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Autore: Adeia Di Elferas    26/11/2016    4 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La guardia spiegò a grandi linee quanto era accaduto a Porta Schiavonia e così la Contessa si affrettò a dare le consegne necessarie per far fronte a quel problema.

Il suo primo impeto, in realtà, sarebbe stato quello di chiudere le porte, puntare l'artiglieria e cercare di sterminare quanti più francesi possibili, vendicandosi in un sol colpo di Mordano, Bubano e dei subbugli che la presenza dell'esercito di Carlo VIII stava causando nelle sue terre.

Tuttavia la sua mente riuscì a frenare l'impeto dell'animo, facendola optare per una soluzione meno drastica, ma altrettanto valida.

La Contessa disse ai figli di raggiungere i fratelli maggiori nella rocca e di non uscire per nessun motivo. Disse loro di dare lo stesso consiglio anche alla loro zia Bianca, se l'avessero incontrata.

“Prima che la situazione sfugga di mano a tutti quanti – disse Caterina, richiamando a sé Tommaso e tutti gli altri uomini presenti nel cortile – dobbiamo far chiudere le porte e sedare qualsiasi tipo di tafferuglio, ma bisogna farlo senza arrecare troppo danno ai nostri alleati.”

“Io vado a Porta Schiavonia con un manipolo di uomini.” si offrì subito Tommaso, facendo segno a uno dei soldati che gli stava accanto di portargli le armi.

Caterina avrebbe voluto andare al posto del Governatore, ma sapeva che a lei spettava il compito più complesso, ovvero quello di coordinare la difesa e di cercare subito un contatto con i generali francesi.

“Va bene. State attento, però.” accettò la Contessa, dando un colpetto alla spalla di Tommaso che, chiamando a sé alcuni soldati, tra cui il figlio di Luchino Veggiani, Battista, ordinò che venissero preparati i cavalli.

“Vado anche io.” fece Giacomo, parandosi davanti a Caterina, che si stava avviando a grandi passi all'armeria.

“No, tu resti qui.” ribatté la moglie, scansandolo per proseguire verso la sua destinazione, dove avrebbe preso una spada e qualche pezzo d'armatura.

“Sono il Vicesignore di queste terre, devi permettermi di fare la mia parte.” si ostinò Giacomo, bloccandola ancora una volta.

“E va bene!” sbottò la Contessa, tesa per quello che stava capitando e improvvisamente in ansia per la sicurezza del marito: “Prendi una spada, un elmo e uno scudo, prima di tutto. Dopodiché occupati di Porta Ravaldino: falla chiudere e fai armare i soldati, che siano pronti a un eventuale attacco. Poi vai a Porta Cotogni con una scorta e dà ordine che venga chiusa e presidiata.”

Il Vicesignore di Imola e Forlì annuì con forza e si mise a correre, precedendola all'armeria. La moglie lo seguì con lo sguardo, sperando con tutta se stessa di non doversi pentire per la sua decisione.

Quando giunse dagli armieri, Giacomo era già bardato e stava ripartendo, pronto a dare ordini agli uomini di Porta Ravaldino. Caterina, quindi, si lasciò aiutare nell'indossare una piastra pettorale e una cuffietta di cotta di maglia. Prese una spada lunga e poi corse subito alle stalle, per prendere un cavallo con cui raggiungere Porta San Pietro.

 

Tommaso Feo giunse a Porta Schiavonia in un lampo, seguito a ruota da un manipolo di soldati scelti personalmente tra quelli di stanza al quartiere militare della città.

Quando arrivò, la prima cosa che catturò la sua attenzione fu il fumo che saliva oltre la porta.

“C'è un incendio!” gridò rivolto ai suoi.

La popolazione alle sue spalle si era ritirata e solo in pochi osavano ancora guardare dalle finestre delle case quello che stava accadendo a pochi metri di distanza. In molti stavano in silenzio, attoniti e terrorizzati, già immaginandosi vittime innocenti di un saccheggio, mentre qualcuno gridava e incitava i soldati di Forlì e il Governatore della città a difenderli dall'invasore.

