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Autore: Adeia Di Elferas    15/12/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La Contessa rientrò nel salone dei banchetti prima del Governatore. Gli invitati erano ancora intenti a danzare e a chiacchierare e l'aria era satura dell'odore del cibo, del vino, del camino acceso e di tante persone concentrate assieme in un'unica stanza.

Caterina raggiunse il tavolo d'onore, ben decisa a non unirsi più ai ballerini a meno che non ci fosse stato un motivo più che valido. Andò a mettersi accanto a Luffo Numai, che la accolse con un sorriso benevolo e le versò un po' da bere.

A parte lui, erano rimasti al desco solo il Duca d'Aubigny – che non pareva apprezzare troppo le feste danzanti – e Cesare, che si stava intrattenendo con Alberto Pio.

Per prima cosa, la Contessa volle vedere dove fosse Giacomo, visto che aveva lasciato il suo posto.

Lo trovò in mezzo alla sala, accaldato e ridanciano, splendido nel suo abito blu scuro, mentre saltellava assieme ad altri giovani, seguendo la musica di una complicata danza di gruppo. A volte Caterina si chiedeva come suo marito avesse trovato il modo di imprimersi nella mente tutte quelle figure di danza, dato che solo da quando la conosceva aveva cominciato ad avere libero accesso a quel genere di eventi.

La Contessa cercò, poi, con lo sguardo gli altri due figli, ma trovò solo Bianca, che volteggiava, disinvolta come sempre.

“Dov'è mio figlio Ottaviano?” chiese, rivolgendosi vagamente a Luffo Numai.

L'Aubigny, che era a tiro d'orecchio, rispose al posto del Consigliere: “L'ho visto un po' di tempo fa... Forse ha accettato il mio umile dono.”

Caterina cercò di ignorare il sorriso mellifluo del francese e anche il tono evidentemente provocatorio con cui aveva parlato.

Si limitò a fare un breve gesto con il capo e poi si rivolse di nuovo a Numai, badando a tenere la voce molto più bassa: “Da quanto è uscito?”

Il Consigliere alzò le spalle: “Poco, mia signora... Probabilmente voleva prendere una boccata d'aria...”

La Contessa cercò di restare calma, pensando che in fondo non era l'unico ad aver lasciato momentaneamente la festa. Nemmeno Francesco Gonzaga si vedeva da nessuna parte e lo stesso si poteva dire di Fracassa. L'assenza di Ottaviano, dunque, non avrebbe destato l'attenzione di nessuno in particolare.

 

Tommaso lasciò passare un generoso lasso di tempo, prima di tornare al banchetto. Era stato lui stesso a insistere. Per quanto lui e la Contessa fossero legati da vari impegni politici, era certo che nel vederli rientrare assieme in una sera come quella, in molti avrebbero pensato male.

In più, aveva atteso a rimescolarsi con la folla festante, perché era ancora molto scosso da quello che era accaduto nello studiolo che ormai era di suo zio da tempo.

Non solo aveva avuto il coraggio di chiedere alla sua signora di lasciarlo tornare a Imola, ma lo aveva fatto dopo un abbraccio che lo aveva lasciato senza fiato. Anche se era certo che la Contessa l'avesse stretto a sé solo per ringraziarlo di aver congiurato una partenza di Giacomo, Tommaso non poteva ignorare ciò che lui aveva provato nel sentirla così vicina.

Privarsi della compagnia pressoché costante della Contessa sarebbe stata per lui una tortura, ma sapeva di avere dei dovere nei confronti della donna che aveva sposato e restando a Forlì non avrebbe fatto altro che calpestare il giuramento che aveva fatto a Bianca.

Stringendo un pugno lungo il fianco, Tommaso si fece largo tra i chiacchieroni che affollavano l'ingresso del salone. Sentiva ancora su di sé il calore della sua signora, poteva avvertire le sue braccia attorno alle spalle, il suo respiro sul collo.

Era sicuro che sarebbe esploso, se non avesse trovato un modo di incanalare quel sentimento prepotente in qualcosa che non fosse pura distruzione.

