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Autore: Adeia Di Elferas    16/11/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Tommaso Feo era rimasto quasi tutto il giorno sulle merlature della rocca, in attesa di veder tornare la Contessa. Aveva deciso che se non fosse rientrata entro sera, avrebbe raccolto alcuni soldati e sarebbe andato a cercarla, a discapito degli ordini ricevuti.

Il cielo coperto di nuvole si stava tingendo coi colori del crepuscolo, quando Tommaso, quasi deciso a mettersi all'opera, intravide una figura che si avvicinava a cavallo, sulla strada che portava verso Mordano.

Aguzzò la vista e, chiedendo conferma anche alla sentinella che gli stava accanto, si persuase che quella fosse proprio la sua signora.

Scese di volata le scale e attraversò il ponte levatoio di corsa. Nel frattempo la guardia era andata a dar la voce agli altri abitanti della rocca e così in breve Lucrezia Landriani fu accanto al Governatore Feo. Gian Piero, che non poteva uscire dal perimetro della roccaforte, poté solamente mettersi di vedetta sui camminamenti.

Caterina vide subito che la madre e Tommaso la stavano aspettando al vaglio e notò con un po' di irritazione che un piccolo gruppo di imolesi curiosi si stava assiepando vicino al ponte.

Senza dire nulla, cavalcò fino a loro e solo quando fu abbastanza vicina disse: “Nella rocca, non voglio dare spettacolo.”

Mentre la Contessa conduceva la sua bestia oltre il ponte, Tommaso e Lucrezia si affrettarono a seguirla, mentre i curiosi della città rimasero chiusi fuori, impazienti di sapere cosa fosse accaduto alla loro signora, giunta a sera fatta, fradicia della pioggia caduta per buona parte del pomeriggio, senza nemmeno un mantello e con la veste tutta strappata.

“Cos'è successo ai tuoi vestiti?” chiese subito Lucrezia, accorata, appena Caterina smontò di sella.

Ella scosse il capo, facendo gocciolare i capelli bagnati e rispose: “Non preoccuparti, sto bene, ho usato gli abiti che avevo indosso per un buon motivo.”

“Ti faccio subito preparare dei vestiti asciutti.” fece la madre, battendo le mani da vera padrona di casa e richiamando all'ordine un paio di servi che avevano appena fatto capolino per vedere che fosse accaduto.

Tommaso fissava la sua signora senza sapere cosa chiedere di preciso. Che stesse bene, a parte il freddo che aveva visibilmente patito, era evidente. Che altro doveva chiedere, un Governatore, a una Contessa appena tornata da una città rasa al suolo?

“Che novità ci sono?” chiese Caterina, guardando Tommaso di sfuggita.

“Da Milano è arrivata la notizia ufficiale dell'investitura di vostro zio come Duca di Milano.” disse l'uomo: “E da Forlì ci viene chiesto cosa dobbiamo fare con gli ambasciatori di Napoli.”

La Contessa sollevò un sopracciglio. Da come Tommaso aveva parlato, era certa che la richiesta giunta da Forlì era stata scritta da Giacomo, o meglio, da qualche scrivano che aveva raccolto il suo dettato. Ebbene, suo marito avrebbe dovuto aspettare di sentire di persona quello che lei aveva da dire in merito a tutta quella faccenda.

“Mi ritiro nelle mie stanze – disse Caterina, senza commentare le parole di Tommaso – fatemi portare dell'acqua e anche del cibo. Ho molta fame e ho del lavoro da fare. Fate portare anche le lettere impostate dagli scrivani questa mattina e tutto il necessario per scrivere. Fate anche in modo che i miei bagagli siano pronti entro domattina.”

Il Governatore chinò il capo e poi seguì con la coda dell'occhio la Contessa che si allontanava per raggiungere la madre, che le stava dicendo qualcosa circa gli abiti asciutti che l'aspettavano nelle sue stanze.

Anche se la sua signora non aveva ancora rivelato i suoi piani per il futuro, Tommaso era certo di aver rivisto nel suo sguardo la stessa luce fredda e determinata che aveva visto anni prima, quando la Contessa era stata chiamata a organizzare una difesa rischiosa, ma efficace, contro i fratelli Orsi.