“Buttate acqua sulle fiamme e aprite la porta!” ordinò Tommaso, rivolgendosi al castellano di Porta Schiavonia che si era affacciato dal lato che dava verso l'interno della città.

L'uomo fece subito eseguire la direttiva e così Tommaso poté uscire e vedere coi suoi occhi quello che stava accadendo.

I francesi che erano assiepati appena fuori dalla porta avevano dato fuoco a ciò che restava del mercato e alcuni di loro si stavano ingegnando per mettersi a scalare le mura. Tommaso gridò ai suoi di fare ostruzione e mettersi in formazione di contenimento, cercando di non colpire a morte nessuno.

Quando gli uomini a cavallo si schierarono a difesa delle mura, per qualche istante tutte le velleità francesi parvero spegnersi di colpo. La vista di quella pronta reazione aveva insinuato in molti il dubbio concreto di non avere speranze, e anche le parole che il Governatore Feo stava sillabando, sperando di farsi capire, sembravano minacciose e perentorie.

I milanesi, pochi tra i soldati francesi, compresero quello che Tommaso stava gridando e trovarono la sua idea di ricordare a tutti come fossero ormai alleati fosse in realtà un tentativo molto debole di mantenere la pace.

“Se vi calmerete e smetterete subito di attaccarci, a nome del Conte Ottaviano Riario vi daremo cibo, vino, pane, carne!” promise Tommaso, alzando la spada al cielo per attirare su di sé l'attenzione.

Al suo fianco Battista Veggiani, colto dal suo entusiasmo giovanile, fece eco: “Ottaviano! Ottaviano! Carne, carne!”

Fu una frazione di secondo, durante la quale Tommaso credette passata la tempesta, mentre i francesi cercavano di capire quello che era stato detto. Un istante di immobilità, disturbato solo dalle secchiate d'acqua lanciate dal castellano di Porta Schiavonia per spegnere l'incendio quasi sconfitto.

“Ils vont nous tuer!” gridò a un certo punto uno dei francesi, rivolto ai suoi compari: “Ils vont nous tuer...!”

Tommaso, che un po' di francese lo masticava, comprese subito l'equivoco. Quel soldato, di certo incapace di comprendere la loro lingua, aveva distorto nella sua mente il significato del nome Ottaviano, pensando che Veggiani avesse incitato i suoi a ucciderli.

Gli uomini di Carlo VIII caricarono i soldati di Tommaso e per qualche momento di totale confusione, il Governatore cercò solo di difendersi, senza badare troppo a quello che aveva egli stesso ordinato poco prima.

Quando si rese conto che i suoi non avrebbero mai potuto sconfiggere quel branco di cani randagi, gridò al castellano di riaprire la porta. Mentre si affrettava a far rientrare i suoi in città, ne vide uno morto in terra con una spada nel costato e ne riconobbe un secondo che però ancora respirava.

Gettando alle ortiche la prudenza, smontò rapido da cavallo e raccattò il compagno ferito, trascinandolo poi oltre la porta, che si richiuse appena dopo averlo lasciato passare.

La ritirata dei forlivesi ebbe più effetto delle minacce. Come se fosse venuta meno la legna da ardere, i francesi si spensero a poco a poco. Se dapprima avevano cercato di scalare le mura, adesso si guardavano attorno perplessi e qualcuno cominciò anche ad avanzare dubbi su come i generali avrebbero preso quell'incidente di cui nessuno aveva ancora capito nulla.

 

Caterina aveva previsto che il tafferuglio scoppiato a Porta Schiavonia avrebbe avuto ripercussioni lungo tutta la cinta muraria.

Quando arrivò a Porta San Pietro, infatti, trovò i soldati del rivellino impegnati a respingere alcuni francesi che, seppur con scarsa convinzione, tentavano di scalare le mura.

La Contessa ordinò che la porta restasse chiusa fino a nuovo ordine e si unì per almeno un'ora ai suoi uomini, gettando dal camminamento pietre e altri proiettili sufficienti a smontare i francesi, ma non tanto pericolosi da ammazzarne troppi.

