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Autore: laylabinx    29/11/2016    2 recensioni
Servono solo dieci piccole parole per mandarlo in pezzi.
Studio del personaggio di Bucky Barnes, incentrato sulle parole del codice di attivazione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Steve Rogers
Note: Missing Moments, Movieverse, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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cap 2 trigger

Capitolo 2: Rzhavyy



«32... 557...»

È martedì.
Almeno, pensa che sia martedì… potrebbe essere lunedì. Non ne è per niente sicuro. Il concetto di tempo è abbastanza insignificante dove si trova; non vede nient'altro a parte luce artificiale e finestre sudice, quindi distinguere il giorno dalla notte è difficile. A volte le ore si muovono appiccicose come la melassa, altre sembrano passare alla velocità di un fulmine. I giorni si mischiano sbiaditi, onestamente non ha idea da quanto si trovi lì. Settimane? Mesi? Il suo cervello frastornato cerca di ricostruire una vaga linea temporale e decide che si tratta di settimane. Pensa di essere rimasto lì per alcune settimane, ma ancora non è certo… è troppo stanco perché gli importi davvero…

«Sergente James Barnes…» 

La voce che echeggia nella stanza, sopra di lui, non ha niente a che vedere con la sua. È vuota e sottile, fragile come assi di legno marcio. Pensa che in parte sia dovuto al freddo ma sa che la vera causa sono le urla. Urla che gli fanno bruciare la gola e scoppiare i polmoni lasciandolo senza respiro, sfiancato. Forse sarebbe peggio se dopo un po' non svenisse per il dolore e la stanchezza, ma prima di svenire ci sono sempre le urla.

Non sa che cosa gli stiano facendo o cosa stiano cercando di ottenere. Ogni tanto riesce a carpire un paio di parole qua e là, conversazioni in tedesco che si mischiano a termini in un inglese dal forte accento teutonico. Esperimento, collaudo, siero… le parole non hanno senso e non riesce a dare loro un senso neanche nella propria testa. Stanno conducendo dei test per i loro soldati e chi potrebbe essere di miglior uso come cavie se non i prigionieri di guerra?

A lui tocca diverse volte a settimana, esperimenti che coinvolgono bisturi ed elettricità. Gli incidono la pelle per vedere quanto a lungo sanguina, gli fratturano le dita per sapere quanto impiegano a guarire. Lo infilzano alle costole con un pungolo da bestiame e lo osservano contorcersi sul pavimento, senza mostrare alcun interesse. Non sa se siano soddisfatti o scontenti dei risultati; prendono appunti, parlano tra loro e ricominciano da capo col procedimento alcuni giorni dopo.

Gli fanno iniezioni quasi tutti i giorni. Aghi lunghi, affilati, iniettano un liquido viscoso che brucia lungo tutto il braccio. Le sue vene sembrano riempirsi di catrame fuso che si indurisce e stratifica man mano che si diffonde. Le braccia sono segnate ovunque le siringhe hanno bucato la pelle e le cicatrici sembrano arrivare fino all'osso. Il suo corpo è dolorante, brucia come mai gli era successo o come mai pensava potesse succedere. Si sente scottare per la febbre e gelare di freddo allo stesso tempo, trema per il sudore che gli si aggrappa addosso e gli inumidisce i capelli.

A volte si domanda se fosse così che Steve si sentiva quando rimaneva costretto a letto da qualche residuo di influenza, in inverno. Scottava per giorni, tremando come se stesse per congelare a morte, e lui poteva solo restare impotente a guardarlo. Cerca di non pensarci troppo, comunque, perché il pensiero di Steve fa male; fa male pensare a chiunque, a casa. Gli lascia una dolorosa sensazione di peso nel petto, un buco nero senza fondo. Pensa a Steve e gli viene voglia di piangere.

L'hanno portato di nuovo lì quel mattino, due guardie a sorreggerlo mentre un uomo sparuto e con gli occhiali era concentrato sulle carte sparpagliate sopra la scrivania. Ad un suo cenno si è ritrovato sbattuto sul tavolo senza troppi complimenti, con delle robuste cinghie di cuoio strette intorno al petto e alle gambe per impedirgli di muoversi. Non ha idea di quali esperimenti abbiano in programma per lui oggi, in genere non è mai niente di buono. Cerca di farsi forza e si concentra sulla respirazione.

Il dottore - se si può chiamarlo così - l'ha lasciato legato al tavolo ed è andato a cercare degli strumenti. È successo più di mezz'ora prima e non è ancora tornato. Non che si stia lamentando: qualsiasi attimo di tempo lontano da dottori sadici e dai loro esperimenti significa più tempo in cui non viene torturato, quindi cerca di assaporare la dolcezza del momento finché dura.

«32557…»

Qualcosa gli gocciola in faccia, scivola e gli rotola giù per la guancia. Sussulta sorpreso e si concentra, sbattendo le palpebre per mettere a fuoco la tubatura sopra la sua testa. Sembra essere fuori posto e si chiede come mai non se ne fosse accorto prima. Non te ne sei accorto finché non ti ha sgocciolato addosso, genio, gli fa notare il proprio cervello. Sta' zitto, ordina in risposta, e i pensieri sembrano fermarsi.
Ah! Ben fatto!

