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Autore: Adeia Di Elferas    23/11/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Piero Medici si passò distrattamente due dita sulla collana d'oro che gravava sul suo petto, mentre ripensava a quello che aveva appena fatto.

Firenze non ne sapeva ancora nulla e, di certo, non appena la notizia fosse stata risaputa, sarebbe stato molto difficile tenere a freno le teste calde dei fiorentini. Anche se Savonarola non faceva altro che predicare l'arrivo di Carlo VIII come una benedizione, Piero cominciava a credere che le sue decisioni sarebbero state subito invise alla maggior parte dei cittadini.

La carrozza su cui viaggiava si muoveva senza posa sulla strada resa sconnessa dalle piogge di quei giorni e Piero cominciava ad avvertire una forte nausea. I suoi cugini tramavano nell'ombra, anche in esilio, e il suo potere si stava sgretolando a vista d'occhio.

Suo padre non l'aveva preparato nel modo giusto. Non l'aveva mai calcolato seriamente come il suo erede. Non aveva mai avuto sufficiente pazienza per insegnargli come muoversi in quella confusione che era diventato il mondo.

Il signore di Firenze tamburellò le dita inanellate contro il bordo del finestrino e si chiese come sarebbe uscito da quella storia. Milano, dalla morte di Gian Galeazzo Sforza, era tornata a essere una potenza e anche Venezia stava dando segni di risveglio. Roma, nelle mani di Alessandro VI, e Napoli, in quelle di Alfonso d'Aragona, non sembravano più in grado di arginare la forza dei francesi.

Perfino la Tigre di Forlì si era piegata all'evidenza e aveva deciso di entrare nella Lega del Moro.

Piero si prese la testa tra le mani e sbuffò. Quello che aveva fatto era stato grave. Era stato mosso solo dal desiderio di salvare Firenze, la città che suo padre aveva tanto amato. Era stata la prima volta in assoluto in cui aveva ragionato per il bene della sua città, eppure era certo di aver commesso l'errore più grande della sua vita.

Aveva ceduto Sarzanello, Sarzana, Pietrasanta, Pisa e Livorno al re di Francia. E, soprattutto, aveva dato via libera a Carlo VIII, assicurandogli che Firenze era da quel giorno città aperta.

Combattere non sarebbe servito a nulla, se non a sterminare i fiorentini.

“Dio, abbi pietà di me...” sussurrò piano il Fatuo, lasciando che i movimenti sconnessi della carrozza lo sballottassero a destra e a manca.

 

“Chiedere la deposizione del papa esporrebbe il mio signore al rischio concreto di essere osteggiato da gran parte dell'Europa.” spiegò il portavoce di Carlo VIII, quando Ermes Sforza andò a parlamentare nel suo padiglione.

Stavano scendendo rapidamente verso Firenze e il re di Francia non aveva alcuna intenzione di perdere tempo. Piero dei Medici gli aveva consegnato una città che poteva fruttargli molto e non solo in termini economici e dunque stava perdendo interesse per tutto il resto.

Se aveva ascoltato sorridente e gioviale le richieste dei suoi alleati prima di cominciare la sua campagna, ora che l'Italia gli si spianava davanti con più facilità del previsto, Carlo cominciava a fare orecchie da mercante e a ignorare bellamente tutti quelli che invocavano i suoi favori.

“Vi ricordo che il Cardinale Ascanio Sforza è rinchiuso a Castel Sant'Angelo solo perché appoggia il vostro re.” disse Ermes, mantenendo un'espressione amichevole, ma usando un tono molto fermo.

Il francese sospirò e ribatté: “Forse il vostro Cardinale è stato troppo insistente nel proporre a Sua Santità il nostro partito. Avrebbe dovuto essere più cauto.”

“La deposizione di Alessandro VI, però, era uno dei punti su cui il vostro re era in accordo con il Duca Sforza.” insistette Ermes.

“Non so che altro dirvi.” concluse il portavoce di Carlo VIII, lasciando l'ambasciatore del Moro con un palmo di naso.