Dopo un po', qualcuno dei francesi parve capire chi lei fosse e certi presero a gridare agli altri: “La lionne! La lionne!”

Come se quella rivelazione avesse cambiato radicalmente la situazione, pian piano gli assedianti lasciarono le proprie postazioni, abbandonando uno dopo l'altro il proposito di espugnare le mura di Forlì.

Una volta visto che la situazione era di nuovo sotto controllo, Caterina si affrettò a tornare a Ravaldino.

Mentre attraversava il ponte, vide una colonna di soldati arrivarle alle spalle di corsa e sentì uno di loro gradare: “Un ferito! Un ferito!”

Con il cuore che batteva come un tamburo, la Contessa raggiunse i soldati. Il suo timore di vedere suo marito Giacomo o suo cognato Tommaso trafitti da una freccia o da una spada la stava facendo quasi tremare.

Quando vide il viso esangue di uno dei suoi veterani, si vergognò profondamente di sentirsi sollevata.

“Portatelo dentro, presto!” ordinò, seguendo il corteo che scortava il ferito.

Una volta nella rocca, si accorse che anche Tommaso Feo li aveva raggiunti. Aveva del sangue che usciva da una ferita alla testa, ma Caterina si rassicurò subito nel vedere che si trattava solo di un'abrasione molto superficiale.

“Il cerusico!” esclamò, levandosi la cuffietta di cotta di maglia, rivolgendosi poi a Tommaso: “Fatelo portare nell'armeria: è la stanza più comoda e vicina che abbiamo. E voi andate nel mio laboratorio e prendete la bottiglietta che sta sul tavolo, quella con scritto sopra 'a far dormire'.”

Il Governatore girò il primo ordine ai suoi soldati e poi si mise a correre verso la spelonca da strega della sua signora, senza chiedersi nemmeno a cosa sarebbe servita la pozione che era stato mandato a prendere.

 

Giacomo Feo si coprì il viso appena in tempo con lo scudo, prima che una freccia lo colpisse. Sul lato di Porta Cotogni c'erano ancora dei francesi che insistevano nel voler dare la scalata alle mura.

Non sembravano mossi da altro se non da un furore dettato dal momento e forse sarebbe bastato poco per farli calmare, solo che il Vicesignore non aveva la più pallida idea di cosa dire o fare per placarli.

I soldati della porta eseguivano pedissequamente ogni sua direttiva, ma più che ripetere le stesse cose che aveva detto Caterina, ovvero di contenere i francesi cercando di non ucciderne, non sapeva che altro proporre.

Quando gli uomini di Carlo VIII cominciarono a portare vicino alle mura degli scaloni da assedio, Giacomo si sentì mancare il fiato nei polmoni. Non poteva per nessun motivo permettere che proprio la porta che sua moglie gli aveva affidato fosse quella destinata ad aprire la strada agli invasori.

“Muovetevi!” gridò, prendendo le la gorgiera una delle guardie e strattonandola: “Buttate giù quelle scale!” e scosse un altro soldato.

Gli uomini della Sforza apparvero subito insofferenti verso i suoi modi perentori e non sostenuti da una vera autorevolezza, ma il momento era tanto critico che, pur storcendo il naso, tutti loro si misero d'impegno per difendere il confine della città.

Lo stesso Giacomo, abbandonato lo scudo che aveva usato fino a quel momento per proteggersi da ogni sorta di oggetto che veniva lanciato dal basso, aiutò i soldati a scansare gli scaloni dal bordo del muro.

Non badò molto alla sorte di quelli che cadevano avendo già intrapreso la scalata, concentrandosi più che altro su quelli che stavano ancora in terra, pronti a sostituire quelli caduti. Sembravano moltiplicarsi...

Giacomo avrebbe voluto mandare qualcuno – o, ancora meglio, andare lui stesso – a chiamare rinforzi alla rocca di Ravaldino o al quartiere militare, ma temeva che quella decisione sarebbe stata vista dalla moglie come un segno di debolezza, così evitò.

 

Il cerusico scosse piano il capo, non appena ebbe finito di spogliare il ferito con l'aiuto della Contessa e di un servo.

