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Autore: Adeia Di Elferas    11/12/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina si avvicinò a loro, passandoli in rassegna, dedicando a tutti quanti una parola e un sorriso, prima di andarsi a sistemare nel centro esatto della tavolata, tra suo figlio e il Governatore Generale delle truppe e delle rocche.

Con discrezione, mentre attorno a lei cominciavano le prime chiacchiere di lode circa la ricchezza delle posate e degli addobbi, Caterina passò di nuovo lo sguardo su tutti gli stranieri che stavano al desco con lei.

Don Giuliano di Ligny, i signori di Carpi, i signori della Mirandola, i Sanseverino, il Marchese di Mantova, altri generali minore e l'Aubigny.

Nel vedere il profilo tronfio, dal colorito smorto, di quell'uomo, la Contessa sentì il sangue ribollire nelle sue viscere. Era stato lui a volere lo scempio di Mordano, lui a causare tanto dolore e morte per niente.

Caterina, per dissimulare la rabbia che rischiava di farle perdere il controllo, afferrò con forza il calice e propose di bere un sorso di vino per festeggiare quella lieta serata.

Mentre tutti quanti si alzavano, portando in alto i bicchieri, inneggiando a lei e all'alleanza nata coi francesi, la Contessa continuò la sua lotta interiore.

Li aveva tutti lì. Se solo avesse voluto, in una sola notte avrebbe messo a segno la vendetta più memorabile della Storia. Li avrebbe fatti bere, magiare, divertire, danzare e poi, una volta che si fossero rilassati completamente, li avrebbe ammazzati tutti quanti.

Sarebbe bastato dare le armi in mano a pochi fidati. Ai Ghetti, ad esempio. Ai Delle Selle. A Tommaso. Lei stessa avrebbe potuto piantare il pugnale nella pancia di qualcuno, magari proprio dell'Aubigny.

Poi, però, dopo quell'effimera soddisfazione, si sarebbe trovata contro tutti quanti.

Avrebbe decapitato in una sola notte la metà più valida del corpo di comando dell'esercito francese, ma di certo avrebbe dovuto far i conti con l'altra metà. Carlo VIII di certo non l'avrebbe perdonata.

Valeva la pena di morire per vendicare gli uomini e le donne di Mordano? Forse sì. Ma così avrebbe condannato anche i suoi figli, sua madre, sua sorella, suo cognato, suo fratello, l'intero suo popolo. E anche Giacomo.

Bastò quell'ultimo nome a farle sparire ogni traccia di animosità. La sua sete di vendetta non avrebbe trovato di che placarsi quella notte.

Come a volersi inconsciamente assicurare che tutto fosse al suo posto, Caterina, risedendosi dopo il brindisi, guardò prima verso il figlio che, accaldato, stava ancora sorbendo un po' di vino, e poi verso Giacomo che, serio, stava visibilmente evitando di guardarla, puntando gli occhi verso il resto degli invitati.

La cena era stata studiata in modo minuzioso, facendo sì che a ogni portata seguisse il giusto tempo ai commensali per bere un po' di vino in tranquillità, allietati da qualche musica leggera, prima di passare al piatto successivo.

Caterina approfittò di quei momenti di pausa per scambiare, seppur a distanza, qualche parola con la maggior parte dei suoi ospiti più illustri.

Ovviamente avrebbe tenuto le cose più importanti e delicate per quando si sarebbero aperte le danze.

“Devo fare i complimenti ai vostri cuochi – disse Francesco Gonzaga, indirizzando alla padrona di casa un sorriso benevolo e trattenendo un po' d'aria che voleva risalire in superficie – non ho mai mangiato meglio in vita mia.”

Il Marchese di Mantova era arrivato al campo francese giusto quel giorno, ma aveva accettato subito di unirsi agli altri generali per il banchetto.

La Contessa, che verso il signore di Mantova aveva un obbligo di riconoscenza, essendo stato lui a trattare per primo il suo ingresso nella Lega fondata da Ludovico, ringraziò sentitamente e ne approfittò per blandirlo: “Immagino che anche vostra moglie Isabella sappia dare precise indicazioni alle vostre cucine.”