Torna a concentrarsi sulla tubatura, alta sopra di lui e gocciolante… qualcosa. Molto probabilmente acqua, non può saperlo con certezza. Di sicuro la pelle non si sta squagliando dove l'ha colpito la prima goccia, quindi arriva alla deduzione che non si tratti di acido. Un urrà per le piccole gioie.

Un'altra goccia lo colpisce nello stesso posto e cade da un'altezza sufficiente a causargli la sensazione di una piccola puntura quando la stilla viene a contatto con la sua pelle. Solleva lo sguardo verso l'origine della perdita.
Stupido tubo arrugginito.
Se non fosse legato al tavolo è abbastanza sicuro che potrebbe allungarsi e toccarlo, però il sopraccitato
'essere legato al tavolo' è un problema e lo è pure il fatto che non riuscirebbe a reggersi in piedi neanche volendo.

Le ultime volte in cui sono venuti per trascinarlo fuori dalla sua cella hanno fatto esattamente quello: l'hanno trascinato. Le iniezioni lo lasciano sempre indebolito e malfermo; se già è faticoso riuscire a mettersi in piedi da solo, non parliamo di quanto lo sia riuscire a fare più di qualche passo. Alcuni degli altri prigionieri nella cella cercano di aiutare come possono, allontanando le guardie e mettendosi in mezzo quando è troppo debole per difendersi da solo. Uno di loro, un omone grande e grosso di nome Dugan, ama sputare un fiume di insulti oltremodo coloriti per distogliere l'attenzione da lui. La sua lista di improperi creativi sembra infinita. Dugan gli piace.

«Sergente…» 

Un'altra goccia gli colpisce la faccia e lui corruga la fronte. L'acqua ha l'odore della tubatura - ruggine, rugginosa, arrugginita. L'intera stanza odora di ruggine adesso, è tutto quello a cui riesce a pensare. Ferro, metallo, rame. Odora di sangue. Ruggine e sangue, sangue e ruggine. Gli torna in mente l'Uomo di Latta, bloccato con l'ascia in mano dopo che le sue giunture si erano arrugginite. Il suo sangue ormai si è trasformato in ruggine.

«James Barnes,» ricomincia a dire tra sé, confuso e disorientato nel tentativo di concentrarsi su qualcosa, qualsiasi cosa. Durante il corso di addestramento gli istruttori avevano insegnato come resistere alla tortura durante gli interrogatori. Ripetere nome, grado, numero, ancora e ancora e ancora per evitare di cedere. Uno dei soldati nella sua unità ci scherzava su dicendo che non gli sarebbe mai servito, perché non l'avrebbero catturato: avrebbe fatto fuori ogni Nazista che gli fosse capitato a tiro. Il suo nome era Daniel Burke e un proiettile l'aveva colpito in fronte il giorno in cui erano stati catturati. Alla fine non gli era servito.

Né era servito a tanti altri come lui. Uccisi da proiettili o schegge di proiettili, si erano guadagnati soltanto uniformi intrise di sangue e una morte violenta in territorio straniero. Pensa a Daniel Burke e alla collanina con San Michele che la madre gli aveva dato, ancora attaccata insieme alle piastrine. Ad Arthur Dowling e alla moglie giovane e carina, rimasta vedova dopo che una granata era rotolata in trincea. Pensa a quanto assurde siano state quelle morti, a come siano arrivate rapide, brutali e insensate.

Pensa ai soldati dallo sguardo impassibile che si presenteranno davanti alla porta di casa dei caduti, con in mano una bandiera ripiegata e una lettera di condoglianze. Pensa a quanto le parole "siamo spiacenti" siano così vuote, parole che non possono neanche iniziare ad alleviare la sofferenza, la rabbia e la desolazione causate dalla morte di una persona cara. «Le nostre più sentite condoglianze per la perdita di vostro figlio… si è battuto con coraggio… ha difeso il Paese… era un eroe…»
Cazzate.
Quelle parole non sono nulla se non degli scarabocchi per indorare la pillola e ammorbidire la brutalità della guerra. Vostro figlio è morto col terrore negli occhi, ucciso in una foresta coperta di neve in Germania, scomparso o presumibilmente ucciso in azione.

Pensa a come la sua stessa famiglia riceverà una visita del genere per informarli che lui è stato fatto prigioniero, scomparso dietro alle linee nemiche, dato per morto. C'è una reale possibilità che tutto quello che gli stanno iniettando finisca per ucciderlo, allora la bandiera ripiegata finirà accanto ad una sua foto sul caminetto. Pensa a come i suoi familiari passeranno il resto delle loro vite chiedendosi se potrebbe essere ancora vivo, se per qualche miracolo sia riuscito a sopravvivere a questa guerra orribile e sanguinosa.

