Capitolo
3
13 agosto 2006
Il
visitatore ebbe un brivido, ma non capì se di paura o di
freddo: l’Auror che lo
accompagnava propendette per la seconda ipotesi e commentò
sarcastico: «Non è
esattamente come la Costa Azzurra, vero?».
L’altro
annuì senza dire una parola, stanco dal lungo viaggio in
scopa e infradiciato
fino alle ossa, e lo seguì all’ingresso del
carcere.
Qui
dovettero superare una cascata gelata – “una
sicurezza contro magie di
occultamento” spiegò l’accompagnatore
– e poi un altro Auror, con la faccia
butterata e un’espressione arcigna, li accolse senza dire una
parola e
squadrando dalla testa ai piedi il visitatore che tremava.
«Nome, bacchetta
e motivo della visita» grugnì secco alla fine
della tacita ispezione.
Quello porse
la lunga bacchetta di castagno e la vide essere riposta in un cassetto,
poi
disse con voce ferma e con accento spiccatamente francese:
«Nathan Keller, ho
inoltrato una richiesta al Ministero per visitare il prigioniero Argus
Keller.
Problemi di … eredità» aggiunse alla
fine con un piccolo sorriso che nessuno
degli Auror presenti ricambiò.
L’uomo che
lo aveva interrogato fece un cenno d’assenso e McHill,
l’Auror che lo aveva
accompagnato fino ad Azkaban, lo scortò per i corridoi.
Le celle
erano chiuse da porte massicce di legno, con una piccola apertura
munita di
sbarre in alto, ma a tratti da dentro di esse si alzavano lamenti, a
volte urla
folli e arrabbiate, tanto che il visitatore scoccò
un’occhiata inquieta alla
sua guida, che appariva molto tranquilla, quasi annoiata.
«Non si preoccupi,
sono celle a prova di magia, non riuscirebbero nemmeno ad accendere la
luce con
un incantesimo. Non siamo così idioti in
Inghilterra».
Nathan
trattenne l’impulso di lanciargli un’occhiata
scettica per l’ultima frase e lo
seguì fino a una cella al lato nord del primo piano.
L’Auror
controllò dalla finestrella che tutto fosse tranquillo e,
dopo aver puntato la
bacchetta alla serratura e borbottato un lungo incantesimo di apertura,
lo fece
entrare nella cella, seguendolo a ruota senza riporre la bacchetta.
Era un
ambiente non molto grande, con una branda, un tavolo di legno e un
gabinetto:
un uomo era sdraiato sulla branda, guardando il soffitto con
un’espressione
vacua, che non cambiò nemmeno quando i due maghi entrarono
nella cella.
«Keller,
quest’uomo vuole parlarti» disse McHill, poi si
pose a un angolo della stanza a
sorvegliare la situazione.
Il
prigioniero scoccò uno sguardo apatico al giovane entrato
con la guardia e non
diede alcun segno di conoscerlo o di mostrare alcun interesse per la
prima visita in quasi otto anni di prigionia.
Il giovane
fece un passo avanti e fissò in volto l’uomo: era
sfatto, anonimo, come se la
vita non scorresse più in lui ma il corpo fosse solo un
vuoto involucro
semovente.
«Sono
Nathan. Il figlio di Tertius» disse il visitatore.
Un lieve
moto di sorpresa animò il volto del prigioniero e i suoi
piccoli occhi
infossati, ma subito fu sostituito da un’espressione
beffarda: «Nathan Keller è
morto, ho visto la sua tomba».
«Il giorno
in cui sono morti i miei genitori, lo zio Perseus mi ha portato via
dalla
vostra casa. Hai mai visto il cadavere di tuo nipote?».
L’uomo
aprì un occhio. Sul suo volto comparve
un’espressione rabbiosa, anche se il suo
corpo era ancora molle e rilassato, nella stessa posizione di prima.
«Prima
cosa, i figli di quel traditore del suo sangue che era Tertius non sono
miei
nipoti. Secondo, spero che quella testa di merda di Perseus sia crepato
come si
meritava per essere scappato».
L’Auror
guardò il giovane con curiosità: aveva letto
qualcosa della storia della
famiglia Keller sulla richiesta di visita che il francese aveva
presentato, ma
alcuni dettagli utili solo a soddisfare la curiosità erano
stati tralasciati e
aveva dovuto appurarli da fonti non molto attendibili.
Il giovane
stringeva le labbra, nel tentativo di reprimere la rabbia, e quando
parlò di
nuovo l’accento francese si fece molto più
marcato: «È morto due anni fa. E
questo mi ha portato qui».
Il
prigioniero fece un sorriso soddisfatto, crudele, mostrando i denti
pieni di
carie, e rispose con aria cantilenante: «Non l’ho
ammazzato io, anche se mi
sarebbe piaciuto».
McHill lo
richiamò all’ordine con un gesto minaccioso della
bacchetta, ma Nathan non
diede segno di essersi offeso e continuò, più
calmo, riprendendo un’inflessione
tipicamente britannica: «Lo so, è morto di
malattia. Però, prima di morire, mi
ha rivelato una cosa. Mi ha detto che mia sorella è ancora
viva».
Argus
Keller fece un verso strano, a metà tra un singhiozzo
malevolo e un colpo di
tosse, e sputò immediatamente: «Purtroppo quella
viperetta non è crepata quella
sera e l’abbiamo dovuta allevare in casa. E non è
stata grata nemmeno un po’
per quello che abbiamo fatto per lei, no no, fino a quando le
è esploso un
calderone in faccia. Le abbiamo pure messo la lapide, che
spreco».
Il giovane
si avvicinò alla branda, si abbassò
all’altezza degli occhi castani del
criminale e scandì la sua domanda:
«Dov’è ora?».
