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Autore: Adeia Di Elferas    06/12/2016    4 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il 17 novembre, stringendo al petto l'abito domenicano che Girolamo Savonarola gli aveva concesso a memoria del suo presunto pentimento, Giovanni Pico della Mirandola si spense tra atroci dolori e brividi scuotenti.

Tra i primi a essere informati di quella morte fu Girolamo Benivieni che, a soli quarantun anni, nel giro di mezza giornata assunse le sembianze di un vecchio, chiudendosi in un mutismo quasi totale e cominciando a dimostrare fin da subito tendenze suicide.

L'uomo immaginava che dietro alla dipartita del suo amato Pico ci fosse qualcuno di importante. I suoi sospetti andavano tutti a Savonarola, ma sapeva che non avrebbe mai trovato prove.

La sua vita non aveva più alcun senso. Poliziano, l'amico di una vita, era morto e ora era morto anche Pico, il suo unico grande amore.

Tuttavia, mentre Firenze ribolliva per ben altre novità, Girolamo Benivieni comprese improvvisamente una cosa. Pico non avrebbe mai voluto vederlo soffrire a quel modo, né tanto meno vederlo mentre si metteva volontariamente in pericolo dando contro a Savonarola.

Dunque c'era una sola cosa da fare. Per quanto il poeta sapesse che il cuore umano non si può comandare, decise che avrebbe fatto di tutto per tenere al sicuro il proprio. Se la tentazione di uccidersi e la tendenza all'autocommiserazione sarebbero tornate, lui avrebbe cercato con tutti i mezzi di combatterle.

E se, per sopravvivere, avrebbe dovuto sostenere il domenicano che inneggiava a un nuovo Diluvio Universale, ebbene, l'avrebbe fatto. Avrebbe usato le sue doti letterarie per esaltare Savonarola e per farlo grande.

Piangendo ancora disperato, con il viso premuto contro il cuscino, Girolamo Benivieni quasi non sentì il suo servo che entrava di corsa nella sua stanza annunciando: “I Popolani! I Popolani!”

Avvolto com'era nei suoi ricordi delle lunghe giornate passate a Fiesole a comporre poesie o nella casa di Pico a ragionar d'amore, Girolamo in un primo momento non capì quello che il suo domestico aveva detto.

Solo dopo averlo udito ripetere quelle parole altre tre o quattro volte il poeta alzò la testa, coi capelli biondo cenere che ricadevano sugli occhi, e chiese: “Che accade?”

“I Popolani!” ribadì il servo, con gli occhi accesi della stessa speranza che stava infiammando tutta Firenze: “Sono appena entrati in città!”

 

Lorenzo Medici, vestito a festa, guidava il drappello di uomini che aveva appena varcato la porta principale della città di Firenze. A pochi metri da lui, con indosso una mezza armatura, cavalcava il fratello minore, Giovanni.

Come era giusto, Lorenzo doveva mostrarsi al popolo come il primogenito, colui che era destinato a guidare la famiglia e quindi a detenere il potere, mentre Giovanni, più giovane, rappresentava degnamente il ramo cadetto, quello che avrebbe dovuto difendere gli interessi dei Medici e, ancora di più, di Firenze imbracciando anche le armi, se necessario.

Alle loro spalle, portando i loro vessilli e i loro bagagli, seguivano i seguaci più stretti, e in coda si potevano vedere in un calesse la moglie di Lorenzo e i figli.

I fiorentini si erano riversati in strada, acclamando i nuovi arrivati e così per i Popolani fu stranamente facile arrivare fino al palazzo della Signoria, dove già da quel giorno si sarebbe ricostituita una nuova repubblica.

Giovanni guardava i volti della gente che gridava il suo nome e in tutta sincerità si chiedeva come potessero ancora fidarsi del cognome che lui e suo fratello portavano. Piero, loro cugino, era stato scacciato da pochi giorni perché aveva venduto Firenze ai francesi, eppure ora quegli stessi cittadini che l'avevano bandito dalla città erano pronti a lasciare via libera a re Carlo, seguendo i dettami di Girolamo Savonarola.

Mentre conduceva il cavallo a ruota di quello del fratello, Giovanni intravide finalmente il palazzo a cui erano diretti. Notò la statua in mezzo alla fontana, ricordandosi come prima non fosse lì, ma nel giardino di suo cugino Piero.