Francesco ghignò e per un momento la sua 'brutta faccia', come spesso la chiamava scherzosamente sua moglie quando erano soli, si contrasse in una smorfia: “Oh, lei dà ottime indicazioni alle cucine, peccato che a parte il luccio, i miei cuochi non sappiano mettere sul fuoco altro.”

La tavolata d'onore rise a quella battuta di spirito, con l'eccezione dell'Aubigny, le cui guance smunte ebbero appena un tremito. Caterina fu portata a pensare che un uomo capace di certe atrocità non poteva essere capace di ridere.

Distraendosi momentaneamente da quello che veniva detto tra i suoi commensali, la Contessa si trovò a ricordare come anche suo padre, il Duca Galeazzo Maria, non fosse un uomo incline alla risata.

Alberto Pio stava raccontando una facezia circa gli inconvenienti avuti al campo, in particolare riguardo alle condizioni igieniche, quando Giacomo, con discrezione, diede di gomito alla moglie e le chiese in un sussurro: “Tutto bene?”

Quella domanda bastò a Caterina per rituffarsi nella conversazione. Se suo marito era arrivato a chiederle se stesse bene, significava che come minimo aveva perso colore in viso e che la sua momentanea estraniazione era ben visibile anche dall'esterno.

Non a caso, forse, l'Aubigny la stava fissando con uno sguardo interrogativo, uno di quegli sguardi che esigono di sapere anche ciò che non andrebbe mai detto.

Reprimendo un brivido, la Contessa si infilò con agilità nel discorso, ricordando quando lei stessa era stata al campo degli Orsini: “Parecchi anni fa”, sottolineò più volte, desiderosa di dimostrare come l'alleanza con quella famiglia, ancora così fedele al papa e a Napoli, fosse solo un vago ricordo.

La notte stava avanzando e il salone reso caldo e accogliente dalla gran quantità di ospiti era ancora immerso nei festeggiamenti.

I figli più piccoli della Contessa erano stati da tempo condotti nelle loro stanze a riposare, mentre i più grandi – Ottaviano, Cesare e Bianca – avevano avuto il permesso di restare fino a quando volevano.

“Una selezione di dolci ineccepibile.” si permise di commentare Giovan Francesco Sanseverino, quando arrivò anche l'ultima torta, la spongata, fortemente voluta dalla Contessa in memoria di suo nonno Francesco: “Soprattutto in un momento di simile carestia.”

A Caterina quella stoccata non piacque e le piacque ancor meno vedere una sorta di tacito concordo sul viso di Tommaso Feo.

“Per grazia di Dio – ribatté la Contessa, sforzandosi di mantenere il sorriso – le mie terre possono ancora permettersi un banchetto ogni tanto.”

Giovan Francesco sbatté un paio di volte le palpebre, indeciso se continuare o meno il discorso, ma quando gli venne piazzata davanti una generosa fetta di spongata, preferì mangiare al parlare. Chi poteva dire quando avrebbe potuto mangiare di nuovo una cosa tanto prelibata?

Quando anche l'ultima portata venne spazzolata via dagli ospiti della Contessa, Caterina si alzò in piedi per dare il via alle danze.

Mentre i tavoli che occupavano il centro della sala venivano spostati contro le pareti, un vociare eccitato si sparse per tutto il salone.

Caterina aveva pensato a lungo a come gestire quel punto della serata. Aveva chiesto ai musici molte musiche allegre, che potessero essere ballate in gruppo con girotondi e simili. Tuttavia ci sarebbe anche stato spazio per danze più solenni e serie, e la prima sarebbe stata una di quelle.

Quando finalmente il campo fu sgombro, la Contessa lasciò la sua sedia e annunciò, rivolgendosi direttamente alla tavolata d'onore: “Per aprire le danze chiedo al valoroso Duca d'Aubigny di concedermi il favore della sua compagnia.”

L'uomo nascose molto bene la sua sorpresa, seppur rimase sorpreso da quell'invito, e, alzandosi da tavola appena venne fatto il suo nome, raggiunse la Contessa nel centro del salone.