'La tigre è tornata – pensò il Governatore, rimettendosi dritto e mettendosi in marcia per recuperare ciò di cui la sua signora aveva bisogno – Dio li scampi dalla sua furia.'

 

Giovanni Sforza boccheggiò qualche momento, rileggendo con avidità la lettera appena arrivata.

Ludovico era il nuovo Duca di Milano, e questo andava ad appesantire la posizione del signore di Pesaro, che militava – o fingeva di militare – nelle fila di Ferrandino d'Aragona.

Ascanio era stato molto chiaro con lui. Gli aveva detto di stare attento e che il doppiogioco che stava conducendo gli si sarebbe ritorto contro, prima o poi, ma Giovanni sentiva ancora una incancellabile lealtà nei confronti della terra della sua famiglia d'origine e così aveva agito secondo coscienza, più che secondo necessità.

Facendosi aria con la missiva, benché nel suo padiglione si congelasse, Giovanni cercò di pensare lucidamente a cosa sarebbe accaduto. Nel campo napoletano c'erano state molti nervosismi in quei giorni. Lo stesso Ferrandino era andato a Faenza proprio quella mattina, nella speranza di poter intercettare Caterina Sforza di ritorno da Imola, in modo da poter riparare all'errore commesso il 20 ottobre.

Giovanni sapeva che il Duca di Calabria aveva promesso alla signora di Imola e Forlì cibo e armi in modo da farsi perdonare per non essere corso a Mordano in sua difesa come da accordi, ma era abbastanza certo che quella donna, se aveva davvero lo stesso sangue che scorreva nelle sue vene, non si sarebbe accontentata di così poco.

Il signora di Pesaro non avrebbe mai avuto il coraggio di annullare i trattati con Napoli per un simile motivo, ma magari la sua parente l'avrebbe fatto. In tal caso, trovarsi nel cesenate proprio alla vigilia di un cambio d'alleanze del genere sarebbe stato quanto meno da sciocchi.

Con la mente che arrancava alla ricerca di un modo elegante per uscirne, Giovanni concluse che avrebbe addotto la scusa migliore del mondo, almeno secondo la sua ottica e quella del papa.

Avrebbe detto che, approfittando della necessità di far svernare i suoi soldati a Pesaro, sarebbe ritornato da sua moglie Lucrecia, che da troppo tempo ne lamentava l'assenza.

Poco importava se la sua consorte non aveva mai una volta accennato a quel disagio. Ferrandino non avrebbe potuto opporsi dinnanzi a una simile richiesta, dato che Alessandro VI era il suo alleato più importante, forse l'unico che lo sostenesse davvero in qualche modo.

 

Dalla rocca di Imola quella notte partirono tre lettere. Caterina aveva pensato molto, prima di scrivere. Ci voleva un buon equilibrio, perché con quelle missive poteva cambiare la sorte della guerra. Sarebbe bastato toccare le corde giuste, soppesare correttamente le parole. Il potere che aveva in quel momento era tangibile. Le sue città, poste sulla via Emilia, dopo quel tradimento imperdonabile dei napoletani, erano di nuovo in cerca di protezione e stava a lei decidere come e da chi farle proteggere. Era il momento di essere volpe e leone, astuti e scaltri, ma anche coraggiosi e fermi nelle proprie posizioni. Se fino a quel giorno si era lasciata guidare dall'incertezza, permettendo a suo marito di condizionarla e portarla alla scelta peggiore tra quelle proposte, non l'avrebbe fatto più.

La prima lettera era indirizzata al signore di Mantova, Francesco Gonzaga. Il suo contenuto era molto stringato, ma estremamente importante. Si diceva, infatti, che lo Stato della Contessa aveva deciso di lasciare l'alleanza con Napoli, giacché Ferrandino d'Aragona si era dimostrato un uomo incapace di mantenere l'impegno preso e si pregava il Marchese di intercedere presso Ludovico Sforza suo cognato e zio della scrivente affinché accettasse il suo umile pegno d'affetto per festeggiare la sua nuova carica. Caterina aveva infatti assicurato che tanto a Imola quanto a Forlì si sarebbero tenute feste sfarzose in suo onore. Soggiungeva anche che non poteva accollarsi la spesa di un dono degno di quel nome per via della guerra che l'aveva portata a risparmiare per cose d'uso più immediato, ma si diceva certa che suo zio avrebbe compreso.

