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Autore: Adeia Di Elferas    20/11/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Avete avuto problemi ad attraversare Faenza?” chiese Caterina, non appena Tommaso e Bianca, seguiti dalla loro scorta e dai loro bagagli, giunsero nella rocca di Ravaldino.

Forlì aveva accolto con stupore il ritorno dell'ex-castellano, ma in linea di massima c'era un'aria allegra per le strade, complici anche le feste ordinate dalla Contessa in onore di Ludovico Sforza, nuovo Duca di Milano.

“Nessun problema.” la rassicurò Tommaso, porgendo la propria bisaccia alla moglie, che la prese tra le mani e si avviò in silenzio verso le scale, per andare nell'alloggio che Caterina aveva fatto preparare per loro.

Teoricamente avrebbero dovuto occupare il palazzo del Governatore della città, ma Tommaso e la Contessa erano stati concordi nel dire che sarebbe stato meglio per lui e Bianca restare alla rocca. Sarebbero stati più al sicuro e in caso di necessità, il Governatore Feo avrebbe potuto accorrere più rapidamente alla presenza della sua signora.

“I faentini dicono che Piero Medici ha martellato Ferrandino d'Aragona con lettere di lamentela. Lo sanno perché le staffette sono passate da loro, prima di andare a Cesena.” disse Tommaso, mentre lui e la Contessa procedevano verso la sala in cui li attendevano Luffo Numai, alcuni altri Consiglieri e l'ambasciatore milanese Sfrondati.

“E cosa dicevano di preciso questi messaggi, lo sappiamo?” si informò la donna, contenta nel sentire che il signore di Firenze dava segni, se non proprio di cedimento, almeno di incertezza.

“A quanto pare il Fatuo chiede ragione al Duca di Calabria sul perché non vi abbia portato l'aiuto promesso e si domanda retoricamente se Ferrandino abbia intenzione di fare altrettanto con lui, nel caso in cui i francesi attaccassero Firenze.” disse Tommaso, riassumendo ciò che le spie faentine gli avevano riferito.

Caterina annuì compiaciuta e non disse altro fino a che non furono nella sala in cui si era riunito un Consiglio speciale per riorganizzare la città.

“Il Governatore Generale non sarà dei nostri?” chiese Luffo Numai, quando tutti furono seduti attorno al tavolo.

La Contessa assunse un'espressione indifferente e rispose: “No, ha altri impegni. E così anche mio figlio Ottaviano.”

Tommaso la guardò di sottecchi e, siccome era quello più vicino a lei, fu l'unico a notare il rossore che le saliva sul collo, celato quasi del tutto dallo scialle che portava attorno alle spalle.

La riunione era cominciata da un po' e, mentre si discutevano le migliorie alla cinta di mura, una guardia entrò nella sala senza farsi annunciare: “È appena arrivata una trombetta da Cesena, mandata dal Duca di Calabria.”

Senza aspettare, tanto Caterina quanto Tommaso si alzarono di scatto e seguirono fuori la guardia, con gli altri membri del Consiglio che arrancavano dietro di loro.

“Chi vi manda?” chiese Caterina, per sicurezza, quando si trovò davanti un ragazzo poco più che adolescente, che portava con sé i segni di un messaggero che giunge in pace.

“Il mio signore – disse il ragazzo, con forte accento napoletano – mi ha mandato da voi per chiedere perdono per le scorrerie del suo esercito nel ritirarsi da Faenza verso Cesena. Intende restituirvi tutti i capi di bestiame e tutti i maltolti che i suoi soldati hanno portato al campo degli Aragona.”

“E come intende fare?” chiese la Contessa, subodorando qualche inganno.

“Mandate a Cesena i vostri contadini a riprendersi quel che spetta loro e il Duca restituirà fino all'ultima vacca e all'ultimo monile.” spiegò la trombetta, senza che il suo sguardo lasciasse un momento quello della signora di Forlì.

Luffo Numai si avvicinò alla Contessa e le sussurrò nell'orecchio che era meglio non fidarsi. Se i napoletani avevano rubato qualche bestia, che la macellassero pure, meglio non correre rischi.

“Tommaso, occupatevene voi.” disse Caterina, facendo un cenno d'intesa a Numai.