La musica e l'aria chiusa lo stordirono per qualche istante. Gli passò accanto Giovan Francesco Sanseverino, che gli diede una veloce pacca sul braccio, dicendogli qualcosa che Tommaso non comprese, e poi, come d'incanto, vide sua moglie Bianca in mezzo agli altri invitati. Stava ballando, sorrideva, ma non sembrava allegra tanto quanto quelli che la circondavano.

Con il cuore che continuava a battere in modo tanto assordante da impedirgli di sentire altro, il Governatore di Forlì passò in mezzo ai danzatori, senza dar peso a quelli che lo apostrofavano con disdegno perché aveva fatto perdere loro il tempo, e raggiunse Bianca.

La giovane lo guardò un attimo, accigliandosi, ma non mascherando la sua felicità nel vedersi arrivare accanto il marito che, di norma, non ballava mai.

Senza dirle una parola, Tommaso le prese con forza una mano e le fece capire di seguirlo.

Uscirono dal salone e Bianca avrebbe voluto chiedergli che accidenti fosse accaduto, quando il marito, trovando vuota una delle alcove che di solito venivano occupate dalle guardie, la afferrò con forza per le braccia e l'attirò a sé.

Nascosti dal buio dell'insenatura scavata nella parete, Tommaso e Bianca si baciarono con un'intensità che non avevano mai conosciuto e la giovane per qualche istante restò folgorata da quella passione che suo marito stentava, per la prima volta, a trattenere.

Mentre le mani esigenti di Tommaso iniziavano a sollevarle le gonne, a Bianca venne il sospetto che, in qualche modo astruso e incomprensibile, dietro a quell'improvviso slancio del marito ci fosse sua sorella Caterina. Perché ormai sapeva che era così: nel bene e nel male, lei c'entrava sempre con le scelte e le azioni di Tommaso.

Avrebbe anche approfondito la questione, ma quello che il suo uomo le stava concedendo quella sera andava oltre ogni sua previsione e così, lasciandosi alle spalle ogni remora e ogni perplessità, Bianca assecondò la sua furia e pregò che nessuno arrivasse a interromperli.

 

La notte andava spegnendosi e presto Caterina sapeva che avrebbero dovuto prepararsi per accompagnare i francesi a Ladino.

Ottaviano non era ancora ricomparsi, mentre gli altri fuggitivi erano rientrati tutti quanti nel salone, compensando gli ospiti forlivesi più anziani che avevano deciso di ritirarsi prima della fine ufficiale della festa.

Anche Tommaso, che Caterina aveva visto condurre fuori dalla sala Bianca, era ritornato. Il modo in cui lui restava in disparte, accaldato e dall'espressione indecifrabile e il sorriso compiaciuto, abbinato alle guance arrossate della moglie, avevano fatto capire alla Contessa che pure il suo inflessibile Governatore di Forlì si era lasciato contagiare dall'atmosfera di quella notte. E nel loro caso, Caterina non poté che esserne felice.

L'Aubigny non aveva mai lasciato la sua postazione e aveva registrato con i suoi occhi spenti tutto quello che era stato fatto e detto. O almeno, quello che era stato fatto e detto davanti a tutti. Purtroppo nemmeno lui poteva leggere nel pensiero degli altri, per quanto il suo modo supponente di inclinare appena il capo verso destra a volte lo lasciasse intendere.

“Avete danzato con tutti gli uomini importanti, questa notte...” notò l'Aubigny, appena trovò Caterina libera dalle ciance che l'avevano tenuta impegnata fino a poco prima.

La Contessa guardò di sfuggita Bartolomeo Orcioli e Filippo Delle Selle, come a scusarsi e si dedicò al francese: “Credo che sia dovere di una buona padrona di casa.”

“Certo. Però mi chiedevo come mai non avete ballato anche con il vostro Vicesignore.” proseguì l'ospite, occhieggiando in direzione di Giacomo che, all'angolo estremo del tavolone si confrontava animatamente con suo zio Cesare.

Caterina sapeva benissimo di non aver ballato con suo marito, ma provò a dissimulare: “Certo che ho danzato con lui. Non ricordate? Quella musica spagnola di inizio serata...”

“Non mentite.” la voce dell'Aubigny era tanto fredda da risultare quasi metallica: “Voi sapete che non mi inganno. Perché non danzate anche con lui, dunque?”