Caterina provò un istintivo ribrezzo, quando avvertì le mani fredde del comandante francese sfiorarla, ma riuscì a trattenere ogni reazione visibile.

I musici diedero inizio a una ballata molto nota, dal ritmo cadenzato, perfetto per una danza lenta, e dopo i primi passi mossi dalla Contessa e dal suo ospite, molte altre coppie si misero in pista.

“Trovo sorprendente che una donna come voi stia riuscendo a restare a galla in questo periodo tanto incerto.” disse l'Aubigny, dopo qualche giravolta.

Era un buon ballerino, a discapito di quello che Caterina si era attesa. Dopo tutto, essendo lui nobile, era presumibile che avesse preso lezioni da ragazzo, o quanto meno che avesse partecipato a molte altre feste ufficiali prima d'allora.

“Sono rimasto anche molto colpito nel sentirvi ricordare la vostra militanza, se così si può chiamare, sotto gli Orsini, anni fa.” proseguì l'uomo, i cui occhi annoiati vagavano per il salone senza mai posarsi sulla sua dama.

La Contessa trovava irriverente tanto il suo tono quanto la scelta degli argomenti, ma quello era il momento di essere arguta, pur senza cedere troppo alle provocazioni: “Come può un francese meravigliarsi di vedere una donna con in mano una spada? Non avete forse vinto una guerra, una quarantina d'anni fa, proprio grazie a una donna in armatura?”

Finalmente l'Aubigny abbassò lo sguardo sulla Contessa, perdendo per un attimo il tempo nel danzare.

“O, scusatemi, forse non dovrei ricordarvi certe cose? Da che lato della Manica siete nato, mio signore?” domandò Caterina, fingendosi sinceramente dispiaciuta per quel finto scivolone.

L'Aubigny tornò a guardare il panorama, dicendo solo: “Sono francese, nient'altro.”

La musica si avvicinava alla fine e la Contessa era riuscita a non lasciarsi trascinare dalla rabbia, evitando accuratamente di citare Mordano. Voleva dare a quell'uomo l'impressione di essere del tutto padrona della situazione e priva di quell'animosità che avrebbe potuto minare la sua alleanza con re Carlo VIII.

Sulle ultime note della ballata, l'Aubigny parlò di nuovo, con un tono molto più leggero, per quanto la grevità della sua voce fosse sempre la sua caratteristica più spiccata: “Prima di raggiungere la rocca mi sono permesso di passare dal postribolo e ho pagato per alcune donne.”

Caterina fu a un passo dal dire che non gliene importava di quello che lui o i suoi facevano in privato, quando l'uomo concluse: “Mentre aspettavamo il vostro arrivo ho chiesto al castellano che ci facesse preparare qualche stanza, così se qualcuno dei nostri si annoiasse durante la lunga notte che ci attende, potrà trovare compagnia senza essere disturbato.”

La Contessa, inchinandosi per accompagnare la fine della musica, fece un sorrisetto tirato, accettando quel mezzo smacco. L'Aubigny si era permesso di prendere una decisione simile in casa d'altri probabilmente solo per metterla in difficoltà.

“Ovviamente – proseguì il Duca, mentre i suoi occhi lontani inseguivano il profilo di Ottaviano, che stava vicino al muro a parlottare con Bartolomeo Orcioli – anche vostro figlio potrà beneficiare del nostro dono, se vorrà. E pure il Governatore Generale. Che non facciano complimenti. Se vorrete dirglielo voi stessa...”

Caterina, muovendosi verso il tavolo d'onore per andare a proporre una danza a un altro dei generali, rispose a mezza bocca: “Diteglielo voi stesso, il dono è vostro, non mio.”

L'Aubigny, alzando appena gli angoli della bocca, sospirò: “Come volete voi, Contessa.”

Dopo quel primo ballo, Caterina danzò con Don Giuliano di Ligny, che non fece altro che ripeterle quanto fosse soddisfatto di quel banchetto e lei ricambiò congratulandosi con lui per come fosse riuscito a contenere i suoi soldati, dopo i primi incidenti avvenuti al mercato di Porta Schiavonia.

