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Autore: Adeia Di Elferas    09/12/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'ambasciatore del Sultano di Costantinopoli, quella sera, quando fu buio, lasciò la corte di Mantova con un borsone pieno di monete.

Francesco Gonzaga aveva stimato come sufficiente una somma di mille ducati fosse sufficiente per assicurare un pronto ritorno in Turchia al Sultano, che era sfuggito per un pelo a un'imboscata di Giovanni Della Rovere nei pressi di Ancona.

“Potrebbe essere molto pericoloso – aveva commentato sua moglie Isabella Este, quando lui l'aveva messa a parte delle sue intenzioni – ma credo che avere un alleato tanto potente potrebbe servire, prima o poi.”

In realtà Francesco aveva agito soprattutto per far beffa al Della Rovere, che di recente aveva strappato a Bartolomeo d'Alviano, schierato con Napoli, il Ducato di Sora, assumendo, di fatto, una certa importanza negli equilibri politici della zona prossima a Roma.

Per quanto volesse fare buon viso a cattivo gioco, i veneziani facevano su di lui continue pressioni e dunque non appena trovava un modo per andare a ledere i filofrancesi, Francesco non si faceva troppi problemi.

Isabella osservava e diceva la sua, senza però mai imporsi. Il marito, che pur riusciva a giostrarsi bene anche tra i liquami della politica, era un uomo d'azione, più adatto a tenere in mano una spada, che non una penna. Perciò la moglie restava per lui un solido appoggio e ogni decisione doveva, secondo lui, prima passare anche per il vaglio di Isabella.

Così quando la donna disse: “Dagli i mille ducati.”, Francesco chiamò il suo contabile e fece ripartire l'ambasciatore carico d'oro e con un sorriso che andava da un dente all'altro.

Tuttavia, per continuare nella sua recita, il Marchese di Mantova doveva onorare un altro impegno, per lui in quel momento ben più gravoso. Era stato chiamato dai Sanseverino, affinché li raggiungesse subito, mentre ancora erano nelle terre di Caterina Sforza, affinché passasse con loro gli Appennini e seguisse coi suoi soldati i francesi a Firenze prima e a Roma poi.

Isabella aveva storto il naso, quando aveva dovuto lasciarlo partire, ma in fondo amava il marito anche perché era un valoroso soldato e quindi l'avrebbe atteso, come faceva sempre, occupandosi dell'amministrazione del Marchesato e della loro piccola Eleonora.

 

“Sì, la data è certa.” assicurò Tommaso, togliendosi con gesti precisi e secchi i guanti imbottiti di pelo: “Convoglieranno tutti i loro soldati tra Castrocaro e Ladino e a quel punto partiranno verso Firenze.”

“Tutti quanti?” chiese Caterina, assecondando il passo ampio di Tommaso, che voleva raggiungere in fretta un camino acceso.

Anche se si era fatta aspettare, alla fine la prima neve era caduta e aveva portato con sé un grande freddo.

“Dicono che i due Sanseverino abbiano avuto dei dissapori – la informò il Governatore di Imola, con una ruga severa al lato della bocca – pare che Giovan Francesco andrà dal re, mentre Fracassa vuole tornare a nord, verso Bologna.”

“E con quale scusa?” domandò la Contessa, una volta che ebbero raggiunto lo studiolo del castellano, in quel momento vuoto, ma con un focolare scoppiettante.

Tommaso si tolse dalle spalle la pesante cappa di lana, lasciando che la neve che aveva sulle spalle cadesse in terra e si sciogliesse. Andò davanti al fuoco e protese le mani, per scaldarle. Stava pensando alla domanda della sua signora, ma alla fine non trovò risposta.

Alzando le spalle, disse solo: “Non ne ho idea. Forse deve andare a parlamentare con i Bentivoglio.”

Caterina si mise a sedere alla scrivania, gli occhi fissi alla finestra appannata e una mano sulle labbra. Le sembrava una decisione strana. O i Sanseverino avevano in mente qualcosa, oppure era davvero intercorso qualche incidenti tra loro, altrimenti dividersi in quel momento e a quel modo non avrebbe avuto davvero alcun senso.

Una volta riacquistata la sensibilità alle mani, Tommaso si voltò verso la Contessa e rimase un po' in silenzio ad aspettare che la donna trovasse una direzione unanime per i suoi pensieri.

Quando le fu evidente che scrutare ciò che stava nelle teste dei Sanseverino non era un affare per lei, Caterina si riscosse dal suo momento di isolamento e tornò a concentrarsi su quello che rientrava nel suo campo di interesse: “Il ventitré, dunque, i francesi se ne andranno.”

