cap 2 trigger
Capitolo 2: Rzhavyy
«32...
557...»
È
martedì.
Almeno, pensa che sia martedì… potrebbe essere
lunedì.
Non ne è per niente sicuro. Il concetto di tempo
è abbastanza insignificante
dove si trova; non vede nient'altro a parte luce artificiale e finestre
sudice,
quindi distinguere il giorno dalla notte è difficile. A
volte le ore si muovono
appiccicose come la melassa, altre sembrano passare alla
velocità di un
fulmine. I giorni si mischiano sbiaditi, onestamente non ha idea da
quanto si
trovi lì. Settimane? Mesi? Il suo cervello frastornato cerca
di ricostruire una
vaga linea temporale e decide che si tratta di settimane. Pensa di
essere rimasto
lì per alcune settimane, ma ancora non è
certo… è troppo stanco perché gli
importi davvero…
«Sergente
James Barnes…»
La
voce che echeggia
nella stanza, sopra di lui, non ha niente a che vedere con la sua.
È
vuota
e sottile, fragile come assi di legno marcio. Pensa che in parte sia
dovuto al
freddo ma sa che la vera causa sono le urla. Urla che gli fanno
bruciare la
gola e scoppiare i polmoni lasciandolo senza respiro, sfiancato. Forse
sarebbe
peggio se dopo un po' non svenisse per il dolore e la stanchezza, ma
prima di svenire
ci sono sempre le urla.
Non
sa che
cosa gli stiano facendo o cosa stiano
cercando di ottenere. Ogni tanto riesce a carpire un paio di parole qua
e là,
conversazioni in tedesco che si mischiano a termini in un inglese dal
forte
accento teutonico. Esperimento, collaudo,
siero… le parole non hanno senso e non riesce a
dare loro un senso neanche
nella propria testa. Stanno conducendo dei test per i loro soldati e
chi
potrebbe essere di miglior uso come cavie se non i prigionieri di
guerra?
A
lui tocca diverse volte a settimana, esperimenti che
coinvolgono bisturi ed elettricità. Gli incidono la pelle
per
vedere quanto a
lungo sanguina, gli fratturano le dita per sapere quanto impiegano a
guarire. Lo
infilzano alle costole con un pungolo da bestiame e lo osservano
contorcersi sul pavimento, senza mostrare alcun interesse. Non sa se
siano soddisfatti o
scontenti dei risultati; prendono appunti, parlano tra loro e
ricominciano da
capo col procedimento alcuni giorni dopo.
Gli
fanno
iniezioni quasi tutti i giorni. Aghi lunghi,
affilati, iniettano un liquido viscoso che brucia lungo tutto il
braccio. Le
sue vene sembrano riempirsi di catrame fuso che si indurisce e
stratifica man
mano che si diffonde. Le braccia sono segnate ovunque le siringhe hanno
bucato
la pelle e le cicatrici sembrano arrivare fino all'osso. Il suo corpo
è
dolorante, brucia come mai gli era successo o come mai pensava potesse
succedere. Si sente scottare per la febbre e gelare di freddo allo
stesso
tempo, trema per il sudore che gli si aggrappa addosso e gli inumidisce
i
capelli.
A
volte si
domanda se fosse così che Steve si sentiva quando
rimaneva costretto a letto da qualche residuo di influenza, in inverno.
Scottava
per giorni, tremando come se stesse per congelare a morte, e lui poteva
solo
restare impotente a guardarlo. Cerca di non pensarci troppo, comunque,
perché il pensiero di Steve fa male; fa male pensare a
chiunque, a casa. Gli
lascia una dolorosa sensazione di peso nel petto, un buco nero senza
fondo.
Pensa a Steve e gli viene voglia di piangere.
L'hanno
portato di nuovo lì quel mattino, due guardie
a sorreggerlo mentre un uomo sparuto e con gli occhiali era concentrato
sulle carte
sparpagliate sopra la scrivania. Ad un suo cenno si è
ritrovato sbattuto sul
tavolo senza troppi complimenti, con delle robuste cinghie di cuoio
strette
intorno al petto e alle gambe per impedirgli di muoversi.