Venne poi il turno dei signori di Carpi e della Mirandola e poi dei Sanseverino.

Con Giovan Francesco Caterina ebbe molto poco da dire, giacché ogni volta che provava a intavolare un discorso – complice anche la musica movimentata che era capitata loro in sorte a quel giro – l'uomo rispondeva in modo laconico e poi si richiudeva nel suo mutismo.

Fracassa fu un po' più loquace.

“Mio fratello seguirà re Carlo in Toscana.” confermò, le guance appena arrossate dal vino: “Io invece mi dedicherò a cose più delicate, di diplomazia.”

Caterina, incuriosita da quell'affermazione, soprattutto conoscendo il lato più irruento di Gaspare rispetto al fratello, provò a dire: “Pensavo foste voi l'uomo d'azione e vostro fratello quello di concetto.”

Fracassa ridacchiò, zampettando impacciato a destra e sinistra, dimostrando quanto fosse poco avvezzo al ballo: “Forse è così, ma io e mio fratello abbiamo avuto divergenze d'opinioni e lui sembra più incline di me a seguire i metodi dei francesi.”

“Capisco.” disse piano Caterina, ripensando a quello che le era stato detto sulla riconquista di Cesena: Fracassa aveva fatto quello che doveva, mentre Giovan Francesco, in un certo senso, aveva fatto la volpe, come spesso avevano fatto in passato i francesi.

Quando fu il turno del Marchese di Mantova, Caterina si permise di rilassarsi appena un po' di più.

“Volevo farvi le condoglianze per vostro fratello – disse Francesco Gonzaga, la cui figura tozza non aveva la minima grazia, malgrado l'abito elegante che aveva indossato quella sera proprio per apparire un po' meno brutto – anche da parte di mia moglie.”

La Contessa ringraziò, ricordando però anche come Isabella Este fosse la sorella della moglie del Moro, quindi forse non proprio così addolorata per la dipartita dell'unico ostacolo effettivo per Ludovico.

“Isabella – riprese Francesco, come a leggere nella mente di Caterina – ha fatto visita a sua cugina, non appena l'ha saputa vedova.”

Ogni volta che nominava sua moglie, il Marchese di Mantova si illuminava. Non ci voleva un falco per capire quanto tenesse a lei e, da quello che si diceva, anche la Marchesa adorava il marito, perdonandone ogni tradimento e ogni intemperanza.

Per quanto tutti lo definissero sempre rozzo e ignorante, la Contessa ne apprezzava il modo diretto di parlare. Aveva il tratto classico del soldato di ventura, poco avvezzo alle corti, benché fosse egli stesso un nobile. Quel suo modo di starsene un po' curvo, quando era in abiti civili, e il suo evidente tentativo di apparire meno sgrezzo di quanto non fosse piacevano a Caterina. Poteva capire come Isabella Este, raffinata donna di cultura e di fine intelletto, avesse comunque trovato in Francesco Gonzaga un uomo da amare, malgrado tutti i suoi risaputi difetti.

Caterina sospirò: “Per mia cognata non deve essere facile. Aspetta anche un figlio che dovrebbe nascere a breve.”

“L'anno entrante, a quanto ho capito.” confermò il Gonzaga, gonfiando un po' le guance: “Per fortuna il Duca di Milano le ha ridato il suo primogenito. Una donna sola come lei senza il suo più importante virgulto sarebbe stata doppiamente sola.”

Caterina apprese con gioia quella notizia che non era ancora arrivata fino a Forlì e si chiese chi tra il Moro e la moglie Beatrice avesse avuto l'idea di restituire Francesco a sua madre.

“Mia madre Bona di Savoia starà loro vicina – disse la Contessa, come a rassicurare il Marchese di Mantova, che si era parecchio rabbuiato a parlare di quelle cose – e vedrete che col tempo anche il dolore per la morte di mio fratello si attenuerà, come una ferita la cui cicatrice si fa meno evidente, man mano che gli anni passano.”