“Così mi hanno assicurato.” la voce di Tommaso non tradiva alcuna emozione, eppure la Contessa era certa, guardando i suoi occhi stanchi, che anche lui stava ripensando al passato, in quel momento.

Quante volte si erano trovati insieme in quella stanza a ragionare sul da farsi, quando lui era il castellano di Ravaldino?

Per non cedere ai ricordi, che per altro le stavano mettendo in animo delle sensazioni difficili da sondare, Caterina si rimise in piedi e decretò: “Prima che se ne vadano, chiameremo alla rocca i generali francesi. Daremo loro un sontuoso banchetto. Ci dimostreremo ospiti educati e generosi. Che di noi non possano dire nulla di male.”

Tommaso annuì, anche lui uscito dal canale buio della memoria, e poi chiese: “Quando terremo questo banchetto?”

“La notte del ventidue.” disse Caterina, senza esitazione: “E all'alba accompagnerò personalmente tutti loro a Ladino, per assicurarmi che se ne vadano davvero.”

“Quando avranno fatto quello che devono al sud, ripasseranno da qui.” fece notare Tommaso, come se ce ne fosse bisogno.

“Quando saranno al sud potrebbero capitare molte cose – ribatté la Contessa, mentre iniziava a pensare a come organizzare la cena – e comunque ci vorrà del tempo. Per ora pensiamo a tenerceli buoni.”

Tommaso a quel punto non poté fare altro che chinare il capo e chiedere disposizioni in merito al banchetto che si sarebbe tenuto a breve.

“Quello non è compito per il Governatore di una città... A organizzare la serata ci penserà il castellano, vostro zio Cesare.” gli ricordò Caterina, dedicandogli un breve sorriso: “Ora spetta a lui occuparsi di queste cose.”

 

Fregosino impose al suo volto di restare privo d'espressione. Dentro di sé si sentiva trionfante, ma quello scambio di prigionieri era molto delicato e non voleva insospettire in nessun modo i messi napoletani che erano arrivati fino a lì per prelevarlo e portarlo in salvo.

Non appena i francesi riebbero tra le mani i loro e Fregoso Fregosino, assieme ai pochi altri che erano stati liberati con lui, qualcuno si industriò a togliergli i lacci dai polsi.

Sentendo di nuovo le mani libere, l'uomo di permise di lasciarsi andare a un leggerissimo sorriso, certo che i napoletani l'avrebbero imputato alla gioia di essere finalmente salvo.

Era stata una prigionia meno dura del previsto – meno dura di quella degli altri ostaggi di certo – ma non voleva che si sapesse.

Prima doveva tornare a casa. Da suo padre, dai suoi figli e, soprattutto, da sua moglie Chiara.

Prima di tutto avrebbe recuperato tutto il tempo perso con lei. Dopo averla stretta a sé per notti intere, le avrebbe raccontato tutto quello che aveva visto e sentito mentre si trovava sotto la custodia del francesi, e solo allora le avrebbe spiegato quale futuro li attendeva.

Dopotutto, si disse Fregosino, mentre napoletani e francesi berciavano qualche parola per chiudere la transazione, lui non era né un Aragona, né un Valois. Non stava tradendo nessuno.

Era fedele a una sola persona: sua moglie.

E per continuare a esserlo, doveva innanzitutto far sì che lei restasse in vita e il modo migliore per farlo era non morire. Soprattutto non morire per un motivo stupido come la lealtà a un re con cui non aveva nulla a che spartire.

 

Giovan Francesco Sanseverino si passò con cautela il messaggio da una mano all'altra, come se volesse scoprirci dietro chissà quale magagna.

“Che hai da pensarci ancora?” gli chiese suo fratello Gaspare: “Si tratta solo di un banchetto. Di una gentilezza.”

“Non mi fido di quella donna.” si ostinò Giovan Francesco, scatenando uno sbuffo irritato dell'Aubigny, che era accorso assieme agli altri generali per sentire che nuove c'erano da Forlì.

“Siamo suoi alleati – si azzardò a constatare Alberto Pio, signore di Carpi – che pericoli dovrebbero esserci?”

Giovan Francesco Sanseverino spinse in fuori il mento storto e avanzò le sue preoccupazioni: “E se fosse una trappola? E se una volta dentro non ci lasciasse più uscire?”

“E che ci guadagna, scusa?” lo prese di petto il fratello: “Se ci ammazza, tempo due giorni e il suo Stato verrebbe raso al suolo.”