Non
ha idea di quali esperimenti abbiano in programma per lui oggi, in
genere non è mai niente di buono. Cerca di farsi forza e si concentra sulla respirazione.
Il
dottore - se si può chiamarlo così - l'ha
lasciato legato al tavolo ed è andato a cercare degli
strumenti. È successo più
di mezz'ora prima e non è ancora tornato. Non che si stia
lamentando: qualsiasi
attimo di tempo lontano da dottori sadici e dai loro esperimenti
significa più tempo
in cui non viene torturato, quindi cerca di assaporare la dolcezza del
momento
finché dura.
«32557…»
Qualcosa
gli gocciola in faccia,
scivola e gli
rotola giù per la guancia. Sussulta sorpreso e si concentra,
sbattendo le palpebre
per mettere a fuoco la tubatura sopra la sua testa. Sembra essere fuori
posto e
si chiede come mai non se ne fosse accorto prima. Non
te ne sei accorto finché non ti ha sgocciolato addosso,
genio, gli
fa notare il proprio cervello. Sta' zitto,
ordina in risposta, e i pensieri sembrano fermarsi.
Ah! Ben fatto!
Torna
a
concentrarsi sulla tubatura, alta sopra di lui
e gocciolante… qualcosa. Molto probabilmente acqua, non
può saperlo con
certezza. Di sicuro la pelle non si sta squagliando dove l'ha colpito
la prima
goccia, quindi arriva alla deduzione che non si tratti di acido. Un
urrà per le
piccole gioie.
Un'altra
goccia lo colpisce nello stesso posto e cade da un'altezza
sufficiente a causargli la sensazione di una piccola
puntura quando la stilla viene a contatto con la sua pelle. Solleva lo
sguardo
verso l'origine della perdita.
Stupido tubo arrugginito.
Se non fosse legato al tavolo è abbastanza sicuro che
potrebbe allungarsi e toccarlo, però il sopraccitato 'essere
legato al tavolo'
è un problema e lo è pure il fatto che non
riuscirebbe a reggersi in piedi neanche volendo.
Le
ultime volte in cui sono venuti per trascinarlo
fuori dalla sua cella hanno fatto esattamente quello: l'hanno
trascinato. Le
iniezioni lo lasciano sempre indebolito e malfermo; se già
è faticoso riuscire
a mettersi in piedi da solo, non parliamo di quanto lo sia riuscire a
fare più
di qualche passo. Alcuni degli altri prigionieri nella cella cercano di
aiutare come possono, allontanando le guardie e mettendosi in mezzo
quando
è troppo
debole per difendersi da solo. Uno di loro, un omone grande e grosso di
nome Dugan,
ama sputare un fiume di insulti oltremodo coloriti per
distogliere l'attenzione da lui. La sua lista di improperi
creativi sembra infinita. Dugan gli
piace.
«Sergente…»
Un'altra
goccia gli colpisce la
faccia e lui corruga la fronte. L'acqua ha l'odore della tubatura -
ruggine,
rugginosa, arrugginita. L'intera stanza odora di ruggine adesso,
è tutto quello
a cui riesce a pensare. Ferro, metallo, rame. Odora di sangue. Ruggine
e
sangue, sangue e ruggine. Gli torna in mente l'Uomo di Latta, bloccato
con
l'ascia in mano dopo che le sue giunture si erano arrugginite. Il suo
sangue
ormai si è trasformato in ruggine.
«James
Barnes,» ricomincia a dire tra sé,
confuso e disorientato nel tentativo di concentrarsi su qualcosa, qualsiasi cosa. Durante il corso di
addestramento gli istruttori avevano insegnato come resistere alla
tortura
durante gli interrogatori. Ripetere nome, grado, numero, ancora e
ancora e ancora
per evitare di cedere. Uno dei soldati nella sua unità ci
scherzava su dicendo che
non gli sarebbe mai servito, perché non l'avrebbero
catturato: avrebbe fatto
fuori ogni Nazista che gli fosse capitato a tiro. Il suo nome era
Daniel Burke
e un proiettile l'aveva colpito in fronte il giorno in cui erano
stati catturati. Alla fine non gli era servito.
