Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ellery    14/12/2016    0 recensioni
Alla Festa d’Inverno mancavano soltanto ventiquattro giorni e lui non aveva preparato nemmeno un regalo. Era usanza che ci si scambiasse doni, durante il pranzo, per testimoniare l’affetto alle persone più care. L’anno scorso, aveva cucinato dei biscotti per tutti, racchiudendoli in graziosi sacchettini di raso rosso. Quest’anno, tuttavia, era a corto di idee
Ff scritta per la Challenge Natalizia indetta dal gruppo "Il Giardino di efp". Come un calendario dell'avvento, per ogni giorno ci sarà un prompt da scoprire (spero di riuscire a farli tutti, anche se sicuramente finirò in ritardo) PROMPT: Maglione.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Erwin Smith, Hanji Zoe, Levi Ackerman, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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13/12 - Casa


Erwin rialzò il capo, osservando le case circostanti. Come era finito in quel quartiere?
Era uscito per comprare alcuni regali, ma nel gironzolare si era perso nei propri pensieri. Senza badare alle viuzze, aveva camminato per tutto il pomeriggio, realizzando troppo tardi d'essere finito fuori strada.

La neve aveva ricominciato a scendere, mentre il chiarore della sera iniziava a mescolarsi al buio.
Si strinse nel mantello, sforzandosi di non badare al calare precipitoso della temperatura. La divisa non offriva molto riparo dal freddo, nemmeno se completata dalla cappa imbottita e da una sobria sciarpa nera.

Accelerò il passo, tornando a controllare le vie. Conosceva quel posto e sapeva, naturalmente, come tornare alla caserma, ma le sue gambe non desideravano riportarlo indietro. Da un lato, la testa continuava a suggerirgli di rientrare, prima che calasse definitivamente la notte. Dall'altro, un ricordo lontano lo spingeva a proseguire, obbligandolo a camminare lungo il fondo lastricato di ghiaccio e pietre chiare.
Ben presto, le abitazioni si fecero più basse e compatte: costruzioni di un solo piano, arroccate l'una accanto all'altra, senza neppure un fazzoletto di giardino. Via via che ci si avvicinava al muro, gli edifici si stringevano l'uno all'altro ed anche i cortili di terra battuta diventavano una rarità.

Quella zona non era cambiata per niente. Profumava ancora di noci tostate, ma gli ambulanti che le vendevano si erano sicuramente ridotti. Si fermò ad un banchetto, ordinandone un sacchettino: lo avrebbe portato a Levi; senza dubbio, avrebbe apprezzato.
Le case erano dipinte con colori pastello: il giallo prevaleva, ma qui e là spuntavano alcune tonalità di rosa e verde pallido; i tetti possedevano vecchie tegole, ora coperte da un sottile strato di neve fresca. Quasi tutte le imposte erano chiuse, ma da alcune trapelava la pallida luce dei candelabri a muro e dei camini accesi.

Proseguì oltre un crocevia, contando silenziosamente i passi. A destra, la strada scendeva con delicatezza sino ad una piccola villa: le finestre di casa Dok erano aperte, segno che i proprietari non erano si erano ancora rifugiati nelle stanze da letto. Sarebbe passato più tardi a porgere i propri saluti.

Continuò a camminare, senza smettere di guardarsi attorno: quasi tutti i negozi erano ormai chiusi; riconobbe la drogheria della signora Peacock, la sartoria ed il fabbro. Il panettiere era stato sostituito con una falegnameria ancora aperta.
Poco oltre, la strada si apriva in una minuta piazza e poi si rituffava negli stretti vicoli. Imboccò quello a sinistra, osservando i numeri civici.