Il nuovo Governatore di Forlì fece un breve inchino e congedò la trombetta assicurando: “Manderemo al più presto dei contadini per ritirare ciò che ci avete rubato.”

Non appena il napoletano ebbe girato i tacchi, Tommaso andò alle stalle per prendere un cavallo e andare nelle campagne. Conosceva un paio di contadini che facevano al caso suo.

 

“Comunque sia, il mio re non si fida a passare dalle terre della Sforza.” disse con fermezza il portavoce di Carlo VIII, quando Giovan Francesco Sanseverino gli assicurò che il passaggio per la via Emilia era sicuro.

“Il mio re sa cos'ha fatto quella donna in passato e quindi lascerà che solo metà del suo esercito passi dalle sue terre. Re Carlo seguirà la strada proposta dal Duca di Milano e scenderà verso Firenze stando verso la costa occidentale.” proseguì il francese, con una pronuncia praticamente perfetta.

Sanseverino a quel punto fece spallucce, facendo uno strano rumore metallico per via di tutto il ferro che portava addosso: “Come preferisce. La nostra avanguardia proseguirà verso sud da questo lato, allora. Ci ritroveremo a Roma.”

Il portavoce di Carlo VIII fece un inchino molto ossequioso e mostrò il sorriso un po' sdentato: “E sia come da accordi, signor mio.”

 

Ferrandino d'Aragona accorse fuori dal suo padiglione non appena gli giunse la voce che i contadini di Forlì erano arrivati a riprendersi il bestiame e le cose rubate dall'esercito che si ritirava.

Sperava con tutto se stesso che fossero in tanti e desiderosi di riavere le loro proprietà. Li avrebbe attirati nel centro del campo e poi li avrebbe fatti tutti prigionieri. Ne avrebbe ucciso qualcuno, mandando poi i cadaveri alla Contessa Sforza Riario e infine avrebbe chiesto un bel riscatto consistente per quelli ancora vivi.

Era lei o no, quella che sembrava avere tanto a cuore i poveracci che aravano i suoi campi? Ebbene, a meno di non voler perdere la faccia davanti a tutti, avrebbe dovuto pagare e senza lamentarsene.

Tuttavia, quando Ferrandino, stretto nel suo mantello per ripararsi dall'umidità di quel giorno, si trovò davanti due anziani, di cui uno con un occhio cieco e l'altro con una gamba più corta dell'altra, comprese subito che la Sforza o chi per lei aveva capito tutto in anticipo.

“Che volete?” chiese ai due vecchi, guardandoli in cagnesco e storcendo il naso.

“Siamo qui per riprenderci le bestie.” rispose quello guercio, con un sorrisetto serafico che la diceva lunga.

Il Duca di Calabria vibrava per l'indignazione: “Ci siete solo voi?” chiese, ondeggiando i capelli rossicci a destra e a manca come una mucca che scaccia le mosche con la coda.

“Non verrà nessun altro.” confermò il guercio, mentre il sorriso gli si allargava ancora di più.

Ferrandino mise mano alla spada, pensando che avrebbe potuto ammazzarli subito, prendendosi almeno quella piccola rivincita, ma poi pensò anche alle prese in giro che avrebbe dovuto sopportare se la notizia fosse stata risaputa. Avrebbero detto tutti che la Tigre di Forlì l'aveva gabbato e che lui, come un bambino offeso, aveva ucciso due vecchi, facendo la figura del fesso.

Suo padre era già furioso con lui per come aveva gestito l'episodio di Mordano e minacciava di sollevarlo dal suo incarico, se non avesse combinato qualcosa di buono in fretta. A quel punto, l'unico modo per non perdere del tutto la sua reputazione di soldato e di Duca era fingere di non aver colto la provocazione.

Allontanando la mano dall'elsa della spada e sforzando i muscoli del viso ad assumere un'espressione distesa, Ferrandino ordinò: “Portate a questa brava gente tutte le bestie rubate, e lasciateli andare via, se riusciranno a gestire una simile mandria.”