La seconda lettera, invece, era per Piero Medici, signore di Firenze. Caterina lo metteva in guardia, spiegandogli per filo e per segno in che modo Ferrandino l'avesse ingannata, dimostrandosi del tutto inaffidabile e meschino. Lo invitava a passare dalla parte giusta il prima possibile, assecondando il sentire di Firenze, che era da sempre filofrancese, e abbandonando l'indegno Duca di Calabria.

Infine, la terza missiva era proprio per Ferrandino d'Aragona. Con frasi stringate e secche, la Contessa rifiutava categoricamente ogni suo tipo di aiuto tanto economico, quanto in beni di pronto consumo. Gli disse che non l'avrebbe incontrato per nessun motivo e che era tassativo che si ritirasse, lasciando il suo Stato, senza lasciarvi nemmeno un uomo. Gli concedeva solo di attraversare Forlì, essendo lui ancora a Faenza, da quel che ne sapeva, ma entro due giorni avrebbe dovuto abbandonare il suo Stato se non voleva incorrere in spiacevoli conseguenze.

Mentre la Contessa lasciava la rocca di Imola con al seguito un paio di soldati, anche alcuni messaggeri si misero in strada, diretti al campo francese istauratosi a Bubano.

Caterina aveva spiegato loro in modo molto chiaro cosa fare: innanzi tutto dovevano cercare i fratelli Sanseverino, Gaspare in particolare, e spiegare loro i motivi che la stavano portando a rinnegare l'alleanza con Napoli. Secondariamente, poi, avrebbero dovuto convincere i due a negoziare per lei l'ingresso nella Lega fondata da Ludovico il Moro, accettando senza ulteriori condizioni la sua proposta, che consisteva nel permettere il passaggio per le sue terre ai francesi, a patto di non essere da loro attaccata e di ottenere protezione.

Appena prima di mettersi in viaggio, Caterina prese da parte Tommaso e gli disse: “Devo chiedervi una cosa importante e dovete rispondermi in tutta franchezza.”

L'uomo abbozzò un inchino e restò in attesa.

La Contessa allora proseguì: “I francesi accetteranno di certo la mia proposta, quindi a breve saremo parte della Lega e il fronte della guerra si sposterà ineluttabilmente a sud.”

Tommaso seguiva il discorso, ma non riusciva a cogliere il vero senso di quelle parole. Sapeva che la sua signora aveva ragione e che probabilmente tutto sarebbe andato come immaginava lei, ma cosa c'entrasse lui di preciso non lo capiva.

“La nostra situazione si ribalterà completamente in questo modo. Imola e il suo circondario si acquieterà, con la protezione a tergo dei francesi – spiegò Caterina, sperando di riuscire a convincere il Governatore – mentre Forlì sarà la città più a rischio. Voglio che tutti i pezzi di artiglieria migliori che ho fatto portare qua in autunno tornino a Forlì e così i soldati veterani che avevo selezionato.”

Tommaso annuì, mentre la Contessa si preparava ad affrontare il punto più complesso della sua richiesta: “Vorrei chiedervi di ritornare a Forlì assieme all'artiglieria e ai veterani. Voglio che diventiate Governatore della città e stiate al mio fianco in questa guerra. Potrebbero esserci giorni molto difficili e avervi al mio fianco mi renderebbe il tutto molto più semplice. So di chiedere molto, ma vi prego, pensateci e datemi una risposta. Se sarà negativa, non ve ne sarà fatta alcuna colpa.”

L'uomo restò un attimo senza parole. Non era stato un ordine, ma una richiesta. Così come quando era diventato castellano di Ravaldino anni prima.