Lui si
morse le labbra guardandolo sprezzante e pronunciando ogni singola
parola con
odio: «All’inferno, spero».
Nathan lo
prese per il bavero della logora uniforme da carcerato e chiese di
nuovo, con
estrema calma: «Lo so che non è morta.
Dov’è andata dopo che vi hanno chiusi
tutti qui?».
Il
criminale sputacchiò e senza fiato disse, prima che
l’Auror lo separasse senza
troppa fretta dall’aggressore: «È
scappata durante le vacanze di Pasqua. Andava
dai parenti babbani di quella Sanguemarcio di vostra madre, i
Mills».
10 settembre 2006
Il rumore secco
e frusciante del phon faceva da sottofondo ai pensieri di Seamus,
sdraiato
scompostamente sul divano a fissare con un sorriso involontario il
soffitto.
Seguiva
distrattamente un’idea che gli era venuta in mente poco meno
di mezz’ora prima
e cercava di non tenerla troppo tra le mani per non vederne i lati
negativi,
anzi distruttivi dei suoi possibili effetti. Non era tipo da rinunciare
facilmente a un’idea solo per qualche controindicazione.
Il phon si
spense e Seamus si ritrovò ancora un ronzio fastidioso nelle
orecchie che gli insinuò
qualche dubbio sul suo progetto.
Non ne
aveva parlato nemmeno a Dean, che di solito riusciva a dargli consigli
logici o
almeno promettergli aiuto legale nel caso le cose fossero andate male.
Rimase
altri cinque minuti con lo sguardo perso dietro i propri pensieri, poi
il
rumore dei tacchi sulle piastrelle del salotto lo riscosse.
Guardò in
obliquo Catherine, che stava controllando il contenuto della piccola
borsa a
tracolla: indossava un abito rosso scuro, scollato e al ginocchio, che
le
armonizzava le forme morbide e la slanciava. La osservò a
lungo senza che lei
si girasse completamente nella sua direzione, offrendosi
quell’ultima
incantevole vista prima di un lungo, noioso e sfibrante turno di notte
al Ministero.
Erano
stati insieme tutto il pomeriggio, poi lei aveva programmato di uscire
con
delle amiche, giovani colleghe che le erano rimaste simpatiche quando
aveva
iniziato a lavorare ufficialmente come infermiera al Whittington, cosa
molto
strana dato il suo carattere piuttosto difficile.
Poi lei
alzò la testa, incrociò il suo sguardo e disse
indispettita: «Hai finito di
fissarmi?».
Il sorriso
di Seamus si allargò, senza che una parola gli sfuggisse
dalle labbra, cosa che
fece sbuffare la ragazza, che si allontanò per prendere il
giubbino.
Quando
tornò nel suo campo visivo, Catherine vide che era ancora
tranquillamente in
tuta e chiese con aria di rimprovero: «Hai intenzione di
restare su quel divano
ancora per molto?».
Il ragazzo
chiuse gli occhi con aria soddisfatta e replicò:
«Devo andare tra un’ora e
mezza, ho tutto il tempo. Tanto da qui in centro ci arrivo in pochi
minuti. Sei
tu a stare isolata, Cat».
Lei
strinse gli occhi, irritata per il nomignolo che lui si ostinava a
usare con
soddisfazione nonostante le sue proteste, e lo rimbeccò:
«Io non sto isolata,
sono in una zona interessante, è diverso, Seamus»
distorcendo la pronuncia del suo nome nel modo che odiava.
Lui alzò
un sopracciglio, con un sorriso sornione, e, alzandosi a sedere, le
disse,
trattenendola dall’uscire: «Mi è venuta
un’idea e vorrei chiedere se ti sta
bene».
Catherine
si bloccò con la mano sul pomello del portone e lo
guardò sorpresa dal tono
improvvisamente serio nella voce del suo ragazzo.
Lui si
torse le mani nervosamente, prese un respiro e parlò
velocemente: «Ok, dato che
ormai è come se vivessi a casa mia, ti volevo chiedere se
volevi venirci … sul
serio».
Il cuore
di Catherine iniziò ad accelerare e lei chiese, non sicura
di aver capito bene:
«In che senso?».
«Intendo …
se vuoi trasferirti qui. Per … vivere insieme»
cercò di spiegarsi.
Oddio,
adesso avrebbe detto di no. Lo sapeva che era una di quelle cazzate
immense che
ogni tanto gli venivano in mente: anche se avesse detto di
sì, avrebbe fatto
più fatica a nascondere la sua vera identità, il
suo vero lavoro. Era
decisamente meglio che lei non prendesse nemmeno in considerazione la
sua
proposta.
La vide
lasciare la presa sul pomello e incrociare le braccia al petto,
impacciata,
come se non sapesse bene cosa fare.
«Io, beh …
» iniziò in difficoltà, poi si
interruppe e lo guardò negli occhi.
Seamus
distolse lo sguardo, timoroso che in esso potesse leggere la speranza
che aveva
ancora e l’aveva spinto a compiere quel passo da idiota. O da
coraggioso, ma in
fondo era la stessa cosa.
«Non credo
che potrei sopportare la lontananza della mia dolce
padrona di casa».
Lui tornò
a fissarla, sconcertato e pronto a ribattere a quella che –
beh, di questo ne
era sicuro – era una stupidaggine totale: vide il timido
sorriso che si era
aperto sulle labbra della ragazza e il suo cervello andò in
cortocircuito.
«Sai, a
parte quello, non ci sarebbero problemi» continuò
Catherine, mentre il suo
sorriso si allargava e diventava ironico «Però
penso che potrei farmene una
ragione».