Scivolò silenziosamente sino al tredici, perdendo qualche attimo ad osservare la facciata della casa. I mattoni erano rimasti in bella vista, mentre l'unico balconcino, un tempo malmesso, era stato ristrutturato. Alcune ghirlande di lauro scendevano lungo le grondaie, accompagnate da nastri rossi e da palline di legno decorato. Sull'uscio era appesa una corona di agrifoglio, intrecciata a fili dorati.
Erwin si accostò alla finestra illuminata, ponendo le mani a coppa per poter spiare oltre il riflesso del vetro; la stanza era esattamente come la ricordava: un camino di pietra scura faceva da sfondo ad una sala dai toni sobri. Una lunga credenza giaceva a ridosso della parete di destra, di fronte ad un tavolo accompagnato da sei seggiole. Accanto all'ingresso, una libreria ricolma di soprammobili e libri per bambini. La tavola era apparecchiata con quattro posti e una zuppiera fumante stanziava al centro, su un centrino ricamato.
Notò una figura entrare nel soggiorno, seguita da una coppia di marmocchi urlanti. La bambina non poteva avere più di dieci anni; stringeva a sé una bambola dalle ciocche dorate, riparandola dalle mani del fratellino troppo chiassoso. La donna stava, invece, servendo la cena: disponeva con attenzione la minestra nelle scodelle, ben attenta a non rovesciarle. Accanto a ciascun piatto, lasciava un tozzo di pane ed un bicchiere d'acqua fresca. Possedeva un volto gradevole e morbido, accompagnato da capelli scuri quanto il sobrio abito che indossava. Gli occhi chiari erano solcati da una lieve ragnatela di rughe, evidente ogni volta che le labbra si piegavano.
Assomigliava a sua madre, in qualche modo: non possedeva ricordi che non fossero vecchi ritratti. Non l'aveva mai conosciuta, ma rammentava il modo aggraziato con cui sorrideva nei disegni; le acconciature eleganti e quell'aria aristocratica che non l'aveva mai abbandonata, neppure quando aveva scelto di sposare un semplice insegnante.
Un uomo si aggiunse alla scena, oltrepassando in fretta l'uscio per raggiungere la moglie. La strinse in un caldo abbraccio, baciandola lentamente e poi donando una carezza ai figli. Era strano vedere tutte quelle persone nella propria casa, almeno dal suo punto di vista: non aveva mai avuto fratelli, né sorelle. Era sempre vissuto con suo padre, in quelle stanze troppo grandi per due sole persone; era come se, finalmente, anche l'abitazione avesse trovato una vera famiglia da ospitare: con una donna capace di occuparsi di lei, con lo sgambettare di bambini allegri lungo i pavimenti di legno lucido, con un marito affettuoso pronto a rincasare ogni sera per godersi il suo tepore. Non vi erano più i libri ad ingombrare ogni tavolo, ma solo dei sobri centrini e vasi di fiori. Dei quadri adornavano le pareti, un tempo spoglie, mentre il fuoco nel camino sembrava addirittura più pimpante. Era piacevole vederla così, immersa in una atmosfera che lui non avrebbe mai saputo regalarle.

Abbozzò un sorriso, in cui vi erano una punta di invidia e di sollievo: ammirava quella famiglia, così diversa dalla sua, così… completa! Non mancava nulla a quelle persone: avevano un tetto sopra la testa, delle camere accoglienti, il sostegno l’una dell’altra e persino un grosso gatto nero appollaiato su una poltrona. Cosa altro potevano desiderare?
Fece per scostarsi dalla finestra, abbassando il capo e riprendendo a camminare. Non fece, tuttavia, che un paio di passi.

«Signore!» una voce profonda lo costrinse a voltarsi: sulla soglia era apparso l’uomo. Non era molto alto e un’aureola di capelli brizzolati circondava le tempie, perdendosi nella fronte spaziosa. Possedeva un paio di folti baffi che gli conferivano un’aria austera, smascherata però dalle labbra curvate all’insù e dall’espressione gioviale. Indossava una semplice camicia, un po’ stretta sull’addome pingue, e un paio di semplici pantaloni.

«Sì?»

«Avete bisogno d’aiuto? Vi abbiamo scorto dalla finestra e…»

«Non volevo disturbare, mi dispiace. Stavo solo…» osservando? No, suvvia. Sarebbe apparso come un impiccione o, peggio, un ladro intento a svolgere un incauto sopralluogo. Scosse il capo, limitandosi ad aggiungere «Era casa mia, un tempo. Passavo di qui e mi sono fermato a guardarla. È rimasta come la ricordavo»

«Vivevate qui?»