Le implicazioni erano molte, molto personali e Tommaso ci mise un po' per valutarle tutte. Però c'era un chiodo saldo nella sua anima, capace di tenere in piedi tutto il suo sistema di valori, e questo era la sua capacità di essere fedele e di essere un buon soldato.

Perciò, assumendo la sua miglior posizione marziale, rispose: “Accetto la vostra proposta.”

Così a Caterina non restò che ringraziare e dire: “Partite a un giorno di distanza da me. Grazie, Tommaso, siete l'unico su cui possa contare in questo momento.”

 

Ferrandino d'Aragona guardava irritato la faccia butterata del messaggero che gli aveva recapitato la lettere della Contessa Sforza. Le sue spie, quello stesso giorno, gli avevano detto che alcuni messaggeri erano stati visti partire da Imola in direzione di Bubano e che era probabile che la Tigre avesse deciso di cambiare alleati.

Ora che il nuovo Duca era ufficialmente salito al potere, Ferrandino sapeva che la forza dell'esercito francese sarebbe cresciuta ancora di più, perché il Moro avrebbe potuto disporre ancor più liberamente dei fondi di Milano, finanziando un esercito di tutto rispetto.

Sensibile alle intimazioni fatte dalla Sforza nel suo messaggio, il Duca di Calabria non perse tempo. Faenza, per quanto saldamente in pugno ai fiorentini, era una città troppo piccola e sguarnita. Non aveva artiglieria degna di quel nome e le fortificazioni erano ben lungi dall'essere inespugnabili. Senza contare che – e questo dettaglio fu quello che davvero lo fece risolvere verso quella soluzione – Astorre Manfredi, signore pro forma della città, era ufficialmente fidanzato con Bianca Riario, dunque, in caso di bisogno, non sarebbe stato fuori luogo crederlo più incline a seguire la futura suocera, piuttosto che il re di Napoli.

Così, quel 26 ottobre, in sordina, senza fare grandi cerimonie e discorsi, Ferrandino fece fagotto e, sotto una pioggia gelida e battente, uscì da Faenza con i soldati che aveva portato con sé a titolo di scorta. Costeggiò la montagna, sulla via per Castrocaro. Anche se la Sforza nel suo messaggio gli permetteva di passare per Forlì nel ritirarsi, il Duca di Calabria non si fidò e lasciò perdere quella via, per quanto sarebbe stata più veloce e diretta.

Come unica soddisfazione, si prese quella di ordinare una ritirata disordinata e caotica. Non volle grandi crimini sulle sue spalle, ma ordinò comunque ai suoi di rubacchiare, in special modo cibo e vino, e far torto a tutti i contadini che avessero incontrato.

Tra i campi, però, si era sparsa la notizia di quel che era capitato a Mordano e così, malgrado il tempaccio e la fanghiglia ghiacciata, molti dei contadini che non avevano ottemperato alla richiesta della loro signora di ritirarsi al riparo in vista dell'invasione si accalcarono sulla strada e fecero del loro meglio per infastidire il ripiegamento dei napoletani.

Ferrandino reagì con violenza, facendo sì che i suoi andassero pesanti con le mani e con le ruberie, ma non osò andare oltre, giacché in mente aveva un buon piano.

 

La Contessa Sforza giunse a Forlì che era giorno fatto. La pioggia continuava a cadere incessante, ma ciò non toglieva nulla alla visione che si presentò agli occhi dei forlivesi che si stavano affacciando dalle botteghe e dalle finestre.

Anche Andrea Bernardi, ovviamente, aveva abbandonato per un istante il suo lavoro e si era messo a occhieggiare verso il fondo della strada.

Da Porta Schiavonia era passato un piccolo corteo, capeggiato dalla signora della città, che, in barba alle gocce gelide che il vento le sferzava in viso, se ne stava ritta come un generale sulla sella di uno stallone, guidando alcuni soldati che seguivano a breve distanza su cavalli da guerra di grosse dimensioni.

