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Autore: Adeia Di Elferas    03/12/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cristoforo da Casalmaggiore, segretario di Giovanni Pico della Mirandola, aveva le mani malferme, quella sera.

Firenze sembrava impazzita e il suo signore, Piero dei Medici, era fuggito senza lasciare sue tracce.

Ora che si trovava fuori dai confini della città e che era stato dichiarato in esilio, i sogni di rinascita legati alla sua figura stavano svanendo anche nella mente di Cristoforo. Tuttavia lui e suo fratello Martino avevano ricevuto dal Medici il compenso in anticipo e non era nei loro piani tradire la sua fiducia, anche se ormai era tutto perduto.

Avevano atteso troppo, forse. Erano stati cauti, per non attirare l'attenzione. Avevano lasciato che i giorni si inseguissero, dopo la morte di Angelo Poliziano, sperando che la gente dimenticasse e che nessuno facesse strani collegamenti.

Era stato un grosso errore. Savonarola continuava a tuonare dal suo pulpito e Pico della Mirandola non faceva altro che dare risonanza alle sue parole. Proprio lui, che era il più grande dei peccatori...!

Cristoforo lo conosceva bene. Quante volte aveva visto Girolamo Benivieni aggirarsi per le stanze del palazzo con abiti discinti e fare languido? Quante volte li aveva sentiti parlare a voce bassa di cose che nulla avevano a che fare con la poesia o la filosofia? Quante volte aveva chiuso non uno, ma due occhi, davanti all'evidenza?

Ebbene, ora Pico della Mirandola avrebbe pagato per tutto quanto. Sia per aver ostacolato Piero Medici, pur essendosi sempre professato amico fraterno del padre Lorenzo, sia per aver trattenuto una relazione contro natura, nascondendo la realtà con i fumi dell'inganno.

“Grazie, Cristoforo.” disse piano il trentunenne Pico, sistemandosi i lunghi capelli dietro le orecchie e prendendo il calice che il suo segretario gli stava offrendo: “Siete molto gentile a restare fino a un'ora così tarda.”

“Credo sia il minimo – disse l'altro, alzando appena il calice che aveva preparato per sé – con quello che sta succedendo è necessario che noi si sia pronti a far fronte a ogni evenienza.”

“Dicono che re Carlo sia a due giorni di cammino da Firenze.” sussurrò Pico, accostando con lentezza il calice alle labbra: “Per allora dovremo essere pronti.”

Il segretario trattenne il fiato, mentre il suo signore assaggiava il rosso. Pico non notò lo sguardo carico di tensione che Cristoforo gli stava dedicando. Bevve un breve sorso, poi un altro. Gli parve il vino peggiore che avesse mai provato. Eppure era quello che prendeva ogni sera...

Una sorta di forza invisibile cominciò a stringere la gola di Giovanni Pico della Mirandola, che si portò istintivamente una mano al collo, strabuzzando gli occhi.

Improvvisamente, Cristoforo ebbe paura. Pico aveva bevuto troppo poco. C'era il rischio concreto che...

“Un medico...!” balbettò Pico, afferrando con la mano ad artiglio il braccio del suo segretario: “E un prete...!”

Cristoforo da Casalmaggiore non se lo fece ripetere. Prese il calice ancora mezzo pieno dalla mano contratta del suo signore e ne gettò il contenuto nel camino acceso. Fece altrettanto con il bicchiere che aveva preparato per sé.

Mentre Pico si stendeva sul divanetto imbottito, il segretario corse fuori, sperando che la natura riuscisse ugualmente a fare il suo corso.

La notte passò e nessun prete arrivò. Il medico chiamato da Cristoforo allargò le braccia, dicendo davanti a tutto il servidorame di non capire quale fosse la causa di un simile malessere. Quando se ne andò, il segretario di Pico gli allungò una piccola bisaccia tintinnante che il dottore fece sparire in una tasca del suo mantello.

Il 16 novembre, poco dopo l'alba, dopo ore passate in agonia, finalmente un religioso si avventurò in casa di Giovanni Pico della Mirandola.

Girolamo Savonarola, vestito di nero, con le mani giunte sul petto, attraversò i corridoi e le stanze fino a giungere al capezzale del morente.