Mimò un cenno d’assenso:
«Con mio padre. Era un professore» lasciò nuovamente vagare lo sguardo sulle decorazioni «Sono contento che l’abbiate voi: ne avete avuto molta cura. Non l’ho mai vista tanto splendente, ordinata ed apprezzata. Siete la famiglia che aspettava da tempo, senza dubbio.»
«Mia moglie ci tiene molto. La pulisce e la rassetta tutti i giorni, o quasi»

«Andrebbe d’accordo con chi-so-io, allora…»

«Volete entrare? Abbiamo ancora della zuppa»

«Non so se…»

«Insisto! Venite. Una scodella di minestra non si rifiuta a nessuno!»
 

***


Erwin si accomodò, appoggiando il mantello verde sulla spalliera della seggiola.

«Grazie» mormorò, quando la padrona di casa gli servì la zuppa, accompagnandola con una generosa manciata di crostini secchi.
Immerse il cucchiaio nella vellutata, assaporando con soddisfazione il gusto avvolgente delle verdure fresche.

«Vi piace?»

«Molto, signora. Siete un’ottima cuoca»

La donna gli regalò un sorriso e scivolò nuovamente a sedere accanto ai figli, ancora intenti a consumare la cena.

«Come vi chiamate?» il marito riprese a parlare, accendendo una lunga pipa in legno bianco «Appartenete alla Legione Esplorativa? Lo stemma sul vostro mantello…»

«Sì» mimò un cenno affermativo «Mi chiamo Erwin»

«Io sono Martin e questa è mia moglie Lizzy.»

«Anche io voglio entrare nella Legione, quando sarò grande!» il bambino si era avvicinato al suo mantello, accarezzando le ali bianche e blu con le mani sottili «Voglio combattere i giganti.»

«Ne abbiamo già discusso, Nick.» la madre lo prese in braccio, regalando un bacio veloce tra le ciocche castane «Finché giocate agli esploratori va bene, purché rimanga un gioco. Da grande, rileverai la bottega di tuo padre»

«Non voglio fare il vasaio, mamma. Voglio diventare un soldato, come questo signore»

«La vita del soldato è molto dura. Non possono avere giocattoli e nemmeno vivere in casa con i loro genitori»

«Ma io vi verrò sempre a trovare»

«Non si può. Chiedi al signor Erwin, se non mi credi»

Si sentì preso alla sprovvista: comprendeva benissimo i sentimenti della donna. Quale madre, in fondo, consegnerebbe spontaneamente il proprio figlio alla morte? Nessuna. Perché, allora, affidare le vite di quei ragazzi ad uno sconosciuto, che certamente li avrebbe condotti solo alla rovina ed alla distruzione? Non aveva senso. Avrebbe dovuto scoraggiare il bambino? Nick sembrava temerario e desideroso di conoscere la verità, almeno quanto lo era lui alla sua età. Crescendo, sarebbe diventato un ottimo soldato, di larghe vedute e sani principi. Sarebbe stato un peccato perderlo per l’egoismo sciocco di una madre.
Si vergognò subito di quel pensiero: come poteva sopportare una cosa del genere? Chi era per dare dell’egoista ad una mamma preoccupata per la vita del figlio? Lui stesso nascondeva sogni ben più egocentrici ed ambiziosi, dietro la pallida scusa della lotta per la libertà. La bramosia di conoscere, di verificare le teorie di suo padre – elaborate proprio tra quelle mura – non era forse peggiore? Come poteva essere tanto leggero nel giudicare gli altri, quando i propri ideali non erano certo migliori?