La Contessa, stanca per quella lunga notte e desiderosa di chiudere il tutto senza il minimo intoppo, si alzò, forse con troppo impeto, e disse: “Avete ragione, sono io che ricordo male. Se permettete.”

Raggiunse il fondo della tavolata e chiese, a voce abbastanza alta da farsi sentire dal francese, con un tono che non ammetteva repliche: “Vorreste concedermi l'onore del prossimo ballo?”

Giacomo alzò lo sguardo su di lei, spalancando le palpebre. Non se l'aspettava. Poi, però, con la coda dell'occhio si accorse di avere le pupille glaciali dell'Aubigny puntate contro la schiena, come punte di due picche e così fece del suo meglio per recitare come si conveniva.

Si scusò con suo zio e poi, con galanteria, si inchinò e concesse: “Come la mia signora comanda.”

Caterina e Giacomo scesero dal rialzo su cui stava il loro tavolo e subito i musici si affrettarono a chiudere l'aria sfrenata che stavano eseguendo per sceglierne una palesemente adatta a un ballo di coppia.

La Contessa e il Governatore Generale, nei primi passi di quel ballo, si sfiorarono appena e fu una vera fortuna, secondo Caterina, che anche i giovani nobili di Forlì si fossero messi a danzare, soggiogati da quella meravigliosa musica dal retrogusto triste.

Giacomo avvertiva tanto quanto la moglie gli occhi malevoli dell'Aubigny ancora fissi su di loro, ma la cosa che più lo prendeva in quei momenti era la tensione che si era creata tra sé e Caterina.

Quando non poterono più limitarsi a leggeri tocchi con i palmi delle mani, entrambi ebbero un fremito. Erano passati molti giorni, dall'ultima volta in cui erano stati tanto vicini. Settimane.

In breve, nessuno dei due si ricordò più dell'Aubigny e di tutti gli altri.

Seguendo le note lunghe e dolenti che i musici facevano fuoriuscire con maestria dai loro strumenti, la Contessa e il Vicesignore delle sue terre si mossero lenti, incapaci di combattere contro quello che era evidente a entrambi. Per quanto potessero essere in collera, delusi o impauriti, c'era una forza misteriosa e invisibile che non li voleva vedere separati.

Quando finalmente la musica si spense, Caterina e Giacomo avevano ancora le mani intrecciate l'uno all'altra.

Non senza fatica, la prima a lasciare la presa fu la Contessa che, senza dire nulla al marito, fece una brevissima riverenza e ritornò al suo scranno, con buona pace dell'Aubigny che, dopo tutto, non era riuscito neppure a prendersi la magra soddisfazione di metterla in imbarazzo per una manciata di minuti.

 

“L'ultimo ballo l'ha dovuto riservare a lui, avete visto?” stava malignando Filippo Delle Selle, scuotendo il capo contrariato.

La sala si stava lentamente svuotando, dopo che la Contessa aveva annunciato che a breve gli ospiti d'onore si sarebbero rimessi in marcia.

Bartolo Marcobelli, suo malgrado, dovette dire all'amico, che stava cercando di restare dritto in piedi, malgrado tutto quello che aveva bevuto fino a quel momento: “A me è parso che non le sia spiaciuto troppo, però...”

Filippo sollevò un sopracciglio e, guardando distrattamente un paio di giovani accompagnate dai rispettivi padri raggiungere l'uscita ancora tutte ridenti, chiuse la faccenda: “Dicono che anche i carcerati alla fine si affezionino ai loro aguzzini.”

Marcobelli gonfiò le gote con impazienza e ribatté secco: “Come dite, amico mio. Io resto poco convinto.” e con ciò raggiunse i suoi parenti e andò al tavolo d'onore a salutare la Contessa prima di ritirarsi.

 

“Tommaso, andate a cercare mio figlio.” disse piano Caterina, accostando il Governatore: “Con discrezione.” aggiunse.

L'uomo annuì e sussurrò qualcosa alla moglie Bianca, che gli era rimasta accanto per tutto il resto della serata.

La sorella della Contessa gli fece un segno di intesa, ma una linea severa sulle labbra – eredità materna comune a Caterina – lasciò intuire quanto fosse dispiaciuta di doversi privare del marito.

