donne possibile.

Quando si trovò praticamente con la sola sottoveste addosso, comprese che erano troppe e non avrebbe potuto coprirle tutte quante.

'Questo non è essere soldati, questo è essere bestie – pensò, occhieggiando in ogni angolo – un vero soldato si confronta con altri soldati, alla pari, sapendo che anche il nemico è armato, sapendo che entrambi sono consci dei rischi del loro lavoro. Un uomo d'onore uccide nemici armati, non civili inermi e indifesi.'

Dopo aver fatto questa considerazione, Caterina abbassò lo sguardo sulle proprie mani e le trovò luride di sangue raggrumato. Si era sporcata, probabilmente, mentre cercava di coprire lo scempio che la circondava, ma in quel momento lesse quella vista come una condanna, come l'accusa precisa di un tribunale che la incolpava di tutte quelle morti.

Improvvisamente il demone che viveva in lei si fece risentire. L'aveva tenuto segregato nel fondo del punto più buio della sua anima per anni, riuscendo bene o male a tenerlo a digiuno e zitto, in catene, ma ora era di nuovo libero.

Come una belva feroce, puntò gli occhi verdi verso il crocifisso di legno che stava appeso dietro all'altare, indifferente e distante.

Riempì la distanza con due falcate e si aggrappò all'icona, riuscendo a strapparla dalla sua sede, facendola rovinare in terra.

Mentre lo sguardo ligneo del Cristo puntava altrove, come aveva fatto durante il folle sacco di Mordano, Caterina sfoderò la spada e lo colpì con tutta la sua forza, scheggiandolo e distruggendolo poco a poco.

“Dov'eri, tu?!” gridò, continuando a colpire il crocifisso: “Che hai fatto per loro?!” continuò e poi si lasciò andare al turpiloquio e alle bestemmie, né più e né meno di quello che avrebbe fatto davanti a un traditore comune che avesse cagionato la morte di così tanti suoi sudditi.

Dopo un po', però, la forza delle sue braccia venne meno e anche quella delle gambe. Si accasciò sul pavimento, senza badare al sangue che le sporcava la sottoveste. Guardò il crocifisso ormai irriconoscibile e, rimettendo la spada nel fodero, tentò di pregare e chiedere perdono per tutte le sue colpe.

Non ci riuscì.

Sconfitta, la Contessa si rimise a fatica in piedi e uscì dalla chiesa, lasciandosi alle spalle i corpi delle donne di Mordano che avevano creduto dipoter trovare la salvezza almeno nella casa di Dio.

Si accorse, dopo un bel po', che stava piovendo. Era già quasi al cavallo quando si rese conto che aveva pure freddo. Aveva lasciato il mantello in chiesa e il suo abito era ormai uno straccio. Poco importava. Al freddo e alla pioggia poteva sopravvivere.

Si mise in sella e diede di speroni al suo destriero, diretta verso Imola, le idee ben chiare nella testa e un fuoco nuovo e bruciante che le ardeva nel petto.

La tigre era tornata.

 
   
 
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