Né
era servito a tanti altri come lui. Uccisi
da proiettili o schegge di proiettili, si erano guadagnati soltanto
uniformi
intrise di sangue e una morte violenta in territorio straniero. Pensa a
Daniel
Burke e alla collanina con San Michele che la madre gli aveva dato,
ancora
attaccata insieme alle piastrine. Ad Arthur Dowling e alla moglie
giovane e
carina, rimasta vedova dopo che una granata era rotolata in trincea.
Pensa
a quanto assurde siano state quelle morti, a come siano arrivate
rapide, brutali
e insensate.
Pensa
ai
soldati dallo sguardo impassibile che si
presenteranno davanti alla porta di casa dei caduti, con in mano una
bandiera ripiegata
e una lettera di condoglianze. Pensa a quanto le
parole "siamo spiacenti"
siano così vuote, parole che non possono neanche iniziare ad
alleviare la sofferenza, la rabbia e la desolazione causate dalla morte
di una persona cara. «Le nostre più sentite condoglianze per
la
perdita di vostro figlio… si è battuto con
coraggio… ha difeso il Paese… era un
eroe…»
Cazzate.
Quelle parole non sono nulla se non degli scarabocchi per
indorare la pillola e ammorbidire la brutalità della guerra.
Vostro figlio è
morto col terrore negli occhi, ucciso in una foresta coperta di neve in
Germania,
scomparso o presumibilmente ucciso in azione.
Pensa
a come la sua stessa famiglia riceverà una
visita del genere per informarli che lui è stato fatto
prigioniero, scomparso
dietro alle linee nemiche, dato per morto. C'è una reale
possibilità che tutto
quello che gli stanno iniettando finisca per ucciderlo, allora la
bandiera ripiegata finirà accanto ad una sua foto sul
caminetto. Pensa a come i suoi
familiari passeranno
il resto delle loro vite chiedendosi se potrebbe essere ancora vivo, se
per
qualche miracolo sia riuscito a sopravvivere a questa guerra orribile e
sanguinosa.
Quel
che è peggio, pensa ancora a Steve. A come
reagirà quando gli arriverà la notizia, quando
verrà a sapere che il suo migliore
amico è morto. Pensa a Steve che andrà a
infilarsi in
risse sempre più violente
perché non avrà altro da perdere, non
avrà nessuno
a tirarlo fuori da uno
squallido vicolo, nessuno a impedirgli di farsi ammazzare.
Verrà
lasciato
solo, con niente di più che un desiderio di morte, ansioso
di
sfogare il proprio dolore nella maniera più distruttiva
possibile.
«32557…»
L'acqua
salata che gli scivola
giù dalla
guancia stavolta non ha niente a che fare con la tubatura arrugginita
sopra di
lui.
Deglutisce combattendo la paura, la nausea e la
disperazione che gli attanagliano le viscere. Finirà per
morire lì sotto, lo sa,
e quello che è peggio è che Steve o la sua
famiglia non avranno un corpo da
sotterrare. Ormai ha imparato qualcosa sui Nazisti e sa che si
libereranno del suo
cadavere in fretta e in maniera raffazzonata, in una fossa comune o in
un rogo allestito
alla
bell'e meglio. Non resterà più
nulla di lui, solo un nome e delle fotografie a
provare che sia perfino mai esistito.
Si
sente un
forte schianto da qualche parte fuori
dall'edificio ma non ha neanche la voglia di sprecare energie per
reagire. Le guardie
sono sempre impegnate a provare nuove armi ed equipaggiamenti,
sperimentando
cosa possa infliggere maggior danno con minor sforzo. La loro
tecnologia è futuristica
e complessa, quasi aliena. Se mai dovessero riuscire a renderla
perfetta, se
solo riuscissero ad usare tutta quella tecnologia in loro favore, la
guerra
diventerebbe ben più complicata di quanto era stato
immaginato in precedenza.