Caterina aveva scelto gli abiti da indossare con molta cura. Era stata sua madre a procurarglieli per tempo e aveva fatto un gran lavoro. Si trattava di vestiti dalla foggia molto semplice, ma dai tessuti pregiati, tutti quanti di provenienza milanese. I colori, poi, il rosso e il bianco, richiamavano la sua città natale e sembravano rinnegare ogni parentela coi Riario. Così come anche i due araldi che seguivano la Contessa portavano lo stemma degli Sforza: l'inquartato con due quadranti d'oro con aquila imperiale ribassata di nero e due d'argento con la biscia azzurra intenta a ingoiare un piccolo moro.

L'unico segno di appartenenza alla famiglia del defunto marito, era un piccolo stendardo, ostentato dal soldati di coda, su cui spiccava la mogia rosa dorata in campo azzurro dei Riario.

In un silenzio quasi totale, sottolineato ancor di più dallo scrosciare della pioggia, simile a un tamburo di guerra, il drappello attraversò tutta la città. Alla fine, sempre senza mai incrociare lo sguardo di nessuno dei forlivesi, la Contessa condusse il suo stallone verso la rocca di Ravaldino.

Attraversato il ponte levatoio, Caterina andò al riparo delle arcate, smontò di sella e trovò ad attenderla sua figlia Bianca, Luffo Numai e qualche soldato di stanza alla rocca.

Il Consigliere fu il primo ad andarle incontro, dicendosi sollevato nel rivederla, ma apparendo estremamente corrucciato. Bianca, invece, si tenne in disparte e si accontentò di scambiare con la madre solo uno sguardo e un piccolo sorriso.

Caterina avrebbe desiderato dilungarsi di più con lei, parlarle di quello che era successo e di quello che sarebbe potuto accadere anche lì a Forlì, ma prima sentiva di dover fare altro. Come se anche nella propria casa ci fosse in atto una guerra, doveva seguire con rigore la tattica prescelta e portare avanti la campagna come previsto, senza lasciarsi distrarre da nulla e nessuno.

“Numai – disse subito, richiamando l'attenzione dell'uomo – Ferrandino d'Aragona è passato di qua nel ritirarsi?”

Il Consigliere si accigliò, un po' confuso da quella domanda: “No, mia signora...”

Le labbra di Caterina si incrinarono da una parte, ma non commentò, disse solo: “I miei uomini di scorta vi faranno il punto della situazione, domani, quando arriverà in città Tommaso Feo, parleremo con calma.”

Luffo strabuzzò gli occhi: “Messer Tommaso Feo?”

Bianca stava ascoltando tutto con molta attenzione. Sentire quel nome le fece provare uno strano brivido lungo la schiena. Se fosse tornato il fratello di Giacomo Feo, allora sarebbe tornata anche sua zia Bianca. Forse Ottaviano aveva esagerato, dicendo che non l'avrebbero mai più rivista perché la loro madre la odiava...

“Sì, lui.” confermò Caterina: “E ora ditemi, dov'è mio figlio Ottaviano?”

Numai unì le mani in grembo e rispose: “In questo momento è coi suoi precettori. Devo chiamarvelo?”

La Contessa si morse le labbra: “Non è necessario.” poi fece un paio di respiri profondi, per non tradire il suo nervosismo, e domandò a voce più bassa: “E lui dov'è?”

A Luffo non servirono nomi o spiegazioni per capire che la sua signora si stava riferendo a Giacomo Feo, così, parlando anch'egli in un bisbiglio, rispose: “L'ultima volta che l'ho incrociato, stava andando al Paradiso.”

“Ci vediamo più tardi.” si congedò allora la Contessa, scoccando ancora uno sguardo alla figlia, che fece una mezza riverenza.

Con passi lunghi e veloci, Caterina attraversò tutta la rocca e andò fino al Paradiso. Era giunto il momento di fronteggiare il nodo più difficile da sciogliere. Passando per i boschi, in modo da aggirare Faenza, la Contessa non aveva pensato ad altro che a quel momento.

Eppure, quando si trovò davanti alla porta del Paradiso, dovette dar fondo alla sua determinazione per aprirla e affrontare un discorso che mai avrebbe voluto dover fare.

 
   
 
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