Lo trovò in uno stato pietoso. La sua pelle era verdognola e le sue labbra erano sporche di schiuma secca. I capelli erano scompigliati e sudati. I suoi occhi anelavano la luce, ma era chiaro che ormai la sua anima stava per lasciare per sempre il suo giovane corpo.

Arricciando il naso adunco per l'odore del vomito, Savonarola chiese a tutti di uscire, affinché potesse raccogliere l'ultima confessione di Pico.

Nessuno osò contraddire il potente domenicano, nemmeno Cristoforo da Casalmaggiore, e così il padrone di casa restò solo con quel figuro sinistro vestito di nero.

 

Gaspare Sanseverino aveva fatto la sua parte. Con i suoi cinquecento cavalleggeri aveva coperto le spalle a Guido Guerra e aveva conquistato Bagnara di Romagna. Non aveva avuto grandi perdite e a conti fatti si era trattato di una manovra semplice.

Se suo fratello Giovan Francesco avesse mantenuto la parola data, Cesena sarebbe tornata in mano ai Guerra e a quel punto, con anche Imola e Forlì amichevoli, e Faenza succube perché incapace di ostacolarli, i francesi avrebbero avuto dalla loro gran parte del centro Italia.

A quel punto piegare Roma sarebbe stato molto meno complicato. Con una via di fuga e di rifornimento spianata, Alessandro VI avrebbe avuto il suo bel daffare a convincere il re Alfonso di Napoli a proteggerlo ancora.

 

Guido Guerra aveva spinto l'inseguimento fino al limitare di quella che era la sua città. Ferdinando d'Avalos e Niccolò Orsini avevano ripiegato entro le mura e sarebbe bastato l'arrivo dei soldati promessi da Giovan Francesco Sanseverino per chiudere la giornata in un lampo.

Il Conte Guerra sapeva cosa l'Orsini stava chiedendo ai Priori della città, ma confidava nel fatto che quelli non osassero appoggiarlo oltre.

Da quello che gli osservatori avevano detto, il napoletano aveva con sé circa settecento fanti. Senza l'arrivo di Sanseverino, Guido Guerra sarebbe riuscito comunque a batterli, forse. Certo, con un sostanzioso aiuto, sarebbe stato certo della vittoria.

La sicurezza datagli dal Fracassa alle spalle era già qualcosa, ma il pomeriggio si stava lentamente avviando alla sera e presto sarebbe stato buio.

All'improvviso il Conte Guerra decise che non era più tempo di aspettare e ordinò l'attacco.

 

Niccolò Orsini mandò Ferdinando d'Avalos a comandare i suoi settecento fanti, mentre lui cercava ancora invano di prendere tempo presso i Priori, tentando anche di convincerli ad accordargli vettovaglie per la partenza.

Aveva scritto messaggi a tutti i suoi alleati più vicini: gli sarebbe bastata ancora qualche ora per avere una via di fuga sicura. Forse avrebbe perso i suoi soldati, ma lui e Ferdinando d'Avalos sarebbero riusciti a scappare.

Non era egoismo, ma economia militare. Napoli aveva bisogno di strateghi e comandanti più ancora che di soldati comuni, in un frangente come quello. Dunque, che altro fare se non fuggire a morte certa?

Mentre Niccolò stava svuotando i polmoni contro i Priori, accusandoli di vigliaccheria e poco buon senso, il suo attendente fece irruzione nel palazzo e gli disse che i rinforzi erano arrivati e gli avrebbero coperto la strada.

Lasciando perdere i Priori, a quel punto, Niccolò infilò di nuovo l'elmo e uscì di volata dal palazzo. Appena fuori si incontrò con Ferdinando d'Avalos. Entrambi presero il loro cavallo e lasciarono la città ancora preda degli scontri.

Quando Guido Guerra riuscì a mettere in fuga i napoletani e giunse al palazzo dei Signori, dove trovò i Priori rintanati come topi terrorizzati da un gatto, venne a sapere della fuga dell'Orsini e di Avalos e gli fu chiaro il motivo della ritirata repentina dei partenopei. Era stata solo un'azione diversiva per impedirgli di catturare due preziosi generali.