Ermes, scomodo nella mezza armatura che l'avevano invogliato a indossare per sicurezza, strinse le labbra, dimostrando forse per la prima volta nella sua carriera di diplomatico tutta il suo disappunto, ma si congedò ugualmente di buona grazia: “Portate i nostri saluti al vostro re e teneteci comunque informati di ogni sua decisione in merito.”

 

Il 3 novembre l'esercito francese si stabilì, senza particolari incidenti, sul confine e nelle campagne dello Stato degli Sforza Riario.

Come deciso in sede di Consiglio, vennero consegnati alle salmerie dei Sanseverino vari generi alimentari in quantità dignitose, seppur non eccessive. Tommaso Feo, poi, in veste di Governatore di Forlì, ebbe la felice idea di far nascere un mercato nei pressi di Porta Schiavonia, promuovendo il commercio tra i soldati e i mercanti di Forlì e dei paesi vicini.

In un primo momento, complici le parole che ancora si rincorrevano pensando a Mordano, la popolazione non prese bene quell'iniziativa, ma già dopo un giorno i mercanti accorsero come mosche e altrettanto fecero i soldati, molti dei quali erano milanesi o del nord dell'Italia e solo in piccola parte erano davvero francesi. Il popolo aveva collegato il disastro di Mordano solo agli stranieri d'oltralpe e così le tensioni, per quanto presenti, vennero tamponate con il buon senso.

“Il mercato è stato un'idea grandiosa.” disse compiaciuta Caterina, quando tornò dall'ispezione che aveva voluto fare di persona quella mattina.

Tommaso chinò un po' la testa, con modestia e ringraziò: “Non sarebbe stato possibile, se voi non foste riuscita ad accordarvi tanto bene coi Sanseverino.”

La Contessa sorrise – evento abbastanza raro in quei giorni – e senza dire altro a riguardo e disse che si sarebbe ritirata nelle sue stanze a rispondere alla corrispondenza.

“Prendetevi qualche momento di riposo – soggiunse la donna, prima di dileguarsi – state un po' con vostra moglie, magari. Ho visto mia sorella molto tesa in questi ultimi giorni.”

Tommaso assicurò che avrebbe seguito il consiglio, tuttavia, appena la Contessa lo lasciò solo, si disse che preferiva andare all'armeria a controllare le munizioni, piuttosto che passare il tempo che restava prima del pranzo con Bianca.

Da quando era tornato a vivere a Forlì, nella rocca di Ravaldino, a stretto contatto con la sua signora, per Tommaso era diventato ancora più difficile stare con sua moglie. Cercava sempre di essere un buon marito, rispettoso e presente, ma non poteva obbligare il suo cuore a provare un ardore che non l'aveva mai nemmeno sfiorato. E così, se a Imola il più delle volte era sfuggito a Bianca con motivazioni di vario genere, accompagnandosi a lei solo quando lei stessa lo richiedeva in modo esplicito, a Forlì le si stava negando completamente. Non avrebbe potuto trovare scuse per sempre, ma almeno per qualche giorno ancora, il neo eletto Governatore della città si sarebbe preso i suoi tempi.

 

“Non posso tenere i miei uomini tranquilli per molto.” disse l'Aubigny, continuando a scuoiare il daino che aveva catturato personalmente e che ora stava appeso davanti a lui: “Dovete decidervi, in un senso o nell'altro.”

Giovan Francesco Sanseverino, seduto su uno sgabello da campo particolarmente scomodo, osservò lo scozzese rinnegato mentre toglieva con la cura di un vero macellaio la pelle alla bestia e sospirò. Il padiglione in cui si trovavano era riscaldato da un focolare il cui fumo risaliva verso l'alto, sparendo oltre il foro centrale della tenda, eppure l'uomo aveva le mani ghiacciate.

“Allora?” chiese l'Aubigny, alzando per un momento i freddi occhi dalla sua preda per guardare l'altro comandante.

“Ci serve ancora qualche giorno. Le nostre spie non sono ancora tornate.” si schermì Giovan Francesco.

“Va bene, ma allora qualche incidente dovete aspettarvelo – si incaponì l'altro, tornando al suo lavoro – e se quella donna reagirà male, prendetevela con voi stessi.”