“Ci riusciamo, ci riusciamo.” ghignò il guercio e, assieme allo zoppo, seguì le guardie del Duca di Calabria, che li portarono fino al recinto in cui stavano le vacche, i vitelli, gli agnelli e le pecore rubati.

 

Giulia Farnese con la sorella Girolama e con la suocera Adriana Mila, salirono in carrozza, scortate da trenta cavalieri che avevano il compito preciso di difenderle a costo della vita e riportarle ad Alessandro VI sane e salve.

Il papa aveva avuto il suo da fare, ma alla fine Orsino Orsini aveva ceduto e aveva concesso che la moglie tornasse in Vaticano senza di lui. A dare lo slancio definitivo al signore di Bassanello fu la notizia giunta da Roma il giorno prima. Dopo essersi scontrato per oltre sei ore con il Cardinale Ascanio Sforza, che lo voleva portare a tutti i costi dalla parte di re Carlo VIII, Rodrigo Borja si era messo a gridare, dicendo che mai sarebbe diventato schiavo del re di Francia, soprattutto dopo che il suddetto re aveva minacciato la sua stessa incolumità. Così il papa aveva fatto arrestare Ascanio e lo teneva in ostaggio a Castel Sant'Angelo, per impedirgli di influenzare altri membri della curia.

Orsino non poteva ignorare quella presa di posizione del papa e per dimostrare che la sua famiglia gli era fedele e parteggiava come lui per re Alfonso, era necessario dare quel segno di buona volontà: e così la bella Giulia era stata messa in carrozza e spedita a Roma.

Le tre donne viaggiarono veloci, nelle prime ore del mattino del 29 ottobre. Non pioveva, anche se il cielo era grigio, e non c'era nemmeno la nebbia. Sembrava che Dio avesse benedetto quel viaggio, come se fosse d'accordo con il papa: Giulia doveva stare in Vaticano con Sua Santità, non tra le braccia del marito.

“L'anno scorso, di quest'epoca, nevicava già.” notò con distrazione Girolama, guardando fuori dal finestrino della carrozza.

“Almeno nevicasse. La neve rallenterebbe questa guerra...” sussurrò la bella Giulia.

“Non pensare a queste cose...” fece Adriana, prendendole una mano tra le sue: “Spiana la fronte e distendi il viso: altrimenti ti verranno le rughe.”

La nuora obbedì, ma la tristezza non se ne andò dai suoi occhi che ora scrutavano le alte cime degli alberi che stavano affiancando.

La carrozza si arrestò di colpo, facendo sobbalzare le tre passeggere. Nessuna di loro parlò, ma tutte quante seppero subito che era successo qualcosa di grave.

Sentirono il capitano della loro brigata chiedere con voce tonante: “Chi siete? Che volete?”

“Sono Yves d'Alègre!” rispose qualcuno, a parecchi metri da loro: “Sono qui a nome di re Carlo di Francia e vi intimo di arrendervi!”

Adriana Mila si sporse fuori dal finestrino e vide che la strada era sbarrata da una colonna di soldati, numerosa almeno il triplo del loro misero drappello. Senza attendere che i soldati della scorta si risolvessero per un contrattacco o una contrattazione, la suocera della bella Giulia scese di carrozza e si mosse verso Yves d'Alègre, un uomo sulla quarantina, dal viso pallido, con piccoli occhi penetranti e una curatissima barba castana che ne incorniciava solo il mento.

“Cosa volete da noi?” chiese la donna, avanzando sul terreno fangoso per avvicinarsi al sedicente comandante francese.

“Sappiamo chi siete – disse l'uomo, togliendosi del tutto l'elmo e scoccando un sorriso galante ad Adriana – e abbiamo ordine di farvi prigioniere, senza farvi alcun male. Il mio re vuole che il papa paghi un buon riscatto. Se non ci ostacolerete, verrete trattate come regine.”

Adriana fece un rapido conto. I soldati che avevano con loro non sarebbero mai riusciti a sconfiggere gli uomini di Yves d'Alègre. In più, scappare con Giulia e Girolama al seguito sarebbe stato problematico.

Il male minore era fare il gioco del nemico.

“E sia!” disse la Mila, facendo un cenno d'intesa al capitano della sua scorta: “Ci arrendiamo.”