“Se ci metto le mani, muore per il dolore.” spiegò, indicando lo squarcio che occupava gran parte dell'addome dell'uomo.

“Eccomi!” esclamò Tommaso, arrivando in volata all'armeria con in mano il bottiglino che la sua signora lo aveva mandato a recuperare.

“Cos'è?” chiese il cerusico, dedicando alla boccetta un rapido sguardo, prima di tornare con gli occhi alla ferita del soldato.

“Un misto di oppio, cicuta, aceto, edera e altro... Si tratta di una mia invenzione, in realtà – spiegò Caterina, allungando una mano per prendere la pozione – non ho ancora avuto modo di testarla con attenzione su qualcuno, ma dovrebbe permettervi di sanare quest'uomo evitandogli ogni male.”

Il cerusico si accigliò, prendendo comunque i ferri del mestiere dal suo mestiere dal borsone che portava con sé: “Che intendete di preciso?”

“Dormirà, mentre voi lo operate e non sentirà nulla.” disse la donna, con sicurezza.

L'uomo respirò a fondo un paio di volte, poi incrociò lo sguardo dell'agonizzante che sembrava implorarlo di seguire i dettami della Contessa, così concesse: “E sia. Dateglielo.”

Al che Caterina stappò la bottiglietta e ne accostò l'imboccatura alle labbra del ferito, riuscendo a fargliene bere qualche goccia. Nel giro di pochi istanti, il soldato si rilassò di colpo, come svenuto e così il cerusico poté fare quel che doveva senza curarsi del dolore del suo paziente.

 

Si stava avvicinando la sera e finalmente i francesi, respinti con ostinazione, si stavano stancando di dare l'assedio a Porta Cotogni.

Era sorprendente, secondo Giacomo, che non fosse arrivato nessuno dei generali di quei soldati a richiamarli.

Non c'erano stati grossi incidenti, solo qualche ferito lieve e tra i francesi non c'erano stati caduti, almeno per quello che ne sapeva il Vicesignore di Imola e Forlì.

Quando anche gli ultimi ostinati francesi furono stufi di farsi prendere a pugni non appena arrivavano in cima agli scaloni, Giacomo si permise di tranquillizzarsi. Ce l'avevano fatta, almeno per il momento.

Guardò un attimo i soldati che aveva avuto affianco in quella difficile giornata e non seppe come congedarsi. Doveva far loro i complimenti per come avevano retto la situazione oppure sarebbe stata una cosa fuori luogo?

Impacciato, fece involontariamente riemergere il proprio lato arrogante, dicendo solo: “Ci avete messo parecchio, ma alla fine ce l'avete fatta. Restate allerta e non aprite la porta per nessun motivo.”

Così, quando cominciò a scendere la scala per lasciare il camminamento, molti occhi si puntarono su di lui, fiammeggiando di irritazione.

“Quel dannato damerino vestito di seta...” borbottò Domenico Ghetti, che era tra i difensori della porta: “Solo perché è il mantenuto di una Contessa crede di poter venir qui a insegnare a noi il nostro mestiere...”

E in molti annuirono e gli diedero silenziosamente ragione.

 

“Dov'è la Contessa?” chiese Giacomo, non appena arrivò alla rocca.

“La troverete nell'armeria.” rispose la guardia che era stata interpellata, senza l'ombra dell'ossequiosità che di norma un soldato avrebbe dovuto avere nei confronti del Vicesignore dello Stato.

Giacomo andò a passo spedito fino alla sala delle armi, dove trovò Caterina intenta ad aiutare il cerusico, che stava ultimando una medicazione a un ferito.

Quando la donna alzò un momento gli occhi dal suo lavoro e vide il marito, per un istante una strana luce le illuminò il viso. Era come se stesse guardando qualcosa di incredibile.

Giacomo si chiese come potesse essere lui l'oggetto di tanta meraviglia. Era sporco, in disordine, coi capelli aggrovigliati e di certo doveva avere un aspetto orribile, nel complesso. Eppure la moglie lo fissava come mai aveva fatto prima di allora.