«Tua madre ha ragione» disse infine, abbozzando un leggero sorriso «La nostra vita è difficile e piena di pericoli. È più sicuro rimanere dentro alle mura» sussurrò, ignorando quel disappunto aspro che gli rimbalzava nella mente: più sicuro dentro le mura? Che assurdità! Era meglio vivere da prigionieri, piuttosto che rischiare ed assaporare, anche per un solo giorno, la libertà del mondo esterno? No, affatto! Anche se la libertà aveva un alto prezzo: il vento che ti sferza il viso non può essere un regalo. Viene barattato con la paura d’essere divorati; con la disperazione nel vedere i propri compagni calpestati; con il pianto delle notti insonni e le infinite lettere che, ogni volta, si ritrovava a dover scrivere. Erano sempre di più i fantasmi che costellavano i suoi incubi: giorno dopo giorno, le grida dei caduti risuonavano continuamente nel sonno agitato, obbligandolo a bruschi risvegli ed a ore di attesa. Non avrebbe augurato quella vita a nessuno, men che meno ad un bambino che continuava a fissarlo con la speranza dipinta negli occhi.

«Hai sentito?» la voce della madre conteneva una sfumatura sollevata, come se avesse gradito quell’intervento in proprio favore «È troppo pericoloso per un bambino»

«Ma… crescerò! Diventerò grande»

La donna ignorò il figlio per qualche attimo, tornando all’ospite:
«Ho sentito dire che la Legione Esplorativa sia il corpo peggiore. È vero?»

«In che senso?» Erwin aggrottò la fronte, senza comprendere: a cosa si riferiva la signora? Forse, la prospettiva d’essere smembrati dai titani non era delle più rosee, ma perché usare un aggettivo tanto dispregiativo?

«Pare che sia piena di pazzi. Non fraintendetemi, non che voi lo siate, ma… Helga, la mia vicina, mi ha riferito che sono tutti dei fanatici, lì dentro. Tutti con questa mania di andare a distruggere i giganti, come se fossero loro il male peggiore. In fondo, credo che i veri problemi da affrontare siano qui, all’interno delle mura: la criminalità, la povertà, la carenza di generi alimentari. Non pensate che dovrebbero investire maggiormente sullo sviluppo di ciò che già possediamo, invece che cercare risorse nel mondo esterno?»

«Beh, la carestia si è aggravata dopo la caduta del Wall Maria. Credo non vi sia nulla di male nel cercare di riconquistarlo; di riprenderci ciò che è nostro»

«Avete ragione, ma sono sicura che se spendessimo meno denaro per finanziare le spedizioni, avremmo maggiori possibilità di far crescere l’economia e il commercio.»

«Forse avete ragione, ma… davvero desiderate rimanere chiusi tra queste mura per sempre?»

«Fino ad ora, ce la siamo cavata. Potremo farlo anche in futuro»

«Non sono così ottimista» scosse il capo, tornando ad assaggiare la zuppa che, nel frattempo, si era quasi raffreddata.

«Spero di non avervi offeso con questi discorsi, signor Erwin»

«Niente affatto. Al contrario, sono un interessante punto di vista» mentì, sfoggiando un sorriso rassicurante. Non era interessante, anzi… era solo avvilente e demoralizzante: dopo tutto, aveva sprecato le vite dei propri uomini e compagni non soltanto per il proprio egoismo, ma anche per appagare la stupidità degli abitanti dei distretti. Finse di concentrarsi sulla minestra, ma colse la donna attaccare nuovamente:

«Pare che il loro comandante sia uno squilibrato»

Rialzò immediatamente il capo a quelle parole, senza nascondere un’espressione sbigottita:
«Perché?» si sforzò di mantenere un tono neutro, quasi disinteressato.

«Dicono che sia spietato, senza un briciolo di umanità»

«Lo conoscete di persona?»

«No» la risposta negativa non lo sorprese, ovviamente «Ma un uomo che manda a morire i propri soldati senza un briciolo di rimorso, non può essere altro»

«Come fate a sapere che non ha rimpianti?»

«Se li avesse, non proseguirebbe le esplorazioni con tanto accanimento»

«Magari è una brava persona» fu un blando tentativo di salvarsi.