“Se solo Sanseverino fosse stato di parola – disse tra sé Guerra, gettando in terra l'elmo in un gesto di stizza – adesso avrei due prigionieri da far riscattare e non una città mezza distrutta...”

 

“Per noi cambia qualcosa?” aveva chiesto Bianca Landriani, con voce quasi annoiata, quando Caterina le aveva detto che quel pomeriggio Cesena era stata ripresa dal Conte Guerra.

Le due donne erano nella saletta dei giochi, ricavata in una delle ali più calde della rocca di Ravaldino, in modo da proteggere i figli della Contessa dei rigori invernali.

Da qualche giorno i francesi si erano dati una calmata e così Caterina si era presa la libertà di rilassarsi di quando in quando.

Rifuggiva ancora la compagnia di Giacomo, per dimostrargli che ancora lo voleva punire per le sue mancanze, tuttavia aveva la costante sensazione di essere lei stessa sotto punizione.

Cercava di distrarsi, soprattutto quando scendeva la sera e perciò aveva ripreso a passare qualche tempo coi figli e a volte con la sorella. Quando restava sola, una volta arrivata la notte, si era trovata più di una volta preda della tentazione di recarsi al Paradiso e dichiarare perdonato il marito, al solo fine di non doversene più privare.

“Certo che per noi cambia qualcosa.” rispose Caterina, trovando un po' irritante il tono usato dalla sorella minore, che pareva di giorno in giorno sempre meno interessata alla realtà in cui vivevano: “Prima di tutto, adesso Cesena è alleata dei nostri alleati e questo mi tranquillizza molto. In secondo luogo, sono convinta che ora i francesi hanno ancor meno motivi di fermarsi in Romagna e quindi a breve potremmo liberarcene.”

Davanti alle due donne i figli più piccoli della Contessa stavano giocando con delle spade di legno davanti al camino. Sforzino e Galeazzo fingevano di essere intrepidi cavalieri, mentre Livio, che quel giorno aveva continuato a tossire, si limitava a fare il tifo ora per uno ora per l'altro; mentre la tredicenne Bianca stava leggendo un libro, china alla luce delle candele.

Cesare non c'era, intento probabilmente a pregare o a studiare i suoi libri di teologia in qualche angolo solitario della rocca. Ottaviano, invece, aveva sviato la serata in famiglia, preferendo l'ennesimo dopocena in solitudine, chissà dove e a fare chissà che.

Siccome Bianca non dava segno di interessarsi a quello che Caterina stava dicendo, la Contessa provò ad aggiungere: “A quel punto anche Tommaso avrà più tempo libero e potrete...”

“Potremo cosa?” chiese l'altra, sulla difensiva, puntando gli occhi su Galeazzo e Sforzino che continuavano a fendere l'aria con le loro lame giocattolo.

Caterina si sentì in difficoltà, di fronte a quel tono. Da quando Tommaso e Bianca erano tornati a Ravaldino, le era stato difficile parlare in modo disteso con sua sorella. C'era sempre un sottofondo di nervosismo che le impediva di esprimersi liberamente come avrebbe voluto.

In parte, su di loro aleggiava ancora il sospetto e l'offesa, risalenti allo spiacevole episodio che aveva portato all'allontanamento di Tommaso anni addietro. E dall'altra c'era la silenziosa e costante accusa di Bianca nei confronti della sorella che, secondo il suo modo di vedere, non faceva nulla di concreto per scoraggiare le attenzioni del Governatore.

“Potrete passare più tempo insieme.” concluse Caterina, notando come la figlia avesse sollevato lo sguardo dal suo libro e stesse in realtà origliando le loro parole, per quanto in parte coperte dalle risate di Galeazzo e Sforzino e dagli incitamenti di Livio.

A quelle parole la sorella della Contessa parve trattenersi dal dire qualcosa di molto offensivo.

Restò un secondo immobile, poi prese dal tavolino il ricamo che aveva abbandonato già tempo e si alzò: “Perdonami, sorella, meglio che vada a riposarmi.”

