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Autore: Adeia Di Elferas    29/11/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quel giorno, 8 novembre, con tutte e quattro le porte della città chiuse per impedire l'ingresso ai francesi, Melozzo il pittore lasciò la vita.

Caterina, che per gran parte della mattina aveva vegliato il soldato ferito che si stava riprendendo meglio del previsto, andò al capezzale dell'artista, non appena venne informata delle sue condizioni di salute.

Melozzo aveva fatto per lei opere eccellenti, dimostrandosi sempre avvezzo ad accettare compensi modesti e incarichi di ogni genere. Aveva addirittura accettato di decorare la cappella privata della famiglia Feo quando tutti gli altri artisti della zona, adducendo mille scuse, si erano rifiutati.

Così la Contessa diede il suo ultimo saluto a un uomo che nei suoi confronti era sempre stato gentile, ma non ebbe molto tempo per ragionare sulla sua dipartita, giacché i fatti della guerra la distolsero quasi subito dal suo cordoglio.

Mentre Giacomo era intento a pattugliare la cinta muraria, a Porta Ravaldino si erano presentati alcuni portavoce dei francesi, tra cui spiccava il comandante dell'artiglieria, Don Giuliano di Ligny, chiedendo di poter incontrare il Governatore, o la Contessa o chi per loro.

Tommaso li aveva invitati a entrare e li aveva subito fatti disarmare dalle guardie. Solo dopo essere stato sicuro di aver tolto loro ogni possibile difesa, li condusse alla rocca.

 

“Ho dovuto dare ordine ai cittadini di formare una guardia armata per ogni quartiere per tenere lontani i suoi soldati che non hanno fatto altro che rubare ai contadini e violare le donne che si sono trovati tra le mani e ora vorrebbero vettovaglie e altri beni di pronto consumo?” chiese la Contessa, con fare retorico.

Tommaso attese che la rabbia le sbollisse di corpo e ci volle qualche momento. Caterina era stata grata al Governatore per averla schermata, incontrando per primo Don Giuliano e i suoi, evitandole di dare in escandescenze davanti a loro.

Per quanto non le andasse giù l'idea di dover andare d'accordo con gli uomini di Carlo VIII, la Contessa sapeva bene che era suo preciso compito far sì che il passaggio dei francesi risultasse il meno drammatico possibile per la sua gente. Qualche inconveniente era di prammatica, ma doveva fare tutto il possibile per non esasperare gli animi.

“Tommaso – disse alla fine Caterina, dopo aver raffreddato la mente e lo spirito – pensate voi a un modo per aggirare questo ostacolo, ve ne prego. Siete molto più diplomatico di me. Ma che ai francesi sia chiaro che devono smetterla di allungare le mani su ciò che non è di loro proprietà.”

Il Governatore di Forlì deglutì, già pensando a che parole usare per non irritare troppo Don Giuliano, che non sembrava esattamente essere l'uomo più pacato del mondo. Tuttavia accettò l'incarico senza riserve e accettò i ringraziamenti preventivi della sua signora, che si congedò da lui dicendosi certa della sua riuscita.

 

“Ai napoletani avevate concesso tutte le vettovaglie che chiedevano – si ostinò Don Giuliano, guardando di sottinsù Tommaso – dunque noi pretendiamo il medesimo trattamento.”

Il Governatore raddrizzò la schiena e guardò a uno a uno i francesi che gli stavano davanti, terminando la carrellata proprio con il Ligny, che tra tutti era l'unico suo vero interlocutore: “I napoletani non hanno mai ricevuto da noi alcun rifornimento. Gli unici beni che hanno avuto da noi, sono stati ben pagati e accolti con gratitudine, cosa che non posso dire parlando dei viveri venduti ai vostri soldati dai nostri mercanti.”

Don Giuliano sporse in fuori il mento e finse di non sapere: “Che intendete?”