Fendendo l'aria fredda di quel 17 novembre, i Popolani si portarono fin davanti al portone del palazzo della Signoria e, accompagnati dalle esultazioni e dalle grida di fiorentini e Piagnoni, smontarono di sella e andarono incontro al loro nuovo sfolgorante e difficile futuro.

 

Alessandro VI intimò al Cardinale Federico Sanseverino: “E siate molto chiaro, con vostro fratello! Che ordini immediatamente a Yves d'Alègre di rilasciare Giulia Farnese, sua sorella e sua suocera!”

L'altro si passò una grassa mano sul mento reso bluastro dalla barba che stava ricrescendo: “Io posso scrivergli, ma...”

“Ma, ma, ma!” sbottò il papa, pestando un piede in terra: “Sempre ad accampare scuse! Siete o non siete fratello dei più importanti comandanti al soldi di Francia?!”

Il Cardinale Sanseverino dovette chinare appena il capo, impossibilitato a smentire quella frase, benché avrebbe preferito non essere proprio nessuno in quel momento.

“E allora ringraziate che non vi caccio in un cella a Castel Sant'Angelo assieme a quell'altro traditore di Ascanio Sforza!” continuò Rodrigo Borja, mentre le guance si colorivano per la rabbia e i vasi del collo si gonfiavano minacciosi.

Federico Sanseverino si asciugò con discrezione un velo di sudore freddo che aveva fatto capolino sulla sua fronte e provò a calmare il Santo Padre promettendo: “Scriverò oggi stesso e cercherò di essere molto chiaro con mio fratello – esitò un momento poi dovette aggiungere – tuttavia Yves d'Alégre non è tenuto a sottostare agli ordini dei miei fratelli.”

Alessandro VI smise improvvisamente di agitarsi e puntò gli occhi, in quei giorni particolarmente cerchiati, in quelli pavidi del Cardinale: “Sperate per voi che questo francese metta giudizio, altrimenti una cella ve la trovo molto in fretta, Federico.”

Mentre Rodrigo se ne andava, scalciando l'abito a ogni passo, il Cardinale Sanseverino sentì il cuore battere in modo irregolare sotto alle coste e per un attimo credette di essere prossimo alla morte.

Tuttavia non morì e così dovette costringere le proprie gambe storte a condurlo fino alle sue stanze, dove, ridotto quasi alle lacrime dalla paura, riversò sulla pagina tutte le sue paure e le sue preghiere, indirizzando il messaggio al fratello Galeazzo.

'Anche al re chiedete parola, fratello mio – si spinse a scrivere Federico – ma fate che le donne del papa tornino in suo possesso, o presto dovrete piangere la mia morte.'

 

Carlo VIII, il 18 novembre, era finalmente entrato in Firenze, a capo di una colonna di soldati addobbati per l'occasione, lasciando che il grosso dell'esercito si stanziasse tutt'attorno alla città.

Se le campagne si trovarono fin da subito a fare i conti con le pretese – spesso eccessive e sempre prepotenti – dei soldati del re di Francia, gli abitanti della città vennero invece investiti da un'aria di rinnovamento come non se ne respiravano da decenni.

Con il patrocinio formale di Carlo VIII, la nuova repubblica stava varando editti e riforme a ripetizione, tanto che nell'arco di un paio di giorni scarsi si erano ridisegnate completamente le regole del governo e la macchina statale.

Il Gonfaloniere di giustizia e gli otto Priori avrebbero costituito una nuova Signoria, chiaramente filofrancese, ma anche decisamente innovativa. La chiave di lettura stava nel riacquistare lo splendore che il Magnifico aveva fatto guadagnare a Firenze, prima di distruggere tutto con le proprie mani.

Dopodiché i Consigli del Comune, del Popolo e dei Settanta vennero riuniti in un unico organo, chiamato Consiglio maggiore, a cui potevano aspirare di partecipare tutti i cittadini che avessero almeno ventinove anni e che pagassero le imposte.

Infine venne subito eletto un Consiglio di ottanta membri almeno quarantenni che avrebbe avuto il compito di approvare le decisioni del Governo, prima di passare la decisione definitiva al Consiglio Maggiore.

Si stabilì anche la nomina di ben venti Accoppiatori, che avrebbero riformato il sistema amministrativo. Anche in questo caso l'età minima venne fissata a quarant'anni, tuttavia Lorenzo il Popolano, che di anni ne aveva appena trentuno, venne inserito tra i venti e nessuno ebbe nulla da ridire.

