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Autore: Moonyra    20/11/2016    0 recensioni
No, non “andava tutto bene”.
La Seconda Guerra Magica ha lasciato ferite nell’animo di quelli che vi hanno partecipato o che sono stati investiti da essa: ognuna di queste anime porta con sé ricordi, paure, debolezze, ceneri del fuoco che ha rischiato di consumarli.
Questa è la storia di due di queste anime.
Due anime che hanno vissuto, hanno sofferto e devono quindi fare i conti con il peggior nemico che è rimasto da affrontare: loro stessi.
Tratto dal terzo intermezzo:
Gli balenò il ricordo di un altro volto, il proprio volto, ma tumefatto e incrostato di sangue secco.
Il volto che vedeva ogni volta che, dopo una punizione dei Carrow, tornava nel dormitorio vuoto.
Non riusciva a continuare così.
Sempre tremando, cercò a tentoni la bacchetta e la estrasse da una tasca interna della giacca che aveva abbandonato sul pavimento appena rientrato a casa.
Tornò a guardarsi e, lentamente, avvicinò la punta della bacchetta a una tempia.

Rating giallo per riferimenti a sangue e traumi psicologici.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Seamus Finnigan
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Capitolo 3

13 agosto 2006


La fortezza di Azkaban si ergeva sopra di lui, scura anche sotto il sole di mezzogiorno, sferzata dai venti freddi del mare del Nord e dagli spruzzi delle onde gelate.
Il visitatore ebbe un brivido, ma non capì se di paura o di freddo: l’Auror che lo accompagnava propendette per la seconda ipotesi e commentò sarcastico: «Non è esattamente come la Costa Azzurra, vero?».
L’altro annuì senza dire una parola, stanco dal lungo viaggio in scopa e infradiciato fino alle ossa, e lo seguì all’ingresso del carcere.
Qui dovettero superare una cascata gelata – “una sicurezza contro magie di occultamento” spiegò l’accompagnatore – e poi un altro Auror, con la faccia butterata e un’espressione arcigna, li accolse senza dire una parola e squadrando dalla testa ai piedi il visitatore che tremava.
«Nome, bacchetta e motivo della visita» grugnì secco alla fine della tacita ispezione.
Quello porse la lunga bacchetta di castagno e la vide essere riposta in un cassetto, poi disse con voce ferma e con accento spiccatamente francese: «Nathan Keller, ho inoltrato una richiesta al Ministero per visitare il prigioniero Argus Keller. Problemi di … eredità» aggiunse alla fine con un piccolo sorriso che nessuno degli Auror presenti ricambiò.
L’uomo che lo aveva interrogato fece un cenno d’assenso e McHill, l’Auror che lo aveva accompagnato fino ad Azkaban, lo scortò per i corridoi.
Le celle erano chiuse da porte massicce di legno, con una piccola apertura munita di sbarre in alto, ma a tratti da dentro di esse si alzavano lamenti, a volte urla folli e arrabbiate, tanto che il visitatore scoccò un’occhiata inquieta alla sua guida, che appariva molto tranquilla, quasi annoiata.
«Non si preoccupi, sono celle a prova di magia, non riuscirebbero nemmeno ad accendere la luce con un incantesimo. Non siamo così idioti in Inghilterra».
Nathan trattenne l’impulso di lanciargli un’occhiata scettica per l’ultima frase e lo seguì fino a una cella al lato nord del primo piano.
L’Auror controllò dalla finestrella che tutto fosse tranquillo e, dopo aver puntato la bacchetta alla serratura e borbottato un lungo incantesimo di apertura, lo fece entrare nella cella, seguendolo a ruota senza riporre la bacchetta.