“Intendo che uomini d'onore non dovrebbero derubare i vivandieri, alzando su di loro le mani e facendoli tornare a mani vuote tanto di cibo quanto di denaro.” disse Tommaso, con fermezza, ma senza aggressività: “So bene che questa mancanza non dipende da voi, ma dalla mancanza di senso d'onore dei vostri soldati, tuttavia è nell'interesse della mia signora, la Contessa Sforza Riario, difendere anche il buon nome di voi francesi.”

Alla riunione aveva voluto partecipare anche Francesco Quartiere, rappresentante, anzi, quasi un ambasciatore, della Lega presso Forlì, mandato espressamente dal Moro a fiancheggiare Sfrondati nella difficile permanenza presso la corte di Caterina.

Don Giuliano passò nervosamente gli occhi cerchiati sui suoi compari, indugiando a lungo proprio su Quartiere e poi di nuovo passò al Governatore: “La vostra signora è molto gentile, a pensare tanto al nostro buon nome.”

Tommaso aveva capito di aver toccato il tasto giusto. Era ormai risaputo come le lettere della Contessa avessero una forte influenza sulle corti straniere. Per quanto il suo Stato fosse piccolo e apparentemente indifeso, Caterina sembrava in grado di far pendere l'ago della bilancia dove preferiva, quando si metteva d'impegno.

Il Governatore lesse nelle pupille stanche del Ligny tutte quelle legittime preoccupazioni. Se la Contessa avesse cominciato a diffamare apertamente i francesi, magari qualche alleato poco convinto avrebbe rotto i patti prima di vederseli arrivare in patria come selvaggi.

A pesare più di ogni altra cosa c'era la condotta dell'Aubigny, che non solo, da nemico, aveva preso a sacco Mordano in modo orrendo, ma che, da amico, non aveva fatto nulla per frenare i suoi quando avevano iniziato a prendere di mira le mura di Forlì.

“Quindi?” chiese Don Giuliano, che si sentiva in difficoltà a rispondere delle carenze di un altro.

“Quindi, se voi vi impegnerete a tenere a bada i vostri soldati e a reprimere sul nascere ogni sopruso nei confronti dei nostri cittadini, allora permetteremo il libero commercio.” spiegò Tommaso.

A quel punto Francesco Quartiere alzò una mano e chiese di poter parlare un momento da solo con Don Giuliano Ligny.

Il Governatore Feo temeva quello che il rappresentante della Lega avrebbe potuto riferire al francese, ma non trovò un motivo valido per impedirglielo apertamente, così lasci la stanza per qualche minuto.

“La Sforza – disse in fretta Quartiere, temendo il rientro prematuro di Tommaso – ha nascosto una quantità di grano sufficiente a sfamare gran parte dei nostri fino alla nostra partenza, solo che non vuole dirlo per paura che la obblighiate a cedervelo.”

Ligny gonfiò le guance e, alzando le spalle protette da una pesante cappa bordata di pelo, disse: “E anche se fosse? Non possiamo dare l'assalto ai suoi granai.”

Francesco Quartiere, mostrando i palmi, fece notare: “Queste terre, ormai, sono parte del Ducato di Milano. Se non sulla carta, lo sono nei fatti. La Tigre deve accettare, se voi l'ordinerete.”

“E rischiare che infanghi il mio nome? Che mia dia dello spergiuro? Che vada in giro a dire che Don Giuliano di Ligny permette ai suoi soldati di comportarsi come selvaggi in casa d'alleati?” chiese il francese, gonfiando l'ampio petto e intimorendo Quartiere, che si fece piccolo piccolo.

Tommaso rientrò appena in tempo per vedere quella scena e tanto gli bastò per sentirsi ottimista.

“Entro domani nessun nostro pezzo d'artiglieria sarà più puntato contro Forlì.” disse Don Giuliano, mostrandosi in tutta la sua statura al Governatore: “Qualsiasi nostro soldato che verrà trovato in atteggiamenti scorretti verrà punito e non arrecheremo più alcun disturbo, nel limite del possibile.”