“E se a lei non importasse?” le parole di Giovan Francesco risuonarono per un attimo molto sinistre, in quel padiglione invaso dal freddo di fine novembre.

Alla fine, però, Gaspare richiamò l'attenzione di tutti ricordando: “Quella donna ha dimostrato di essere in grado di accettare qualsiasi cosa, pur di salvare il suo Stato. Gli Orsi le hanno minacciato di morte i figli davanti ai suoi occhi, e sappiamo tutti com'è andata a finire.”

Giovan Francesco, pur con grande riluttanza, si trovò a ragionare: “In effetti credo che alla Tigre importi solo di non perdere le sue terre. Se anche si vendicasse, uccidendoci tutti, finirebbe per perdere ciò che vuole più di ogni altra cosa.”

“Appunto – convenne Fracassa – quindi non ci farà nulla. Vuole solo che lasciamo in fretta il suo territorio.”

Quelle parole parvero rinfrancare lo spirito di molti, tanto che, dopo un momento di esitazione, Don Giuliano di Ligny diede in una grassa risata ed esclamò: “Speriamo che almeno si sollevi le sottane anche davanti a noi!”

 

Il castellano di Ravaldino, Cesare Feo, aveva fatto un ottimo lavoro. Di concerto con la sorella della Contessa e dei responsabili delle cucine aveva messo a punto un banchetto praticamente perfetto.

Erano stati chiamati i migliori musici della zona e i cibi proposti erano sostanziosi e di ottima qualità, come il vino.

La sala era stata addobbata in modo eccellente e anche la sicurezza aveva avuto il suo peso nell'organizzare la serata. Il castellano si era infatti premurato di posizionare le guardie nei punti più strategici della rocca, in modo tale da essere pronti a qualunque evenienza, perfino a un tradimento da parte dei generali francesi.

Fuori il vento freddo spirava con forza, andando verso le montagne, e la luna era nascosta da pesanti nuvole che, forse, promettevano altra neve.

Caterina si stava preparando nelle sue stanze, aiutata dalla cameriera personale, che le stava acconciando i capelli in modo complesso e alla moda. Fosse stato per lei avrebbe evitato tanto quello quanto l'elegante abito quasi nuovo che aveva deciso di indossare, ma sapeva che quel giorno si stava giocando una carta molto importante.

La moglie di Bernardino le stava dicendo qualcosa, ma la Contessa non aveva la testa abbastanza libera da star ad ascoltarla, perciò si limitava ad annuire di quando in quando e fare qualche gesto che facesse credere alla serva che stesse seguendo il suo discorso.

La domestica, in realtà, aveva capito che la sua signora era distratta, ma siccome temeva che il silenzio l'avrebbe innervosita, continuava a blaterare di questo e quel pettegolezzo sentito in città quel giorno.

Da quando la Contessa non condivideva più la camera con il Governatore Generale, era difficile trovare con lei argomenti di conversazione. Era sempre nervosa, mesta, e apparentemente ogni discorso l'annoiava o la irritava.

In cuor suo, per quanto si sentisse più tranquilla a vedere la sua signora lontana dal giovane Feo, la cameriera a volte sperava in una loro riconciliazione.

Quando qualcuno bussò alla porta, Caterina riemerse dai suoi pensieri e chiese alla serva di andare a vedere chi fosse.

“Sono io.” rispose la voce di Tommaso: “Volevo dirvi che gli ospiti stanno arrivando.”

La cameriera cercò lo sguardo della Contessa, che diede il suo tacito permesso e così la domestica aprì appena la porta della stanza, per permettere al Governatore della città di affacciarsi.

“Accoglieteli voi, per il momento – disse Caterina, a cui non restava altro che scegliere i monili da abbinare all'abito – voi e mio figlio. Arriverò tra un momento.”

Tommaso cercò di forzare il proprio sguardo a non vagare per la camera. Era sempre così curioso di vedere gli appartamenti privati della Contessa che quell'occasione sembrava fatta apposta per tentarlo. Tuttavia riuscì magistralmente a tenere le pupille fisse sulla sua signora.

Caterina si prese un istante per ricambiare l'occhiata e fu molto compiaciuta nel vedere come al Governatore donasse l'abito da cerimonia che aveva addosso. Assieme alla sua postura marziale, quel vestito faceva di lui un uomo davvero affascinante.

Alla serva non sfuggì lo scambio di sguardi che era intercorso tra i due e tanto le bastò per pensare a quanto sarebbe stato tutto più semplice se solo la sua signora si fosse innamorata del Feo più vecchio e non di quello più giovane.