Come prevedibile, si formarono subito due fazioni opposte, i bianchi, che si proclamavano ferventi repubblicani, decisi a una vera svolta, e i bigi, che sostenevano la famiglia Medici, incarnata dai fratelli appena arrivati da Cafaggiolo.

 

La notizia dell'arrivo a Firenze di re Carlo e delle riforme prontamente intraprese dai cosiddetti Popolani arrivò alla corte di Caterina Sforza con una velocità impressionante.

“E pare anche – spiegò Tommaso Feo, che aveva appena avuto uno stretto colloquio con il capo delle spie – che Carlo VIII abbia subito inviato un ordine ufficiale all'Aubigny, dicendogli di passare subito gli Appennini e di raggiungerlo, al fine di scendere subito verso Roma.”

Caterina, seduta a capotavola, guardò il Governatore della città per un lungo momento.

La riunione si stava tenendo nel palazzo dei Riario, rimasto spoglio e freddo, esattamente come lo era poco dopo la morte di Girolamo. Caterina non aveva mai voluto spendere soldi per farlo tornare agli antichi splendori e, anzi, ultimamente aveva anche valutato l'ipotesi di farne abbattere una parte per recuperare i materiali di costruzione destinandoli ad altro uso.

Il Consiglio attendeva una risposta della Contessa a quella rivelazione. Anche Ottaviano, che sedeva dal lato opposto a quello della madre, come a voler prendere da lei le distanze in ogni modo possibile, se ne stava zitto e aspettava.

Alla fine Caterina decise: “Che venga mandata una richiesta chiara ai Sanseverino. Voglio che ci dicano con precisione quando hanno intenzione di lasciare le nostre terre per proseguire verso Firenze, o verso Roma. Quello non è affar nostro.”

Il Governatore di Forlì annuì subito e gli bastò uno sguardo al Cancelliere Cardella affinché prendesse subito carta e inchiostro per mettersi a scrivere suddetto messaggio.

Si parlò poi della delicata situazione in cui si trovava in quel momento il papa. Caterina non poteva ignorare che le sue terre si trovavano di fatto entro i territori soggetti al potere di Alessandro VI, ma era anche vero che da quando i francesi avevano conquistato gran parte del centro Italia era ridicolo credere che il papa avrebbe alzato anche solo un dito per riprendersi quello che era suo.

“Il Conte è il figlioccio del papa – provò a far notare Bonamente Torelli, occhieggiando nervosamente verso Ottaviano – questo non dovrebbe influire sulle decisioni del nostro Stato?”

“Il papa non ha fatto nulla per aiutare il suo figlioccio, mi pare.” contestò immediatamente Caterina, liquidando in fretta la questione: “Al contrario, ci ha lasciati soli a trattare con il figlio del re di Napoli che ci ha bassamente traditi.”

Torelli si rimise a sedere, imbronciato. Qualcuno diede ragione alla Contessa, qualcuno restò in silenzio.

“Se mi posso permettere – si intromise l'ambasciator Sfrondati che, come l'Oliva e pochi altri, aveva deciso di presenziare a quel Consiglio aperto a tutti come auditore – il Duca di Milano è stato molto più amichevole con il Conte Riario di quanto non lo sia stato Sua Santità.”

Caterina lo guardò di traverso, mentre Ottaviano scambiò con il milanese un sorriso compiaciuto.

Il grande assente a quel Consiglio era il Governatore Generale delle truppe e delle rocche che anche quel giorno, com'era ormai sua consolidata consuetudine, stava setacciando la cinta muraria, gridando ordini a destra e a manca, benché la situazione fosse quasi del tutto sotto controllo da giorni.

Si passò poi a commentare l'impatto economico che quel momentaneo isolamento, dovuto alla presenza dell'esercito francese, aveva avuto su Forlì e su Imola.

Quando finalmente gli argomenti furono esauriti, non restò alla Contessa altro se non sciogliere la seduta e ricordare a Cardella di far partire il messaggio per i Sanseverino all'istante.

Luffo Numai, che nel corso del Consiglio si era tenuto molto in disparte, tutto intento a ricontrollare le sue carte e a sondare i commenti fatti dagli altri Consiglieri, si avvicinò a Caterina non appena questa si fu alzata e parte dei presenti si fu recata alla porta.