Tommaso fece un mezzo inchino: “Sapevo che potevo contare sul vostro senso dell'onore.”

“Ma in cambio farete prezzi di favore ai nostri e ci accorderete a titolo gratuito derrate alimentari abbondanti una tantum almeno per noi generali.” concluse Don Giuliano.

Il Governatore Feo sentì di nuovo il sangue affluire alle estremità, conscio che il peggio era passato. Colpire Ligny sul vivo era stata la mossa giusta. Allungò una mano e strinse quella del francese, accettando immediatamente le sue richieste e augurandogli il meglio per la guerra che si stava combattendo.

 

Lo stesso giorno, a Firenze, l'aria si stava facendo incandescente, malgrado dal cielo cominciasse a scendere una pioggerella fitta e gelida.

Piero Medici stava gettando alla rinfusa tutto quello che poteva nel baule che aveva fatto portare in camera dai suoi servi. Aveva nascosto tra i vestiti molti dei suoi monili più preziosi e qualche sacchetto pieno d'oro. Non era certo che sarebbero riusciti a uscire dalla città senza essere perquisisti, ma tentare non costava nulla.

L'importante, poi, a quel punto, era salvare la pelle.

La Signoria non aveva tardato a dare il suo parere negativo nei confronti degli accordi presi in segreto dal Fatuo, che aveva, di fatto, ceduto senza alcuna resistenza la città ai francesi.

Per quanto Girolamo Savonarola fosse sempre stato un fervente sostenitore di Carlo VIII, era stato anche il più feroce accusatore del Fatuo quando aveva saputo della sua decisione di dichiarare Firenze città aperta.

Le sue ardenti prediche e le agitazioni tra i membri della Signoria avevano dato il via a una serie di rimostranze che presto sarebbero state impossibili da contenere.

Piero sapeva che doveva andarsene immediatamente. Se fosse riuscito a lasciare Firenze prima che fosse un nuovo giorno, probabilmente lo avrebbero condannato all'esilio, ma non avrebbero più potuto sbatterlo in cella e condannarlo a morte.

Alfonsina, con al collo la figlia Clarice, vagava da una stanza all'altra dando ordini spezzati ai domestici, cercando di condensare i beni di tutta una vita in un misero borsone di pelle.

“Vostra madre!” esclamò la sua dama di compagnia, in lacrime, richiamando la sua attenzione con ampi gesti delle braccia.

“Cosa? Cos'è successo?” chiese Alfonsina, gli occhi sgranati e i capelli che uscivano dalla stretta crocchia come fili di fumo.

“Una squadriglia l'ha trovata al portone e l'ha presa con sé!” pianse la domestica, afferrando Clarice, passatale dalla sua signora come fosse un pacco.

“Dove state andando?!” chiese Piero, vedendo la moglie che correva via, diretta verso l'ingresso.

Restò sconvolto nel vederla aprire la porta a forza, scansando di peso le guardie che la presidiavano.

Il Fatuo fece appena in tempo a scorgere la moglie che veniva presa da mani robuste, mentre qualcuno le strappava di dosso i pochi gioielli che portava e la sopravveste di seta e broccato.

Terrorizzato, con le mani che tremavano come foglie, Piero abbaiò ordini poco chiari ai servi, prese i figli per le maniche e li portò subito verso l'uscita secondaria del palazzo. Non poteva più aspettare. Avevano preso sua suocera, avevano preso sua moglie. Questione di momenti e avrebbero preso anche lui.

“Dov'è la carrozza?!” gridò Piero, arrivato nel cortile, quando vide che solo lo stallone era già pronto.

“Non abbiamo ancora...” provò a dire uno dei garzoni di stalla.

Il Fatuo non ragionò più, reso folle dalla paura di quello che gli avrebbero fatto se l'avessero preso quella sera.