Il volto smunto di Yves si illuminò per un momento, poi, parlando in francese, ordinò ai suoi qualcosa e quelli si andarono a posizionare in fondo, in testa e ai lati del corteo delle donne del papa. Il comandante, poi, invitò la Mila a tornare a bordo della carrozza ed ella eseguì.

Una volta al riparo, Adriana rassicurò le due ragazze che viaggiavano con lei e assicurò: “Rodrigo farà l'impossibile pur di riaverci, non abbiate paura.”

E al grido di Yves, che imponeva di ripartire alla volta di Montefiascone, la bella Giulia, Girolama e Adriana cominciarono a pregare in silenzio affinché il papa trovasse davvero il modo di riportarle tutte e tre a Roma sane e salve.

 

Il 29 ottobre, Carlo VIII raggiunse Fivizzano assieme alla parte di esercito guidata da lui personalmente.

Mise sotto assedio la città e fece altrettanto con la rocca di Sarzanello, ancora incompiuta, ma non per questo meno preziosa. Era stata per molto tempo una proprietà dei Fregoso, ma da qualche anno, dopo la rivolta a Genova, la famiglia aveva perso ogni controllo sulla roccaforte.

Non volendo per alcun motivo mutare i suoi piani raggiungendo il resto dell'esercito sulla via Emilia, e deciso ad arrivare il più a sud possibile nel minor tempo, il re di Francia non attese nemmeno che scendesse la notte e scrisse subito a Piero Medici, signore di Firenze, che in quei giorni era salito verso nord in cerca di un contatto col re, affinché gli concedesse libero ingresso a Firenze e ordinasse ai soldati della rocca di Sarzanello di arrendersi senza condizioni.

 

Ottaviano Riario intrecciò le dita e appoggiò le mani sul tavolo, ascoltando con attenzione le parole di Domenico Ghetti, che stava riportando fedelmente ciò che aveva sentito dire dal suo parente, Bernardino.

Che la Contessa e il Governatore Generale avessero avuto una discussione molto pesante al ritorno a Forlì di lei era ormai di dominio pubblico. Tutti quanti avevano inoltre notato come i due in pubblico non scambiassero più nemmeno una parola, evitando perfino di guardarsi.

Se non fosse stato per la presenza di Tommaso Feo, che, pur essendo in città solo da pochi giorni, aveva già dato il suo prezioso apporto in varie occasioni, lo Stato sarebbe stato in parte paralizzato.

“È vero, mia madre al momento pasa le sue notti alla rocca, da sola.” confermò il Conte quindicenne, sporgendo un po' in fuori le labbra: “E se lo fa è perché non ha desiderio di passare del tempo con il Governatore Generale.”

Filippo Delle Selle e Bartolomeo Orcioli si guardarono per un momento. Ottaviano stava dando loro molte conferme quel giorno.

Stavano aspettando l'arrivo della Contessa, di Luffo Numai e del Governatore della città per cominciare l'ennesima riunione di Consiglio in cui si sarebbe discusso su come accogliere i francesi che, come ci si aspettava, avevano accolto le proposte della Sforza e avevano annunciato che sarebbero presto passati per la via Emilia, diretti a sud.

Il Conte, che aveva deciso in via straordinaria di presenziare, aveva sfruttato il ritardo della madre e degli altri due per continuare il suo lavoro di persuasione portato avanti con dedizione e pazienza.

Se voleva riuscire nel suo intento, doveva mantenere la calma e aspettare. Con un pizzico di fortuna e una buona pianificazione, sarebbe riuscito a colpire sua madre proprio là dove faceva più male e l'avrebbe fatta pentire per tutto.

Però, per riuscire, aveva bisogno di coinvolgere più persone possibile e doveva farlo in modo che nessuno finisse a far la spia. Aveva pensato molto a come fare e alla fine gli si era profilato un unico metodo in grado di funzionare.

Bertolo Marcobelli si strofinò le mani gelate e chiese: “Ma è vero che il Governatore ha osato alzare le mani su di lei?”

Ottaviano non rispose, studiatamente, limitandosi a guardare il Consigliere con gli occhi pieni di pena fasulla.