Sanseverino sbuffò e si alzò: “Va bene, va bene... Quando mio fratello avrà visto le spie decideremo.”

Uscì dal padiglione, lasciandosi alle spalle il suono umidiccio della pelle del daino che si staccava dalle carni, e andò verso le salmerie. Pensare a macellai e simili gli aveva fatto venire fame.

Mentre pregava uno degli uomini addetti alle vettovaglie di dargli qualcosa, Sanseverino pensò alla situazione in cui si trovavano.

La scelta più logica e più consona con gli ordini di re Carlo sarebbe stata non ascoltare le richieste d'aiuto ricevute e andare avanti, scendendo verso Roma.

Tuttavia Cesena era una città importante. Averla avrebbe permesso di mitigare la guerra su tutta la fascia, fornendo a eventuali rinforzi un passaggio certo non solo sulla via Emilia, ma anche verso la costa.

Solo che Guido Guerra chiedeva l'aiuto milanese e francese per riprendersi la sua città non solo a discapito dalle frangia dei fedelissimi di sua madre, ma anche dei napoletani, che in quei giorni sostavano in pianta stabile entro le mura e tutt'attorno.

Il piano era semplice, a sentire il Conte Guerra: catturare Niccolò Orsini e chiedere la liberazione della città come riscatto. Ferrandino d'Aragona, così si diceva, si era ritirato verso sud e quindi non avrebbe fatto in tempo a sferrare un attacco coi suoi soldati. Al massimo, sempre secondo Guerra, ci sarebbe stato da battere i settecento fanti di Ferdinando d'Avalos, che era rimasto con l'Orsini a presidiare la città.

Gaspare sembrava incline ad aiutare Guido Guerra, mentre Giovan Francesco non era tranquillo. Non gli piaceva quel fuori programma e voleva lasciare la Romagna il prima possibile. Non si fidava di nessuno, tanto meno della Sforza. Aveva concesso loro un grande privilegio e i suoi favori stavano permettendo a tutti loro di riposare e riorganizzarsi prima di sferrare l'attacco a Roma, ma la Tigre aveva già dimostrato di saper essere molto volubile.

Quel che Giovan Francesco Sanseverino temeva sopra ogni cosa era vederla cambiare di nuovo idea o quanto meno rendersi meno disponibile. E per provocarla sarebbe bastato anche solo un piccolo sgarro.

 

Un contadino forlivese, rifugiatosi come tanti altri nei pressi di Ravenna, seguendo gli ordini della Contessa, stava osservando una scena molto strana nascosto dietro alla casa in cui aveva trovato ospitalità e lavoro come uomo di fatica.

Alcuni soldati francesi, una manciata, erano giunti a cavallo fino a lì. Di fatto, stavano alzando i colori di Carlo VIII in terreno ravennate e quindi in una zona sotto il controllo di Venezia.

Il contadino li osservò a lungo, cercando di capire che stessero dicendo. Sembravano ubriachi e molto esaltati. Probabilmente non si erano nemmeno accorti di essersi spinti troppo oltre. Gli zoccoli dei loro cavalli da guerra calpestavano il terreno fangoso e loro non facevano nulla per bloccarli o farli tornare indietro.

A un certo punto, uno dei francesi si staccò dal resto del gruppo. Nessuno dei suoi compari parve avvedersene e il contadino sentì il cuore saltargli in gola, quando vide che lo straniero stava andando proprio verso di lui.

Preso dal panico, ricordandosi della ferocia dei francesi a Mordano, l'uomo corse nel fienile e prese il forcone più grosso che trovò. Dopodiché, tornò nel suo posto d'osservazione e attese.

Il francese si fermò a pochi metri da lui, mentre il lontananza ancora si sentivano le risate sguaiate e le voci grosse degli altri soldati.

Il contadino lanciò uno sguardo furtivo al cavallo del francese, che era smontato di sella per espletare alcuni bisogni corporali. Si trattava di una bestia formidabile. A rivenderla, ci si sarebbe guadagnata una somma più che discreta.

Fatto forte della lontananza degli altri uomini d'arme, il contadino imbracciò con determinazione il forcone e uscì dal suo nascondiglio, sorprendendo il francese del tutto indifeso, con le brache calate e le mani impegnate.