Caterina chiese a voce bassa al cerusico se avesse ancora bisogno di lei. Quando l'uomo fece segno di no col capo, la donna lo lasciò e si diresse verso il marito che aspettava vicino all'ingresso.

In quel momento, secondo la Contessa, Giacomo era l'immagine esatta dell'uomo che mai, secondo lei, avrebbe potuto essere. Per quanto apparentemente sconvolto, con qualche schizzo di sangue sul viso e una manica del giubbone mezza strappata, secondo Caterina non era mai stato più affascinante.

“Porta Cotogni è tranquilla – annunciò Giacomo, chiedendosi che significasse il mezzo sorriso comparso sulle labbra della moglie – sembra che si siano ritirati, almeno per il momento.”

Caterina gli appoggiò con delicatezza una mano sul petto e ci mise qualche momento, prima di dire: “Ho già ordinato a tuo fratello di cominciare il primo turno di sorveglianza. Tu lo sostituirai all'alba. Vi alternerete nel controllare le porte della città, almeno fino a che qualche generale dei francesi non si farà vivo per porgerci le dovute scuse e spiegazioni.”

Giacomo deglutì un paio di volte, indeciso se prendere tra le proprie la mano che Caterina gli aveva poggiato sul cuore o se aspettare.

Il movimento improvviso del cerusico e l'arrivo di alcuni soldati ruppero ogni indugio e il Vicesignore Feo fece un passo indietro, lasciando che le dita della sua donna si trovassero a stringere il nulla.

“Vado a darmi una sistemata.” si congedò l'uomo, chinando il capo, ma continuando a puntare gli occhi castani su Caterina: “Quando sarà il momento, darò volentieri il cambio a mio fratello.”

La Contessa lo lasciò andare e poi si concentrò di nuovo sul ferito, ascoltando con attenzione i consigli del cerusico, che spiegò a lei e ai servi accorsi come fare quando il ferito si sarebbe risvegliato.

 

Mossa da una forza che avrebbe tanto voluto poter ignorare, a sera fatta, Caterina lasciò le sue stanze e si diresse al Paradiso.

Bussò un paio di volte, senza ottenere risposta. Alla fine si decise ad annunciarsi, credendo che forse Giacomo non voleva rispondere a eventuali servi o domestici.

Aveva ragione: infatti, non appena parlò, la porta del Paradiso si spalancò. La Contessa non entrò subito, restando sull'uscio, combattuta.

Giacomo indossava abiti da notte e i suoi occhi erano assonnati. Probabilmente stava già dormendo, stremato da quella lunga giornata.

Caterina guardò il marito, in silenzio, e rivide in lui quello che aveva visto anche quel giorno. Il soldato e l'uomo che stavano nascosti sotto a quell'aspetto che a tratti ricordava ancora quello di un ragazzo.

Prima che uno dei due si decidesse a parlare, attratti l'uno all'altra da qualcosa di indefinibile e impossibile da dominare, Giacomo e Caterina si avvicinarono e si baciarono. Tutti i propositi della Contessa sembravano prossimi a venir meno e altrettanto valeva per quelli del Governatore Generale, che si era ripromesso di non cedere alla tentazione, ricambiando la moglie con la sua stessa moneta.

Con un movimento sinuoso, Giacomo trascinò Caterina dentro al Paradiso e le chiuse la porta alle spalle. Pareva già tutto deciso e la Contessa stava lasciando il marito libero di cominciare a spogliarla, senonché ciò che albergava nel profondo della sua anima cominciò a morderla e a tormentarla.

Con fermezza la donna si allontanò da Giacomo, che non ebbe la forza di ribellarsi a quell'improvviso rifiuto.

“Volevo solo dirti che oggi sei stato bravo.” sussurrò Caterina, risistemandosi la veste e avviandosi alla porta: “Ma sappi che non ti ho ancora perdonato.” e con quelle parole lasciò il Paradiso.

Giacomo guardò a lungo la porta e poi si gettò sul letto, chiedendosi quando mai i suoi tormenti avrebbero avuto fine.

 
   
 
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