Quel che è peggio, pensa ancora a Steve. A come reagirà quando gli arriverà la notizia, quando verrà a sapere che il suo migliore amico è morto. Pensa a Steve che andrà a infilarsi in risse sempre più violente perché non avrà altro da perdere, non avrà nessuno a tirarlo fuori da uno squallido vicolo, nessuno a impedirgli di farsi ammazzare. Verrà lasciato solo, con niente di più che un desiderio di morte, ansioso di sfogare il proprio dolore nella maniera più distruttiva possibile.

«32557…»

L'acqua salata che gli scivola giù dalla guancia stavolta non ha niente a che fare con la tubatura arrugginita sopra di lui.
Deglutisce combattendo la paura, la nausea e la disperazione che gli attanagliano le viscere. Finirà per morire lì sotto, lo sa, e quello che è peggio è che Steve o la sua famiglia non avranno un corpo da sotterrare. Ormai ha imparato qualcosa sui Nazisti e sa che si libereranno del suo cadavere in fretta e in maniera raffazzonata, in una fossa comune o in un rogo allestito
alla bell'e meglio. Non resterà più nulla di lui, solo un nome e delle fotografie a provare che sia perfino mai esistito.

Si sente un forte schianto da qualche parte fuori dall'edificio ma non ha neanche la voglia di sprecare energie per reagire. Le guardie sono sempre impegnate a provare nuove armi ed equipaggiamenti, sperimentando cosa possa infliggere maggior danno con minor sforzo. La loro tecnologia è futuristica e complessa, quasi aliena. Se mai dovessero riuscire a renderla perfetta, se solo riuscissero ad usare tutta quella tecnologia in loro favore, la guerra diventerebbe ben più complicata di quanto era stato immaginato in precedenza.

«Sergente… James Barnes…» 

Un'altra goccia di acqua rugginosa gli atterra in faccia. Lo sgocciolio del tubo sta iniziando ad essere monotono. Ogni goccia traccia un rivolo freddo lungo un lato del suo viso e arriva fino ai capelli. Gli sta facendo venire mal di testa.

Si sente un altro schianto, un po' più rumoroso e più vicino, stavolta, e dentro di sé rabbrividisce. Può solo significare che il dottore è tornato con i propri arnesi ed un nuovo ciclo di esperimenti sta per iniziare. Si fa coraggio e si prepara, mentalmente e fisicamente.

Quello che succede poco dopo è abbastanza inaspettato: al posto del dottore c'è un uomo alto e biondo che torreggia su di lui, chiamandolo per nome e strappando via le cinghie a mani nude.

«Bucky,» dice il biondo, senza fiato, chinandosi su di lui. «Sono io. Sono Steve.»

Per un attimo non può fare altro che fissarlo. Conosce Steve, lo conosce fin da quando aveva sei anni, e quello che sta guardando decisamente non è Steve. Il suo Steve è piccolo e sparuto, tutto ossa e cervello. L'uomo che gli sta di fronte è troppo robusto per essere Steve.

Continua a fissarlo per almeno altri dieci secondi, per cercare di determinare se quello sia davvero il suo Steve e non uno scherzo della luce o peggio, una crudele allucinazione causata da qualsiasi cosa gli abbiano iniettato.

«Steve?» La domanda esce un po’ confusa e diffidente perché anche se quello fosse il suo Steve, come avrebbe fatto ad arrivare fin lì? Dovrebbe essere a casa, a Brooklyn, al sicuro. Dio, dovrebbe essere al sicuro.

«Steve,» dice ancora, perché quel sorriso idiota è inconfondibile e in qualche modo il suo stupido, incosciente, coraggioso Steve adesso è nel cuore della Germania Nazista e non è sicuro di essere contento o incazzato a morte nel vederlo.

Il biondo annuisce con energia e lo afferra per le spalle, sollevandolo fino a metterlo seduto. Gli mette le mani ovunque, sulle braccia, sulla schiena. Una mano di Steve (troppo grande, non più scheletrica…) arriva a posarsi sulla sua nuca per un attimo.

«Credevo fossi morto,» dice Steve (il nuovo Steve, l'enorme Steve), gli occhi azzurri affranti mentre continua ad osservare il suo aspetto macilento.

Non riesce a pensare a niente di intelligente da dire, così rimane a guardarlo per un lungo istante. «Credevo fossi più piccolo.»

Si sente ancora un'esplosione e Steve distoglie lo sguardo, senza lasciare la presa. «Andiamo,» aggiunge mentre si fa passare un braccio intorno alle spalle e lo sostiene fino a raggiungere la porta.

«Che ti è successo?» domanda lui come ubriaco, oscillando per l'improvviso cambio di gravità. Ha bisogno di sapere, perché nonostante quello sia Steve non è di certo il suo Steve, lo Steve che ricorda. Steve lo tiene stretto a sé e continua a camminare.

«Mi sono arruolato,» dice semplicemente, con un altro mezzo sorriso idiota, ed è una risposta talmente da Steve da suscitargli come reazione solo un'alzata di spalle. Si aggrappa di nuovo alla sua giacca e lascia che sia Steve a portarlo fuori da quella stanza che odora di ruggine.

 

 

 

 

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