Senza pensarci due volte, il forlivese affondò i denti acuminati del forcone nella pancia scoperta del francese e guardò i rivoli rossi del suo sangue fare capolino dalle ferite, mentre il soldato strabuzzava gli occhi ed emetteva un gemito sordo.

Il contadino mollò la presa, lasciando il forcone conficcato dell'addome del malcapitato e si affrettò a prendere le redini del cavallo che però, complice l'agitazione del forlivese, cominciò a fare le bizze, alzandosi sulle zampe posteriori e soffiando con forza.

A quel fracasso, i compari del morto cercarono la fonte del rumore e videro subito il contadino che cercava di tenere a bada la bestia, che si dimenava come impazzita.

Quelli con la vista migliore si accorsero anche del loro compare che giaceva a pochi metri dal cavallo imbizzarrito e del forcone che spuntava dal suo corpo e tanto bastò a scatenarne la reazione.

 

Un contadino di Ravenna, giunto al mercato straordinario sotto a Porta Schiavonia, appena fuori dalle mura di Forlì, stava passando in rassegna gli arnesi da lavoro messi in vendita da alcuni soldati milanesi e francesi.

Gli sembrava strano che dei soldati avessero così tante zappe e forconi da vendere, ma i prezzi erano buoni e così voleva fare un bell'affare.

La gente del posto stava parlando animatamente di un qualche incidente avvenuto proprio vicino a Ravenna, tra alcuni francesi e qualche paesano. Il ravennate ascoltava con distrazione, pensando che se uno stupido aveva cercato di rubare un cavallo a dei soldati, allora si era meritato di morire male, come sostenevano i pettegoli di Forlì.

“Hanno ammazzato qualche uomo e qualche donna – stava raccontando uno dei mercanti – hanno rubacchiato qua e là, ma alla fine la cosa s'è spenta di suo.”

Il ravennate era quasi stufo di sentir parlare di certe cose, e stava per chiedere a qualcuno quando sarebbero state riaperte in modo stabile le porte di Forlì, dato che in quel momento solo la porta che si trovava dal lato della rocca di Ravaldino era sempre aperta, e le altre, aperte solo in alcuni momenti della giornata, lasciavano comunque passare solo gli abitanti della città e coloro che portavano cibo.

Aveva già schiuso le labbra per domandare a uno dei tanti chiacchieroni che aveva attorno, quando tra gli altri arnesi riconobbe una zappa molto particolare. La riconobbe subito, perché lui stesso aveva inciso il decoro sul legno ormai corroso dal tempo.

In un lampo capì che i francesi di cui tutti parlavano erano stati anche nella sua fattoria e che avevano di certo rubato e forse fatto anche di peggio.

“Chi è qui per vendere questa?” chiese, prendendo la zappa tra le mani e togliendosi ogni dubbio sul fatto che fosse proprio la sua.

Un soldato, con una pronuncia difficile da capire, face intendere che era lui il venditore.

Il ravennate a quel punto, senza nemmeno perdere tempo a gridare, gli si avventò addosso, cominciando a tempestarlo di pugni e colpi di zappa.

La zuffa tra il contadino e il soldato si trasformò presto in vera e propria rissa. Solo che i contadini e i mercanti non avevano altre armi se non quello che stavano vendendo, mentre gli altri avevano con loro le armi e alcuni indossavano parti d'armatura.

Il castellano di Porta Schiavonia comprese subito che la situazione sarebbe sfuggita di mano, perciò mandò fuori un paio di suoi soldati, affinché prendessero il contadino che aveva dato il via alla diatriba e lo portassero in salvo. Forse, si disse il castellano, tolto il pomo della discordia, anche la rissa si sarebbe spenta.

I due soldati riuscirono a prendere per la collottola il ravennate, che nel frattempo era riuscito a sfregiare il volto del francese che voleva vendere la sua zappa, e lo trascinarono a viva forza su per le scale di Porta Schiavonia, fino al posto di guardia dove l'attendeva il castellano per chiedergli delucidazioni.