“Andate pure.” concluse Caterina, facendo intendere a Tommaso che era il momento di lasciarla di nuovo sola per permetterle di ultimare i preparativi.

Il Governatore fece un inchino molto più profondo del solito e si apprestò ad aprire quella serata di cruciale importanza.

 

Ottaviano era molto teso, ma faceva del suo meglio per non darlo a vedere. Indossava una sopravveste pesante, adatta a quel periodo dell'anno, un farsetto ricamato con fili d'oro che formavano la rosa simbolo della sua famiglia e dal cui colletto spuntavano le candide lattughine della camicia, e sotto spiccavano le brache con le poste che richiamavano i colori dei Riario, il giallo e l'azzurro.

Il suo abito, tuttavia, era nulla in confronto a quello sfoggiato dal Governatore Generale delle truppe e delle rocche che, colto alla sprovvista dalla repentina decisione di tenere quella cena, non si era comunque lasciato trovare del tutto impreparato.

Giacomo Feo aveva scelto un vestito blu scuro, quasi interamente di seta e raso, elegantissimo e altrettanto ardito. Le brache molto aderenti e il collaretto a cui erano state attaccate piccole gemme attiravano gli sguardi delle donne presenti senza eccezioni.

A mitigare la palpabile tensione che si era creata tra il Conte e lo stalliere, per fortuna, era arrivato il Governatore di Forlì, Tommaso, che, con il suo portamento austero riusciva a bilanciare i due estremi rappresentati da Ottaviano e Giacomo. Se da un lato, infatti, stava un Conte adolescente, impacciato per natura, che portava con difficoltà i colori di suo padre, a modo suo con un'umiltà prossima all'inadeguatezza, dall'altra c'era un giovane tracotante, la cui bellezza non solo non era mitigata, ma addirittura sottolineata dal blu scuro che portava, rendendolo l'emblema stesso dell'arroganza.

Finalmente, dopo essere stati annunciati dal cerimoniere, gli ospiti tanto attesi cominciarono a sfilare nel salone, accompagnati dalle esclamazioni e dagli applausi dei convitati, tra cui spiccavano i membri delle famiglie più in vista e più fedeli alla Contessa Sforza Riario.

 

Quando fu certa che i convenevoli erano stati già sbrigati dai suoi uomini, Caterina si apprestò a scendere nella fossa dei leoni.

I corridoi della rocca erano abbastanza silenziosi, attraversati di quando in quando da un soldati di ronda. Cesare Feo era stato maniacale nel disporre la difesa interna, troppo preoccupato all'idea di avere a Ravaldino tutti quei francesi.

Caterina sapeva che, per quanto avesse rassicurato tutti circa la stima reciproca che vigeva tra lei e i Sanseverino, nessuno nutriva per i comandanti di Carlo VIII altrettanta fiducia.

Con passo cadenzato e volutamente lento, la Contessa si portò fino al salone del banchetto ripassando nella propria mente tutti i passaggi che aveva ripercorso mille e mille volte fin dall'alba.

Aveva precisi traguardi da raggiungere prima che il sole tornasse in cielo e intendeva portare a casa il risultato.

Per quanto avesse dovuto fingere e recitare, quella sera, mettendo mano a tutte le armi improprie che erano in suo possesso – prime tra tutte l'avvenenza e la capacità di dissimulazione – alla fine avrebbe ottenuto quello che voleva e basta.

Impedendo al cerimoniere di annunciarla ufficialmente, Caterina fece il suo trionfale ingresso nel salone, accompagnata da un improvviso silenzio e da decine e decine di occhi puntati su di lei.

Come previsto, la reazione dei suoi sudditi fu perfetta. Voleva dimostrare ai generali dei francesi che il rispetto che i forlivesi le portavano non era imposto dall'etichetta, ma era reale. Farsi annunciare avrebbe reso l'accoglienza dei suoi ospiti forzatamente positiva.

Mentre così, incedere da sola e senza cerimonie fino al tavolo d'onore, scortata dall'ammirazione rapita di tutti i presenti era di certo il miglior modo per stupire i francesi.

Infatti, al tavolo principale, i comandanti restarono molto colpiti da quella visione, che diceva molto più di quello che tante parole e trattati avrebbero potuto esprimere.

La signora della rocca vestiva in modo semplice, per quanto elegante, e portava inequivocabilmente i colori di Milano: il bianco e il rosso.

 
   
 
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