“Ditemi tutto, Luffo.” lo incoraggiò Caterina, che in realtà non vedeva l'ora di ritirarsi nelle sue stanze per qualche momento, tormentata com'era quel giorno dai dolori alla schiena.

“Faenza ci ha scritto ancora. La lettera del Consiglio degli Anziani è giunta questa mattina presto...” disse l'uomo, reticente, cercando nella sua cartelletta il documento citato.

“E cosa vogliono?” chiese la Contessa, mentre con la coda dell'occhio osservava suo figlio che si era intrattenuto con Filippo e Giovanni Delle Selle.

“Chiedono quando vostra figlia Bianca potrà fare visita ad Astorre Manfredi in veste di sua promessa sposa.” disse in fretta Numai: “Ora che Firenze, da cui sono protetti, è ufficialmente passata dalla parte dei francesi come noi, non vedono più ostacoli al loro fidanzamento.”

Caterina distolse a fatica lo sguardo da Ottaviano, che stava parlando concitatamente coi due Consiglieri, agitando le mani in aria e assumendo di quando in quando un'espressione anche troppo seria.

Quando si costrinse a fissare Numai, la Contessa rispose: “Siamo ancora invasi dagli stranieri, non è il momento di permettere a una ragazzina di tredici anni di andarsene in giro, seppur con una scorta. Quando il clima sarà più tranquillo, allora ne riparleremo.”

E detto ciò, Caterina cercò di svincolarsi in fretta dall'insistente Consigliere che, ardendo più del suo solito, la sfiorò sul braccio per fermarla: “Mia signora, posso parlarvi in tutta franchezza?”

Accorgendosi della tensione che permeava quella domanda, la Contessa emise un profondo sospiro e rinunciò a correre da Ottaviano per sentire che diamine stesse dicendo ai due Delle Selle: “Certo che potete parlare in tutta franchezza.”

Luffo Numai chinò la testa, mettendo in mostra l'incipiente calvizie e disse: “Vostra figlia diventa ogni giorno più bella, mia signora.”

Caterina trattenne uno sbuffo. Se il Consigliere l'aveva trattenuta solo per elogiare Bianca, allora doveva avere qualche rotella fuori posto.

“Vi è sempre più simile nell'aspetto e voi siete una donna dal fascino indiscutibile. E il defunto padre di vostra figlia, il Conte Girolamo Riario, era un uomo di rara bellezza.” le parole di Luffo vennero accolte da uno sguardo glaciale della Contessa, che pareva molto infastidita da quell'ultima affermazione.

Tuttavia Caterina, ormai incuriosita di sapere dove il discorso sarebbe andato a parare, non lo fermò e così Luffo fu libero di proseguire: “Ultimamente vostra figlia attira molti sguardi e ai banchetti che si sono tenuti alla rocca è stata vista ballare e conversare con molti giovani nobili di Forlì.”

“Lo fa in modo innocente.” ribatté subito la Contessa, a cui non era sfuggita la vena di rimprovero nelle parole di Numai.

“Lo so, lo so...” convenne il Consigliere, le sopracciglia unite in un'unica linea affranta: “Però se la sua disinvoltura nel trattare con i giovani uomini nelle situazioni mondane dovesse diventare oggetto di chiacchiere, ecco... Se una notizia del genere arrivasse alle orecchie dei faentini, dubito che ne sarebbero felici.”

“Ho capito.” fece Caterina, ruvida: “Mi state consigliando di chiudere in fretta le trattative.”

“Ormai vostra figlia è in età da marito.” calcò la mano Luffo.

“Astorre è ancora troppo giovane, però.” disse la Contessa, felice di avere almeno quella scusa.

Luffo Numai a quel punto non trovò di meglio da fare se non inchinarsi un po' e concludere: “Siete una saggia donna, mia signora, so che saprete come gestire la situazione.”

Caterina lo ringraziò, per quanto quel siparietto l'avesse indisposta, e finalmente fu libera di accostare Ottaviano, che stava ancora discutendo coi Delle Selle, a cui si erano aggiunti anche Bartolo Marcobelli e Bartolomeo Orcioli.

“Dunque – stava dichiarando il quindicenne, tenendo la schiena dritta e gli occhi fissi ora su uno ora sull'altro Consigliere – alla fine il Conte Guerra ha giustamente avuto ragione non solo dei francesi, ma anche di sua madre, com'è nell'ordine delle cose.”