Tuttavia, quel modo di gestire la situazione si ritorse contro al castellano che si vide puntare contro, in quattro e quattr'otto, alcuni pezzi d'artiglieria leggera che i francesi avevano dislocati a poche centinaia di metri da lì.

Vedendo il contadino sparire su per la fortificazione della porta, infatti, i francesi pensarono subito che si trattasse di un forlivese che aveva agito solo per rappresaglia.

Il mercato si era disperso in pochi istanti, mentre il castellano, sconvolto da quello che sarebbe potuto accadere, mandò subito una guardia alla rocca di Ravaldino, pregandolo di attraversare la città il più in fretta possibile.

 

Caterina Sforza era nel cortile d'addestramento a tirare con l'arco assieme ai figli Livio e Galeazzo, mentre il più piccolo Sforzino stava seduto su un cumulo di fieno a guardare e incitare i fratelli maggiori.

Con loro c'erano solo pochi soldati, che davano consigli ai due bambini che, pur avendo solo dieci e nove anni, si stavano dimostrando giorno dopo giorno sempre più abili con le poche armi che sapevano già maneggiare.

Tommaso Feo stava guardando la scena appoggiato a una delle colonne del porticato. Faceva freddo, ma il cielo era sgombro. Di quell'epoca, gli anni prima, la neve era già scesa. Forse i lunghi inverni stavano volgendo al termine in favore di stagioni più miti.

La Contessa aggiustava la mira dei figli e suggeriva loro qualche trucco spicciolo per fare meno fatica e colpire con maggior precisione il bersaglio. Il Governatore di Forlì, che si era preso quella breve pausa con molto piacere, la osservava con attenzione. Gli faceva piacere vedere come la sua signora riuscisse a relazionarsi in modo così disteso almeno con quei due figli.

Quella mattina, per sbaglio, Tommaso aveva sentito la coda di un litigio tra la Contessa e Giacomo e non gli era piaciuto per niente.

Suo fratello, in quel momento, stava appoggiato al palo per i cavalli, intento a guardare la moglie, gli occhi stretti contro il sole stentato di quel giorno e le labbra inclinate di lato. Indossava abiti eleganti, di un blu meraviglioso, ma la sua schiena non era dritta e tronfia come al solito. Sembrava un cane bastonato. Probabilmente stava ancora pensando a quello che la Contessa gli aveva detto quella mattina.

Tommaso ripensò a quando, salendo le scale, lo aveva sentito chiedere: “E allora intendi lasciarlo in quella casa alla mercé dei francesi?”

“I francesi non sono in città, ne sono fuori e le porte sono tutte sotto controllo.” aveva ribattuto la Contessa.

“Mio figlio deve stare al sicuro, in questa rocca, esattamente come i tuoi!” aveva inveito Giacomo, alzando ancora di più la voce.

“Bernardino è anche figlio mio!” si era infervorata allora la Contessa.

Ne era seguita una strana serie di rumori, che a Tommaso sembravano quelli di un'azzuffata, ma aveva ritenuto l'idea del tutto assurda. Tuttavia, le parole sibilate e smozzicate che gli giunsero all'orecchio, gli fecero pensare di averci visto giusto.

A un certo punto, l'uomo, che pur aveva cercato di non far rumore, bloccandosi subito nella salita, aveva fatto inavvertitamente cigolare la spada nella fodera e così la Contessa e il Governatore Generale erano rimasti subito in silenzio e si erano separati, prendendo due strade opposte.

Giacomo era passato proprio accanto a lui, scendendo le scale tutto accaldato, con gli abiti fuori posto, avvalorando l'ipotesi di partenza di Tommaso. I due si erano guardati un istante, ma nessuno di loro aveva avuto lo spirito di aprir bocca.

Così ora, mentre guardava la Contessa tirare con l'arco assieme ai figli, Tommaso si stava chiedendo che cosa stesse davvero succedendo tra la Tigre e il suo marito segreto.

Prima che potesse cominciare a formulare nuove teorie a riguardo, Tommaso venne distratto da un soldato che era arrivato di corsa fino al cortile, gridando: “Aiuto! Soccorso! A Porta Schiavonia!”

 
   
 
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