Caterina non ribatté in alcun modo e la salutò senza tentare di fermarla. Era inutile provare a sciogliere il blocco di ghiaccio che si era creato a poco a poco tra loro.

Quando ci pensava, la Contessa non poteva fare a meno di soffrirne. Bianca era la sorella che aveva più vicino a sé, quella che, alla fine, aveva potuto conoscere meglio. Le faceva piacere averla presso la sua casa, perché le ricordava la sua terra e perché nei lineamenti del suo viso poteva rivedere in parte i suoi e quelli della madre.

Forse aveva ragione suo fratello Ermes, che le aveva detto che l'unica compagnia adatta a una persona di potere era la solitudine.

Caterina si era convinta che quella rivelazione si riferisse solo agli affari di cuore, ma evidentemente si estendeva anche a quelli di famiglia. Bastava vedere come anche i suoi figli più grandi si fossero allontanati da lei sempre di più, senza che lei sapesse come fare per evitarlo.

Guardando i più piccoli che giocavano, la Contessa avvertì un peso sul cuore, al pensiero che prima o poi anche loro le sarebbero risultati distanti e inarrivabili, come isole lontane, come quelle terre inesplorate che il navigatore Colombo aveva raggiunto con le sue tre navi.

La sua mente arrivò anche a Bernardino, che viveva ancora presso una famiglia di forlivesi che lei stessa aveva scelto. Giacomo lo andava a trovare ogni volta che poteva, ma lei non lo faceva mai, per paura di non riuscire a lasciarlo di nuovo. Forse stava sbagliando tutto anche con lui, anche se le sembrava l'unico modo per tenerlo al sicuro. Forse, un giorno, anche Bernardino l'avrebbe odiata per essere stato abbandonato...

La figlia Bianca, vedendo la madre tanto assorta nei suoi pensieri, ci mise un po' a decidersi, prima di chiudere il libro che stava leggendo per avvicinarsi a lei.

Caterina vide il movimento della ragazzina e si sforzò di accoglierla con un sorriso. Bianca si sedette laddove fino a poco prima stava la sua omonima zia e per qualche momento si mise a guardare i fratelli minori.

A un certo punto la ragazzina chiese alla madre: “I francesi se ne andranno presto?”

Caterina guardò la figlia quasi stupita da quella domanda. Non si aspettava, in tutta sincerità, che Bianca si interessasse di quelle cose. Per quanto le avesse dato la stessa istruzione dei suoi figli maschi, Caterina aveva capito fin da subito che la figlia non era avvezza più di tanto alla politica e alle occupazioni più maschili. Da quel lato non aveva preso molto da lei. Sapeva cucire alla perfezione, ricamare ancora meglio, disegnava, cantava, amava l'arte e la poesia. Insomma, un giorno sarebbe divenuta una padrona di casa e una dama degna di lode, ma non di più.

“Credo di sì.” rispose la Contessa.

“Perché vi siete alleata a loro, se prima hanno distrutto Mordano?” chiese Bianca, dando voce a un dubbio che le rimbalzava in mente da giorni.

Caterina si morse le labbra, mentre Galeazzo e Sforzino sembravano finalmente essersi stancati di colpirsi con le spade di legno e stavano riprendendo fiato, ancora scossi dalle risate.

“Non è stata una decisione facile – spiegò la Contessa, cercando di parlare in modo semplice e conciso – ma non potevo più fidarmi dei napoletani.”

“E dei francesi sì?” chiese Bianca, accigliandosi un po', nel tentativo di capire le parole della madre.

Caterina sospirò. Non era semplice spiegare una cosa del genere senza trascendere. O almeno, per lei non lo era. Forse qualcuno di meno sanguigno avrebbe potuto esporre a una ragazzina di tredici anni una questione tanto delicata senza eccedere, ma lei non sarebbe riuscita a spiegarle che la vista delle donne di Mordano uccise e torturate nella chiesa di Santa Maria era stata la goccia che l'aveva fatta tracimare, convincendola a cambiare fronte.

Per fortuna Bianca, nella sua ingenuità ancora infantile, le pose una domanda che sviò involontariamente il discorso: “Chi sono i buoni e chi i cattivi, in questa guerra?”