Mollò la presa sui figli e diede un calcio al suo servo, sfogando in parte la sua frustrazione e la sua rabbia. Dopodiché strappò di mano al domestico che l'aveva seguito la borsa piena di preziosi che aveva fatto preparare non appena si era risolto alla partenza, se la mise a tracolla e montò in sella.

Senza voltarsi a guardare i figli o la propria dimora – tanto meno i servi – Piero diede un poderoso colpo coi tacchi ai fianchi della bestia e lo stallone, con un'iniziale impennata, partì pancia a terra.

Arrivato alla porta che lo avrebbe portato fuori da Firenze, Piero non accennò a ridurre la velocità presa dalla sua cavalcatura, anzi, lo spronò ulteriormente e così, travolgendo un paio di guardie che avevano cercato di fermarlo.

Colpito dalla pioggia fredda di quella sera, il Fatuo si allontanò dalla città che tanto lo aveva odiato, la mente completamente annebbiata, incapace di pensare a quello che sarebbe accaduto nei giorni a venire e a come recuperare se non la moglie, perlomeno i figli.

 

Non appena la notizia della fuga di Piero il Fatuo fu di dominio pubblico, la Signoria prese alcune decisioni urgenti che avrebbero dovuto ridare forma a Firenze.

Prima di tutto si decise che ad Alfonsina Orsini e ai figli del Medici non sarebbe stato fatto alcun male. Li misero in un convento, in attesa di trovare loro una dimora diversa. La legge e il buon senso vietavano loro di prendersela con una donna e gli eredi di Piero erano ancora solo bambini.

Di loro, o per lo meno, del maschio, ci si sarebbe occupati a tempo debito.

Mentre al Palazzo della Signoria si discuteva animatamente su come si sarebbe riorganizzato lo Stato, ora che il giogo del figlio del Magnifico era stato distrutto, la città ribolliva.

Sobillati da qualcuno che non si era fatto vedere, i fiorentini avevano preso forconi e armi e si erano riversati nelle strade.

I francesi erano ancora lontani, a quanto pareva e dunque era il momento di approfittare della parziale anarchia che vigeva a Firenze per prendersi le dovute rivincite sul tiranno fuggito.

Come una fiumana, gli uomini e le donne della città, tra cui molti Piagnoni, presero d'assalto Palazzo Medici in Via Larga.

Trafugarono di tutto, dai gioielli all'oro, dai vestiti al cibo. I servi erano scappati tutti, chi imitando il loro padrone e lasciando Firenze, chi unendosi senza ritegno ai rivoltosi.

Il saccheggio ebbe fine in modo molto suggestivo, quando, su ordine di alcuni caporioni che erano stati istruiti dai misteriosi mandanti di quella rappresaglia, il popolo prese di peso la statua di Giuditta, opera di Donatello, staccandola dal suo basamento nel giardino di Palazzo Medici.

Portandola in trionfo come una Madonna, i fiorentini, con la statua di Giuditta, arrivarono fino alla Piazza della Signoria, dove la depositarono nel centro della fontana.

“La tirannia è stata scacciata!” gridò uno di quelli che incitava il popolo: “Questo è il simbolo della sua fine! Che si chiamino i Popolani!”

“I Popolani!” fece eco la folla: “Popolani! Popolani!”

Come se rispondessero al grido del volgo, i membri della Signoria proprio in quel momento stavano giungendo a una conclusione unanime.

“E sia!” disse il Gonfaloniere: “Che vengano richiamati in città Lorenzo e Giovanni Medici, detti i Popolani. Da questo momento il loro esilio è revocato e potranno rientrare in città e far parte della vita politica di Firenze!”

Queste parole vennero accolte da uno scrosciare di applausi e fuori, sotto il sole che aveva preso il posto della pioggia caduta la sera prima, i fiorentini cominciarono a inneggiare a un nuovo futuro, a una rinascita, a una nuova Firenze. Ai fratelli Lorenzo e Giovanni dei Medici, i Popolani.