Era un ambiente non molto grande, con una branda, un tavolo di legno e un gabinetto: un uomo era sdraiato sulla branda, guardando il soffitto con un’espressione vacua, che non cambiò nemmeno quando i due maghi entrarono nella cella.
«Keller, quest’uomo vuole parlarti» disse McHill, poi si pose a un angolo della stanza a sorvegliare la situazione.
Il prigioniero scoccò uno sguardo apatico al giovane entrato con la guardia e non diede alcun segno di conoscerlo o di mostrare alcun interesse per la prima visita in quasi otto anni di prigionia.
Il giovane fece un passo avanti e fissò in volto l’uomo: era sfatto, anonimo, come se la vita non scorresse più in lui ma il corpo fosse solo un vuoto involucro semovente.
«Sono Nathan. Il figlio di Tertius» disse il visitatore.
Un lieve moto di sorpresa animò il volto del prigioniero e i suoi piccoli occhi infossati, ma subito fu sostituito da un’espressione beffarda: «Nathan Keller è morto, ho visto la sua tomba».
«Il giorno in cui sono morti i miei genitori, lo zio Perseus mi ha portato via dalla vostra casa. Hai mai visto il cadavere di tuo nipote?».
L’uomo aprì un occhio. Sul suo volto comparve un’espressione rabbiosa, anche se il suo corpo era ancora molle e rilassato, nella stessa posizione di prima.
«Prima cosa, i figli di quel traditore del suo sangue che era Tertius non sono miei nipoti. Secondo, spero che quella testa di merda di Perseus sia crepato come si meritava per essere scappato».
L’Auror guardò il giovane con curiosità: aveva letto qualcosa della storia della famiglia Keller sulla richiesta di visita che il francese aveva presentato, ma alcuni dettagli utili solo a soddisfare la curiosità erano stati tralasciati e aveva dovuto appurarli da fonti non molto attendibili.
Il giovane stringeva le labbra, nel tentativo di reprimere la rabbia, e quando parlò di nuovo l’accento francese si fece molto più marcato: «È morto due anni fa. E questo mi ha portato qui».
Il prigioniero fece un sorriso soddisfatto, crudele, mostrando i denti pieni di carie, e rispose con aria cantilenante: «Non l’ho ammazzato io, anche se mi sarebbe piaciuto».
McHill lo richiamò all’ordine con un gesto minaccioso della bacchetta, ma Nathan non diede segno di essersi offeso e continuò, più calmo, riprendendo un’inflessione tipicamente britannica: «Lo so, è morto di malattia. Però, prima di morire, mi ha rivelato una cosa. Mi ha detto che mia sorella è ancora viva».
Argus Keller fece un verso strano, a metà tra un singhiozzo malevolo e un colpo di tosse, e sputò immediatamente: «Purtroppo quella viperetta non è crepata quella sera e l’abbiamo dovuta allevare in casa. E non è stata grata nemmeno un po’ per quello che abbiamo fatto per lei, no no, fino a quando le è esploso un calderone in faccia. Le abbiamo pure messo la lapide, che spreco».
Il giovane si avvicinò alla branda, si abbassò all’altezza degli occhi castani del criminale e scandì la sua domanda: «Dov’è ora?».
Lui si morse le labbra guardandolo sprezzante e pronunciando ogni singola parola con odio: «All’inferno, spero».
Nathan lo prese per il bavero della logora uniforme da carcerato e chiese di nuovo, con estrema calma: «Lo so che non è morta. Dov’è andata dopo che vi hanno chiusi tutti qui?».
Il criminale sputacchiò e senza fiato disse, prima che l’Auror lo separasse senza troppa fretta dall’aggressore: «È scappata durante le vacanze di Pasqua. Andava dai parenti babbani di quella Sanguemarcio di vostra madre, i Mills».

 

 

10 settembre 2006

 

 