Caterina richiamò a sé anche i tre figli più piccoli. Livio non si mosse dal tappeto su cui era seduto, limitandosi a puntare il naso arrossato verso la madre. Galeazzo e Sforzino, invece, lasciarono in terra le spade giocattolo e si andarono ad appollaiare vicino alle sedie occupate da Bianca e Caterina.

“Voglio dirvi una cosa importante.” cominciò la Contessa, quando fu certa di avere la loro totale attenzione: “Nelle favole, nei poemi e nelle leggende che vi racconto io o che leggete sui libri, c'è sempre il cavaliere intrepido e il malvagio oppositore. Il buono e il cattivo. Ebbene, sappiate che nella realtà non esistono i buoni e i cattivi. La divisione non è così netta. Nella realtà ci sono solo uomini e donne che inseguono i propri obiettivi usando i propri metodi. Nulla di più e nulla di meno.”

“Niente buoni e cattivi?” chiese Sforzino, che, a sette anni, faticava ad accettare una simile verità.

“Esatto.” confermò Caterina, che si sentiva puntate addosso quattro paia d'occhi spalancati: “Per esempio, avete sentito quello che è successo a Cesena? Il Conte Guerra aveva chiesto l'aiuto di Giovan Francesco Sanseverino per riprendersi il suo Stato e lui prima ha finto di volerlo aiutare, invogliandolo così ad attaccare i napoletani, ma poi si è tirato indietro, per non correre rischi. È stato astuto. Ha ottenuto la liberazione di Cesena, ma allo stesso tempo non ha perso soldati. Non è stato né buono né cattivo. È un ottimo soldato, coraggioso e valoroso, ma conosce anche il valore della cautela. Così ha solo seguito il proprio buon senso, cercando la soluzione per lui più conveniente.”

“E il bisnonno?” chiese a quel punto Livio, la voce resa un po' ovattata dalla congestione nasale.

Caterina sapeva che i suoi figli, soprattutto i due più piccoli, avrebbero voluto sentirsi dire che Francesco Sforza, il loro bisnonno, era stato un uomo unico e di certo da annoverare tra i buoni, ma non voleva più riempirli di parole vuote, così fu il più possibile sincera: “Lui era un condottiero eroico, come ce ne sono stati pochi nella Storia, ma anche lui lo era diventato per seguire i suoi scopi e basta.”

“E voi, madre?” chiese allora Bianca, i cui occhi grandi erano fissi nelle iridi verdi della Contessa, alla ricerca di una verità più grande, di una vera e propria epifania.

Caterina ricambiò lo sguardo, mentre Livio, Galeazzo e Sforzino trattenevano il respiro, in attesa come la sorella di ricevere una risposta a quella domanda dall'importanza cruciale.

“Per voi cosa sono?” chiese Caterina, guardando i figli uno a uno, rigirando a loro quella questione spinosa.

I bambini iniziarono a cercarsi con lo sguardo, in evidente confusione. Nessuno di loro osava parlare, anche se la Contessa aveva intuito quanto quella reticenza fosse legata a un'evidenza che la ripugnava. Normalmente, dei figli di quell'età avrebbero risposto senza indugio dicendo che la propria madre era tra i buoni, mentre loro temporeggiavano perché la prima risposta che era loro venuta in mente era un'altra.

“Verrà un giorno – riprese a quel punto la Contessa – in cui capirete che il mondo è complicato, molto più di quello che si possa credere. L'unica cosa che si può fare è cercare di rispettare almeno i propri valori, fino in fondo.”

Non era certa che quella chiusa fosse stata compresa proprio da tutti e quattro i figli, ma almeno Bianca sembrava aver afferrato il concetto.

Fu proprio la ragazzina a dire, con tono leggero, come se quel discorso le avesse tolto un peso: “Forse è il momento di andare a riposare.”

Caterina annuì e si mise in piedi: “Forza, raggiungete le balie e mettetevi sotto le coperte. Stasera fa veramente freddo...”

E con quel saluto, la Contessa accompagnò i figli fino alle loro stanze e poi andò a ritirarsi nella sua camera, ancora una volta sola e tormentata dai fantasmi del passato e da quelli del futuro.

 
   
 
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