 

Don Giuliano aveva rispettato degnamente i termini dell'accordo stretto con Tommaso Feo e così i rapporti tra la Contessa e i francesi era tornato abbastanza disteso.

Con ciò, pur felice di aver risolto il grosso della questione, Caterina aveva notato come di quando in quando qualche scalmanato tentasse ancora di entrare in città di nascosto, specialmente di notte, e così non aveva abbassato la guardia.

Tommaso coordinava in modo ottimo la difesa delle porte, mentre Giacomo si era messo davvero d'impegno, presidiando giorno e notte il resto della cinta muraria.

In realtà Caterina aveva sentito che alcuni soldati non era contenti di essere comandati a bacchetta da lui, che, sempre secondo le chiacchiere che le erano arrivate, era fin troppo intransigente con loro e che spesso pretendeva turni troppo lunghi, senza promettere aumenti di paga.

Comunque stessero le cose, per la Contessa era un vero piacere vederlo seriamente impegnato in qualche cosa e così cercava di non mettere troppo in discussione il suo operato.

Quando giunse a Forlì la notizia della caduta di Piero Medici, il Consiglio della Contessa si era appena riunito.

Luffo Numai lesse la missiva con una certa apprensione e attese una reazione da parte della sua signora, che, invece, non tradì alcuna particolare emozione.

“Doveva accadere, prima o poi.” disse solo: “Piero ha osato troppo. Cedere Firenze ai francesi è stato un atto imperdonabile.”

Tommaso si trovò d'accordo e così la maggior parte dei presenti. Solo Ottaviano avrebbe voluto dire qualcosa di contrario, ma preferì tacere.

Da quando i francesi avevano invaso le sue terre, il Conte non era ancora riuscito a esprimere la propria opinione su nulla. Sua madre sembrava del tutto indifferente ai suoi pensieri, mentre, al contrario, pendeva ogni giorno di più dalle labbra di Tommaso e Giacomo Feo.

“Adesso la Signoria permetterà ugualmente a Carlo VIII di occupare Firenze?” chiese Filippo Delle Selle, accigliandosi.

Caterina non aveva dubbi: “Certo. La Signoria, in fondo, non aspettava altro. Carlo li aiuterà a creare un nuovo governo e li renderà sue pedine. Quello che Savonarola vuole da anni.”

In quel momento arrivò in sala di Consiglio anche Giacomo Feo, giunto direttamente dal suo solito giro dei camminamenti.

La Contessa lo guardò a lungo e per qualche istante i suoi Consiglieri parlottarono tra loro circa le novità occorse a Firenze, lasciandole il modo di perdersi un momento nei suoi pensieri.

Per Ottaviano vederla mentre fissava trasognata lo stalliere pur in presenza del suo Consiglio fu troppo.

Senza dire una parola, trascinò la sedia e lasciò il tavolo, avviandosi in fretta alla porta. Passò accanto al Vicesignore della sue terre e si trattenne a stento dal colpirlo con una spallata.

Caterina si accorse della tensione del figlio, ma non aveva intenzione di occuparsene. Era da egoisti, ma Ottaviano era per lei sempre di più un'immagine sbiadita del suo primo marito Girolamo e – ed era questo a pesarle maggiormente – in lui scorgeva anche la rabbia e lo stesso oscuro demone che albergavano anche in lei.

“Sappiamo se i francesi appoggeranno davvero Guido Guerra contro i napoletani a Cesena?” si informò a quel punto uno degli Orcioli: “Perché in tal caso, la sosta dei francesi potrebbe protrarsi...”

“Ho qui gli ultimi rapporti delle nostre spie.” disse prontamente Numai.

E così, mentre Giacomo andava a sedersi accanto a Caterina, spandendo attorno a sé l'odore freddo e pungente della nebbia, la Contessa dimenticò per un attimo suo figlio Ottaviano e tornò a pensare ai suoi scomodi alleati.

 
   
 
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