La sala era una girandola di colori, in quel momento e le risate si inseguivano sospinte dalle note dolci che scaturivano dagli strumenti dei musici.

Caterina intravide Ottaviano, che, come sempre, non prendeva parte alle danze, standosene appoggiato alla parete, a parlottare con qualche nobile, il volto scuro e le sopracciglia aggrottate. Anche Cesare si era per il momento tenuto fuori dalla confusione, la sua tonsura ben visibile, ma il suo viso era nettamente più rilassato rispetto a quello del fratello. Bianca, invece, al contrario di come faceva di solito, non aveva ancora preso parte alle danze e se ne stava con sua zia seduta ancora al tavolo d'onore, chiacchierando fittamente. Caterina immaginò che in quella condotta avesse un peso notevole il loro scambio di battute di pochi giorni addietro, ma sperò comunque che sua figlia avrebbe ritrovato un po' di brio ai primi balli di gruppo.

Tommaso stava parlando attentamente con l'Aubigny e coi Sanseverino e la Contessa si fece appunto mentale di chiedergli cosa si stessero dicendo, al primo momento di pausa. Dopo quella ballata, dopo essersi congedata dal Marchese, avrebbe fatto un cenno al Governatore e sarebbero andati un attimo nelle sue stanze ad aggiornarsi.

Nemmeno Giacomo ballava, saldo al suo posto, gli occhi fissi sulla moglie. La Contessa aveva notato solo in quel momento il suo sguardo torvo e da quell'istante in poi si sentì come messa a nudo.

Francesco Gonzaga fece un ossequioso inchino alla Contessa, mentre un ultimo virtuosismo del liuto spegneva la musica.

Caterina lo ringraziò e lasciò il centro della sala, mentre finalmente i ballerini si disponevano in doppia fila per dare il via al primo sfrenato girotondo.

“Perché non ti unisci a loro?” fece la Contessa, una volta che fu a tiro d'orecchio della figlia.

Bianca le sorrise, incerta, ma la madre non fece in tempo a ripetere il suo invito che la ragazzina lasciò il suo posto e raggiunse gli altri giovani scesi in pista.

Caterina allora fece un cenno a Tommaso, che nel frattempo aveva chiuso il suo colloquio coi generali francesi e tanto bastò al Governatore per capire che doveva seguirla per ragguagliarla.

“Torno subito.” disse in fretta alla moglie, che, privata anche della compagnia della nipote, si trovò seduta al tavolo d'onore da sola con Giacomo Feo – che occhieggiava con insofferenza in direzione di Caterina che si stava avviando alla porta assieme a Tommaso – e Luffo Numai, che sorrideva beato, un calice di vino tra le mani secche e gli occhi un po' acquosi per via del bere e del mangiare.

 

Tommaso e Caterina andarono di tacito accordo verso lo studiolo del castellano. Mentre attraversavano le viscere della rocca si imbatterono in Don Domenico che, assieme a una delle donne pagate dall'Aubigny, stava raggiungendo una delle alcove concesse da Cesare Feo. La Contessa non commentò quella scena e non lo fece nemmeno il Governatore.

Una volta soli, chiusa la porta alle loro spalle a due mandate, Caterina accese qualche candela e si rammaricò di non aver chiesto ai servi di tenere acceso il camino anche in quella camera.

Quando parlò, dalle sue labbra uscì una nuvoletta di condensa: “Di cosa stavate parlando?”

Senza che ci fosse bisogno di specificare i soggetti, il Governatore rispose: “I francesi hanno avanzato proposte per consolidare la nostra alleanza. Vogliono avere una strada sicura, in caso di ritirata o comunque per quando ritireranno le truppe alla fine della campagna.”

“E hanno preferito parlare con voi.” notò la Contessa, ripensando a come l'Aubigny paresse infastidito all'idea che il governo di Imola e Forlì fosse di fatto in mano a una donna.

“Forse sarebbe stato più logico per loro parlare con mio fratello, che è Vicesignore di queste terre – disse Tommaso, strofinandosi le mani per combattere il freddo – ma siccome le proposte lo coinvolgono direttamente, forse hanno prima voluto sondare il terreno con me.”