«Sergente…
James Barnes…»
Un'altra
goccia di
acqua rugginosa gli atterra in faccia. Lo sgocciolio del tubo sta
iniziando ad
essere monotono. Ogni goccia traccia un rivolo freddo lungo un lato del
suo
viso e arriva fino ai capelli. Gli sta facendo venire mal di testa.
Si
sente un
altro schianto, un po' più rumoroso e più
vicino, stavolta, e dentro di sé rabbrividisce.
Può solo significare che il
dottore è tornato con i propri arnesi ed un nuovo ciclo di
esperimenti sta per
iniziare. Si fa coraggio e si prepara, mentalmente e fisicamente.
Quello
che
succede poco dopo è abbastanza
inaspettato: al posto del dottore c'è un uomo alto e biondo
che torreggia su di
lui, chiamandolo per nome e strappando via le cinghie a mani nude.
«Bucky,»
dice il biondo, senza fiato,
chinandosi su di lui. «Sono
io.
Sono Steve.»
Per
un
attimo non può fare altro che fissarlo. Conosce
Steve, lo conosce fin da quando aveva sei anni, e quello che sta
guardando decisamente non è
Steve. Il
suo Steve è piccolo e sparuto, tutto ossa e cervello. L'uomo
che gli sta di
fronte è troppo robusto per essere Steve.
Continua
a
fissarlo per almeno altri dieci secondi,
per cercare di determinare se quello sia davvero il
suo Steve e non uno scherzo della luce o peggio, una crudele
allucinazione causata da qualsiasi cosa gli abbiano iniettato.
«Steve?»
La domanda esce un po’ confusa e
diffidente perché anche se quello fosse il
suo Steve, come avrebbe fatto ad arrivare fin lì?
Dovrebbe essere a casa, a
Brooklyn, al sicuro. Dio, dovrebbe essere al
sicuro.
«Steve,»
dice ancora, perché quel sorriso
idiota è inconfondibile e in qualche modo il suo stupido,
incosciente,
coraggioso Steve adesso è nel cuore della Germania Nazista e
non è sicuro di
essere contento o incazzato a morte nel vederlo.
Il
biondo
annuisce con energia e lo afferra per le
spalle, sollevandolo fino a metterlo seduto. Gli mette le mani ovunque,
sulle
braccia, sulla schiena. Una mano di Steve (troppo
grande, non più scheletrica…) arriva a
posarsi sulla sua nuca per un
attimo.
«Credevo
fossi morto,» dice Steve (il nuovo
Steve, l'enorme Steve), gli occhi azzurri affranti mentre continua ad
osservare
il suo aspetto macilento.
Non
riesce
a pensare a niente di intelligente da dire,
così rimane a guardarlo per un lungo istante. «Credevo
fossi
più piccolo.»
Si
sente ancora un'esplosione e Steve distoglie lo
sguardo, senza lasciare la presa. «Andiamo,»
aggiunge
mentre si fa passare un braccio intorno alle spalle e lo sostiene
fino a
raggiungere la porta.
«Che
ti è successo?» domanda lui come ubriaco,
oscillando per l'improvviso cambio di gravità. Ha bisogno di
sapere, perché nonostante quello sia Steve non è
di certo il suo Steve, lo Steve
che ricorda. Steve lo tiene stretto a sé e
continua a camminare.
«Mi
sono arruolato,» dice semplicemente,
con un altro mezzo sorriso idiota, ed è una risposta
talmente da Steve da suscitargli
come reazione solo un'alzata di spalle. Si aggrappa di nuovo alla sua
giacca e lascia che sia Steve a
portarlo fuori da quella stanza che odora di ruggine.
Capitolo originale dell'autrice
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