Fu Ghetti a dare il tocco in più alla sceneggiata dicendo, del tutto in buona fede: “La moglie di Bernardino mi ha detto di averle visto sul collo dei segni inequivocabili: la voleva strangolare, ecco che voleva fare.”

“Ma perché non lo punisce apertamente?” s'arrischiò a chiedere Filippo Delle Selle, che in tutta onestà non capiva come potesse la Contessa accettare una simile schiavitù per poi, a detta del Conte, lamentarsene con il figlio, pregandolo di non rivelare nulla a nessuno.

“Perché...” cominciò Ottaviano, poi sospirò e strinse il morso, fingendosi molto indeciso se parlare o meno.

Siccome tutti gli uomini presenti pendevano dalle sue labbra, il giovane disse: “Perché quell'uomo ha detto a mia madre che ci sono dei suoi amici pronti a far del male al piccolo Bernardino, nel caso in cui lei osasse far qualcosa per togliergli potere o anche solo contenerlo.”

Un vociare concitato accolse quelle parole. Che il figlio del Governatore Generale fosse anche figlio della Contessa era ormai risaputo, tra i Consiglieri. Era stato lo stesso Ottaviano ad assicurare anche ai più scettici che fosse davvero così. Quindi nessuno si sorprese nel sentire che la Tigre era così remissiva nei confronti del Feo, una volta sentite le minacce che quest'ultimo le aveva mosso.

Il Conte guardava compiaciuto le sue pedine scambiarsi frasi ricche di astio e incredulità. Stava funzionando tutto meglio del previsto. Aveva detto a Sfrondati di stare tranquillo: si sarebbero tolti di torno lo stalliere in modo pulito e definitivo, senza che nessuno potesse accusarli davvero di nulla.

'Questi mezzi popolani – pensò Ottaviano, passando gli occhi da un viso all'altro dei Consiglieri, che si agitavano e si sbracciavano, proponendo vendette e rappresaglie – facili a prendere fuoco e lenti nel ragionare. Alla fine faranno tutto da soli e a me non resterà che stare a godermi lo spettacolo.'

Quando la Contessa arrivò in Consiglio, seguita da Numai e da Tommaso Feo, in molti la fissarono con occhio indagatore, come a voler scorgere i segni delle violenze a cui era per certo stata sottoposta. Caterina non notò quella sfumatura nei loro sguardi. Si accorse solo del mezzo sorriso che increspava le labbra di suo figlio, ma la sua mente era tanto presa da altro, che non vi diede il peso necessario.

“Tra meno di tre giorni i francesi calpesteranno il nostro suolo e dunque dobbiamo discutere i termini dell'accoglienza – disse la Contessa – non siamo tenuti a foraggiarli, ma credo sarà preso come segno di buona volontà far trovare loro anche solo una piccola quantità di vettovaglie al loro arrivo.”

Mentre i Consiglieri cominciavano a discutere quella proposta, Caterina si perse un momento nei suoi pensieri. La sedia di solito occupata da suo marito era vuota. Giacomo si rifiutava categoricamente di prendere parte alle riunioni in cui era presente anche suo fratello, quindi in pratica le stava disertando tutte.

Caterina avrebbe voluto trovare il modo di appianare ogni loro divergenza, ma non riusciva a trovare la forza di perdonarlo per quello che aveva fatto. Anche se le notti passate in solitudine erano per lei una tortura, sapeva che nel momento esatto in cui gli avrebbe permesso di condividere di nuovo la stanza, lei sarebbe ripiombata sotto il suo controllo e non poteva e non voleva permetterlo. Aveva giurato a se stessa, alla morte di Girolamo, che mai più sarebbe stata sotto il giogo di un uomo.

Così, mentre si struggeva, dilaniata tra i bisogni dello spirito e quelli della carne, non prestò molta attenzione a quello che i suoi Consiglieri dicevano. Né a come Luffo Numai cercava di trovare un punto d'accordo tra loro. Né alla forza con cui Tommaso riusciva a imporsi sul Consiglio un punto dopo l'altro.

Non si avvide nemmeno che Ottaviano la stava squadrando con gli occhi accesi dalla luce sinistra nata dalla scintilla dell'odio più cieco.

 
   
 
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