Il rumore secco e frusciante del phon faceva da sottofondo ai pensieri di Seamus, sdraiato scompostamente sul divano a fissare con un sorriso involontario il soffitto.
Seguiva distrattamente un’idea che gli era venuta in mente poco meno di mezz’ora prima e cercava di non tenerla troppo tra le mani per non vederne i lati negativi, anzi distruttivi dei suoi possibili effetti. Non era tipo da rinunciare facilmente a un’idea solo per qualche controindicazione.
Il phon si spense e Seamus si ritrovò ancora un ronzio fastidioso nelle orecchie che gli insinuò qualche dubbio sul suo progetto.
Non ne aveva parlato nemmeno a Dean, che di solito riusciva a dargli consigli logici o almeno promettergli aiuto legale nel caso le cose fossero andate male.
Rimase altri cinque minuti con lo sguardo perso dietro i propri pensieri, poi il rumore dei tacchi sulle piastrelle del salotto lo riscosse.
Guardò in obliquo Catherine, che stava controllando il contenuto della piccola borsa a tracolla: indossava un abito rosso scuro, scollato e al ginocchio, che le armonizzava le forme morbide e la slanciava. La osservò a lungo senza che lei si girasse completamente nella sua direzione, offrendosi quell’ultima incantevole vista prima di un lungo, noioso e sfibrante turno di notte al Ministero.
Erano stati insieme tutto il pomeriggio, poi lei aveva programmato di uscire con delle amiche, giovani colleghe che le erano rimaste simpatiche quando aveva iniziato a lavorare ufficialmente come infermiera al Whittington, cosa molto strana dato il suo carattere piuttosto difficile.
Poi lei alzò la testa, incrociò il suo sguardo e disse indispettita: «Hai finito di fissarmi?».
Il sorriso di Seamus si allargò, senza che una parola gli sfuggisse dalle labbra, cosa che fece sbuffare la ragazza, che si allontanò per prendere il giubbino.
Quando tornò nel suo campo visivo, Catherine vide che era ancora tranquillamente in tuta e chiese con aria di rimprovero: «Hai intenzione di restare su quel divano ancora per molto?».
Il ragazzo chiuse gli occhi con aria soddisfatta e replicò: «Devo andare tra un’ora e mezza, ho tutto il tempo. Tanto da qui in centro ci arrivo in pochi minuti. Sei tu a stare isolata, Cat».
Lei strinse gli occhi, irritata per il nomignolo che lui si ostinava a usare con soddisfazione nonostante le sue proteste, e lo rimbeccò: «Io non sto isolata, sono in una zona interessante, è diverso, Seamus» distorcendo la pronuncia del suo nome nel modo che odiava.
Lui alzò un sopracciglio, con un sorriso sornione, e, alzandosi a sedere, le disse, trattenendola dall’uscire: «Mi è venuta un’idea e vorrei chiedere se ti sta bene».
Catherine si bloccò con la mano sul pomello del portone e lo guardò sorpresa dal tono improvvisamente serio nella voce del suo ragazzo.
Lui si torse le mani nervosamente, prese un respiro e parlò velocemente: «Ok, dato che ormai è come se vivessi a casa mia, ti volevo chiedere se volevi venirci … sul serio».
Il cuore di Catherine iniziò ad accelerare e lei chiese, non sicura di aver capito bene: «In che senso?».
«Intendo … se vuoi trasferirti qui. Per … vivere insieme» cercò di spiegarsi.
Oddio, adesso avrebbe detto di no. Lo sapeva che era una di quelle cazzate immense che ogni tanto gli venivano in mente: anche se avesse detto di sì, avrebbe fatto più fatica a nascondere la sua vera identità, il suo vero lavoro. Era decisamente meglio che lei non prendesse nemmeno in considerazione la sua proposta.
La vide lasciare la presa sul pomello e incrociare le braccia al petto, impacciata, come se non sapesse bene cosa fare.
«Io, beh … » iniziò in difficoltà, poi si interruppe e lo guardò negli occhi.
Seamus distolse lo sguardo, timoroso che in esso potesse leggere la speranza che aveva ancora e l’aveva spinto a compiere quel passo da idiota. O da coraggioso, ma in fondo era la stessa cosa.
«Non credo che potrei sopportare la lontananza della mia dolce padrona di casa».
Lui tornò a fissarla, sconcertato e pronto a ribattere a quella che – beh, di questo ne era sicuro – era una stupidaggine totale: vide il timido sorriso che si era aperto sulle labbra della ragazza e il suo cervello andò in cortocircuito.
«Sai, a parte quello, non ci sarebbero problemi» continuò Catherine, mentre il suo sorriso si allargava e diventava ironico «Però penso che potrei farmene una ragione».

  
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