A quelle parole, dette con tanta ferocia, Caterina sentì il sangue gelarsi nelle vene.

Una volta che si furono accorti della presenza della Contessa, i Consiglieri salutarono il Conte e si congedarono dalla loro signora, guadagnando la porta immersi ancora nei loro discorsi.

Caterina si affiancò a Ottaviano e assieme mossero qualche passo verso l'uscita, andando abbastanza piano da essere lasciati indietro da tutti gli altri.

“Una famiglia è forte solo se è unita.” disse Caterina, senza riuscire a guardare in viso il figlio.

In quel momento, mentre camminavano uno accanto all'altra, la Contessa si rese conto un po' per la prima volta di quanto Ottaviano fosse diventato grande. Era alto, slanciato, con lo stesso fisico snello e scattante che era aveva avuto suo padre Girolamo quando lei l'aveva conosciuto.

Sotto molti punti di vista, il suo primogenito era già un uomo.

“Lo credo anche io – confermò Ottaviano, la voce distorta da qualcosa che poteva essere solo rabbia – ma quando un suo membro fa di tutto per disfarla, sta a un altro prendere in mano le redini e ricostruire ciò che si è distrutto.”

Caterina non trovò nulla di ridire, sentendosi punta sul vivo e così, non appena raggiunsero l'uscita del palazzo, trovò una scusa per prendere una strada opposta a quella imboccata da Ottaviano.

 

“Ai banchetti ti ho vista spesso danzare con i giovani Marcobelli e Orcioli.” disse Caterina, a voce bassa, quella sera, mentre camminava accanto a sua figlia Bianca nel piccolo orto che aveva allestito vicino alla rocca.

Protette dalle guardie che vegliavano su di loro, madre e figlia avevano deciso di prendersi un momento di tranquillità lontane tanto dall'ambiente chiuso di Ravaldino, quanto dal resto della famiglia.

Passando accanto alle erbe curative che la Contessa aveva piantato personalmente, i loro respiri creavano ragnatele gelate nell'aria fredda di novembre. Il cielo era grigio, ma il terreno era secco. Non pioveva molto, quell'anno e non aveva ancora nevicato in modo significativo. Rispetto agli anni passati, quello si stava rivelando eccezionalmente mite.

Bianca, alle parole della madre, era arrossita un po', ma il colletto di pelo le nascondeva abbastanza le guance per celare quella reazione alla Contessa.

“Ti piace uno di loro?” chiese Caterina, quasi sussurrando, come se stesse parlando di un segreto di Stato; anzi, in un certo senso era proprio così.

La ragazzina deglutì un paio di volte, prima di rispondere: “Non lo so... No, non credo... Mi piace divertirmi ai banchetti, ballare con loro, niente di più.”

Avrebbe voluto dire a sua madre che era stata lei stessa a educarla, dandole un'istruzione libera e la sicurezza nelle proprie capacità tanto intellettuali quanto fisiche, in modo da sentirsi a proprio agio anche in compagnia degli uomini, senza essere bloccata dai pudori che incatenavano le sue coetanee.

“Sai che il tuo fidanzamento con Astorre Manfredi è ancora valido, sì?” si informò Caterina, cauta come se stesse camminando sulle uova.

“Sì.” confermò mesta Bianca.

La Contessa le lanciò un'occhiata di sguincio e alla fine concluse: “Ti chiedo solo di stare attenta.”

Bianca non disse nulla, nascondendo il viso nel colletto di pelo, come se volesse sottrarsi dal giudizio non solo della madre, ma del mondo intero.

“Se mai ti dovesse piacere qualcuno – riprese Caterina, distaccata – gradirei essere informata.”

Forse fu solo un'impressione, ma, suggestionata dalle invettive che Ottaviano lanciava sempre contro la loro madre quando erano soli, accusandola di volerli controllare e tenere sotto il suo potere, Bianca lesse quella frase come una minaccia. Alle sue orecchie quelle parole suonarono sinistre. Fu come se sua madre avesse suggerito: 'Se mai ti piacesse qualcuno, me ne occuperei io'.

Senza più toccare l'argomento, Caterina attraversò gli ultimi metri del suo orto privato e poi si fece accompagnare dalla figlia fino all'ingresso della rocca, dove si divisero, l'una diretta alle sue stanze, l'altra alla sua spelonca da strega.

 
   
 
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