La donna stava scuotendo nuovamente il capo, come se non fosse affatto convinta:
«Non lo conoscete, signor Erwin? Eppure servite nella Legione»

«Di vista. Non ci ho mai parlato direttamente» mentì con disinvoltura, alzando brevemente le spalle «Sono soltanto un semplice soldato e mi limito ad obbedire»

Aveva sbagliato a tornare in quella casa: il desiderio di rivederla si era trasformato troppo presto in un assurdo incubo, dove il disprezzo si confondeva alle premure degli abitanti. Si era illuso di ritrovarla accogliente, pronta ad abbracciarlo come un figlio smarrito per troppo tempo; invece, persino le pareti in pietra sembravano deriderlo e disdegnarlo. Doveva andarsene e tornare immediatamente in caserma: al suo posto, tra i suoi soldati; tra quei visi che ancora gli sorridevano e quelle mani che, posate sul cuore, giuravano fedeltà alla libertà. Lì, forse, sarebbe stato a casa.

Fece per alzarsi, ma le dita minute del bambino si chiusero sul suo polso:
«Io voglio combattere con voi» si sentì ripetere.

«Non ti preoccupare: quando sarai grande, non esisteranno più i giganti. Li sconfiggeremo prima ed abbatteremo le mura. Potrai vedere il mondo esterno ogni volta che lo vorrai» allungò una mano, arruffando i capelli del bambino e strappandogli una leggera risata «Se desidererai diventare comunque un soldato, potrai arruolarti nella Polizia Militare. È un corpo molto prestigioso ed ha il grande onore di difendere il re»

«Francis dice che non posso entrare nella Polizia. Dice che siamo troppo poveri per potercelo permettere»

«Francis?»

«Il mio migliore amico»

«Beh, si sbaglia! Non è una questione di soldi, quanto più di bravura: solo i più meritevoli possono entrare nella Gendarmeria. Il comandante della Polizia abitava in fondo a questa via, lo sapevi?»

Lo vide scuotere il capo e sorridere nuovamente, come se quella confessione avesse risvegliato un moto d’orgoglio improvviso e la speranza di potersi riscattare da un futuro già deciso.

«Posso provarla?» si sentì tirare una manica della giacchetta.

Annuì, sfilandosela prontamente:
«Ti andrà grande»

La casacca era decisamente enorme per il corpo esile del bambino. Le maniche scendevano sin quasi alle ginocchia, mentre il bavero ricadeva inerte sul petto magro.

«È morbida» fu l’unico commento che ricevette.

«Puoi tenerla, se ti piace. Ne prenderò un’altra»

«Desiderate assaggiare il dolce, signor Erwin? È pane con nocciole ed uvette» la padrona di casa si intromise nuovamente e, senza attendere risposta, gliene servì un paio di fette.

«Potete togliermi una curiosità?» domandò, infine, sbocconcellando la pagnotta «Voi mi ritenete un poco di buono, quindi?»

«Assolutamente no. Si vede che siete una persona con la testa sulle spalle. Non condivido l’idea di arruolarsi in un corpo tanto pericoloso, tutto qui.»

Un bussare sordo interruppe la conversazione. L’uomo si alzò, andando a schiudere l’uscio; poco dopo, rientrò nella stanza, accompagnato da una figura bassa e perennemente imbronciata, che Erwin non tardò a riconoscere:
«Levi?»

«È tutto pomeriggio che ti cerchiamo, lo sai?»

«Perché?»

Il capitano mimò un’espressione incredula:
«Hai detto che uscivi un’oretta e sei sparito nel nulla! Ti abbiamo cercato per tutto il distretto. Mike mi ha suggerito di guardare qui e aveva ragione.» indicò una finestra «Ti ho scorto dai vetri. Noi in giro disperati a cercarti e tu fermo qui a mangiare dolcetti» allungò una mano, servendosi da solo di una fetta di pane e noci «Mh, buono. Comunque…» riprese, dopo aver sgranocchiato qualche boccone «Ci siamo preoccupati»

«Sono grande, Levi. So badare a me stesso»

«No, non è vero!»

«Quale ridicola idea ti è venuta, questa volta?»