A quella rivelazione l'attenzione di Caterina si acuì. La donna si mise a sedere alla scrivania e, giungendo le mani in grembo, fissò Tommaso in attesa di maggiori spiegazioni.

“A quanto pare re Carlo ha capito che siete più sensibile ai favori fatti a Giacomo che non a quelli fatti a voi personalmente.” spiegò il Governatore, a cui costava parecchio dire una cosa del genere, trovandosi in accordo coi pensieri del re francese: “E così ha pensato di avanzare due diverse proposte, in attesa che voi scegliate tra una delle due.”

La Contessa si passò la punta delle dita sulla fronte. Aveva cercato di bere con moderazione per restare il più possibile lucida e non aveva nemmeno mangiato troppo, tuttavia cominciava a sentirsi appesantita e un discorso del genere le stava rendendo la cena indigesta.

“La prima proposta è quella di dare una condotta dal compenso davvero molto generoso a Giacomo, che dovrebbe in tal caso seguire i francesi in Toscana e comandare una frangia dell'artiglieria durante l'assedio di Roma e poi di Napoli.” disse Tommaso, tutto d'un fiato.

Caterina si trattenne dallo scattare in piedi e gridare la sua contrarietà a una simile prospettiva, ma non riuscì a evitare alle proprie guance di perdere in un lampo tutto il loro colore.

Tommaso, in modo irrazionale, ma irrefrenabile, fu addolorato da quella visione, perché in cuor suo avrebbe voluto poter allontanare suo fratello, anche solo per qualche mese, e poter dimostrare alla sua signora una volta di più quanto fosse migliore di lui sotto ogni aspetto.

“La seconda, invece, starebbe nel concedere a Giacomo il titolo di Barone di Francia. Si tratterebbe di un vantaggio economico decisamente inferiore, e anche politicamente sarebbe meno incisivo, come favore, ma in tal caso mio fratello non dovrebbe fare nulla di particolare, non avrebbe obblighi.” concluse il Governatore, a voce più bassa.

“E voi che avete detto all'Aubigny?” chiese Caterina, di colpo preoccupata.

Se Tommaso avesse anticipato ai francesi la sua propensione per la prima ipotesi, visto come l'Aubigny ragionava, per lei sarebbe stato complicato tornare indietro e ritrattare.

Se da un lato una baronia era poca cosa, una condotta offerta dalla fazione data per vincente avrebbe permesso loro di sedere al tavolo della pace, non solo da alleati, ma da vincitori e reclamare la propria parte, per quanto modesta. Però Caterina non avrebbe sopportato l'idea di separarsi da Giacomo, tanto meno di mandarlo in guerra. Impreparato com'era, sarebbe morto al primo colpo di cannone.

“Ho detto che probabilmente avremmo accettato il titolo di Barone per Giacomo, rifiutando l'offerta di una condotta per non approfittare troppo della generosità di re Carlo.” rispose mesto Tommaso.

Caterina lasciò la scrivania e si avvicinò al suo Governatore. Era colpita da come il cognato avesse rigirato la frittata a loro vantaggio e anche dalla scelta fatta, che ne denunciava tutta la sua attenzione nei suoi confronti. Non era stata una soluzione dettata dalla ragion di Stato, ma dal semplice affetto.

“Grazie.” gli disse solamente, stringendogli appena una spalla.

Dopo una leggerissima esitazione, la donna l'abbracciò con calore.

Se Caterina ci mise solo la sua più sincera riconoscenza, Tommaso ricambiò con il tormento che portava dentro di sé e quando si allontanarono l'uno dall'altra, il Governatore di Forlì ebbe una sola richiesta da fare: “Quando i francesi se ne saranno andati e la situazione si sarà calmata – disse, appena prima che la Contessa proponesse di tornare nel salone – vorrei poter tornare a ricoprire la mia carica a Imola.”

La cognata non ebbe bisogno di chiedergli spiegazioni e così concordò: “Quando saremo più tranquilli, potrete andare.”

 

 
   
 
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