Erwin lo scorse aggrottare la fronte e tornare a biascicare:
«Pensavo ti avessero sequestrato»

«Che idiozia. Solo a te poteva venire in mente una cosa del genere» ridacchiò, passandogli un’altra fetta di dolce.

Lo vide masticare e rimuginare qualche attimo, prima di tornare all’attacco:
«A te sembra normale che il comandante della Legione sparisca per ore senza lasciar detto dove si trovi?»

«Comandate?» la voce della donna tornò a pigolare, meno spavalda e sicura «Siete il comandante?»

«Certo che lo è! Chi diamine pensavate fosse?» Levi ed il suo solito tono indisponente. Poco dopo, un indice a picchiettare insistentemente sulla sua spalla «E tu? Perché non glielo hai riferito?»

Sollevò le spalle:
«Non lo ritenevo importante»

«Che? Sei scemo?»

«Non credo che a queste persone interessasse, Levi. Mi avrebbero comunque offerto una scodella di zuppa e del pane alle noci» sorrise, piegando leggermente il capo in direzione della padrona di casa «So a cosa state pensando, signora. Non sono indisposto con voi. A volte, la verità fa un po’ male, ma… passerà, ne sono sicuro»

Lizzy si profuse in un piccolo inchino:
«Sono costernata e non so dirvi quanto mi dispiaccia. Avrei dovuto stare zitta e non permettermi di…»

«…di esprimere un vostro parere? Al contrario, sono lieto lo abbiate fatto»

«Non vi siete offesa, Eccellenza

«No, ma potrei farlo se continuerete ad usare epiteti simili. Francamente, non li sopporto» terminò, tendendo la mano verso la donna «Piuttosto, lasciate che vi ringrazi per la cena.»

La signora, tuttavia, stava armeggiando con un tovagliolo. Poco dopo, gli cacciò tra le dita un piccolo fagotto:
«Prendete! È pane alle noci. Visto che vi è piaciuto, ho pensato di… beh, lasciarvene un po’.»

Accettò quel regalo, mimando un cenno del capo:
«Molto gentile.» strinse la mano che la donna gli stava tendendo, salutando poi il marito ed i due bambini «Credo lo mangeremo sulla via del ritorno»

«O domani per colazione…» Levi era già piantato sull’uscio socchiuso.

Erwin si affrettò a seguirlo, spiando le strade ormai imbiancate di neve. Le luci circostanti si erano già spente. Rimanevano quelle delle lanterne lungo le vie, mentre dagli edifici vicini non si udiva alcun rumore. Tutto era immerso in una quiete profonda, quasi solenne.
Gettò un’ultima occhiata alla casa: le altre stanze erano ancora immerse nel buio, ma riconobbe la cucina alla propria destra e le scale che conducevano al piano superiore. Le rimirò con affetto, immaginando per un attimo di percorrerle, di salire nello stretto corridoio e di ritornare sulla soglia della sua vecchia stanza – probabilmente appartenente a uno dei due bambini. Chissà se era stata tinta di rosa per incontrare i gusti della ragazzina, magari colmata con bambole di pezza e coperte ricamate. Oppure, era rimasta inalterata, ma le mensole ospitavano ora dei modellini in legno e non  più i suoi vecchi libri.

«Andiamo?» Tornò ad abbassare lo sguardo sul viso conosciuto. Levi lo stava fissando con una punta di incertezza: «O vuoi fermarti ancora?»

Scosse il capo, fermandosi un istante sulla soglia dell’abitazione. Concesse un ultimo saluto, agitando la mancina, alla famiglia nuovamente raccolta attorno al tavolo.
Poi, scivolò cautamente oltre la porta:

«No. Torniamo a casa»


 


Angolino: sono in ritardissimo nel postare (questo era il prompt di ieri, sob). Spero di riuscire a recuperare al più presto ^^
Il prompt era:
A Natale tutte le strade conducono a casa (Marjorie Holmes)
Vi ringrazio, come sempre, per aver letto fin qui *_*
Un abbraccio

E'ry
  
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