“Ah, dimenticavo – soggiunse la Contessa, fermando subito Tommaso, a puro beneficio della sorella minore – dopo che avrete detto a Ottaviano di prepararsi, potrete ritirarvi.”

“Non dobbiamo accompagnare a Ladino i francesi?” chiese il Governatore, interdetto.

“Mio figlio e mio mar... e Giacomo – si corresse in fretta Caterina, benché non ce ne fosse un gran bisogno, dato che il suo interlocutore sapeva benissimo come stavano le cose – basteranno.”

Tommaso la guardò per un lungo istante, forse indeciso se raccomandarle di stare più attenta con le parole, una volta sola coi francesi, ma alla fine fece un saluto militaresco e andò alla porta per portare a termine l'ultimo compito della giornata.

Giacomo era già andato al Paradiso da un po', per cambiarsi d'abito e mettersi qualcosa di adatto a una cavalcata al freddo e al gelo.

Caterina stava aspettando che i maggiorenti di Forlì se ne fossero andati tutti, ma Luffo Numai la invogliò a sbrigarsi: “Congederò io i più ritardatari.” le disse, con un sorriso un po' spento, per via del gran sonno: “Andate a prepararvi, vi prego, non fate attendere i nostri ospiti.”

La Contessa lo ringraziò e si affrettò a raggiungere le sue stanze. I corridoi della rocca, per quanto ancora brulicanti di gente, erano ghiacciati e Caterina avrebbe dato qualunque cosa pur di potersi mettere sotto le coperte, scaldata dal camino acceso e dormire per due giorni di fila.

Quando uscì dalle sue stanze, dopo essere passata sotto le mani leggere e precise della sua cameriera personale, la signora di Imola e Forlì era prontissima per mettersi in sella.

Quando fu quasi al cortile, da dove sarebbe partito il loro corteo, incrociò Tommaso, che la stava cercando: “Ho trovato vostro figlio – le disse – era con...”

“Non mi interessa.” rispose secca Caterina, per poi scegliere un tono più accomodante: “Adesso dov'è?”

“Al cortile, che vi aspetta.” fece l'uomo, guardando il pavimento, visibilmente stanco morto.

Quella cena, anche per Tommaso, era stata un dispendio di energie non indifferente, tanto fisiche, quanto emotive.

“Grazie – lo congedò Caterina – ora andate da Bianca, vi sta aspettando.”

 

Dalle viscere della rocca di Ravaldino, poco prima dell'alba, partì un drappello variegato, composto dai comandanti di Carlo VIII, dalla Contessa Sforza Riario, da suo figlio il Conte Ottaviano, dal Vicesignore delle terre di Sua Signoria e da un discreto numero di soldati forlivesi con indosso le armature più splendenti in loro possesso.

Qualche fiocco di neve cadeva nella luce irreale che precedeva il sorgere del sole e il suono degli zoccoli sulla terra fredda accompagnava i cavalieri come una litania.

La città dormiva, ma in molti si svegliarono per poter vedere dalle finestre quello spettacolo. La Contessa era in testa, fiancheggiata dal Governatore Generale e dal figlio, dietro di lei seguivano i Sanseverino e gli altri francesi, tra cui anche l'Aubigny, di cui tutti i forlivesi avevano sentito dire peste e corna dopo i fatti di Mordano. Lo descrivevano tutti come il demonio, tuttavia, a vederlo così sotto la luce spettrale amplificata dalle nuvole portatrici di neve, il tremendo francese sembrava poco più che un'ombra.

L'aria fredda sul viso stava risvegliando Caterina, che in quella fragranza di notte e silenzio stava rivivendo la quiete intrisa d'attesa che aveva contraddistinto ogni battuta di caccia della sua infanzia, quando usciva con suo padre e gli altri cacciatori nei boschi pavesi.

“Avete fatto una scelta molto accorta – disse Don Giuliano di Ligny, quando furono in strada aperta, facendo accostare il suo cavallo a quello della Contessa – il vostro Vicesignore avrà molte qualità, ma non mi sembra un uomo d'armi.”

Giacomo in quel momento era rimasto indietro, fagocitato da una conversazione con Francesco Gonzaga che aveva inizialmente inquietato molto Caterina. Quando, però, aveva sentito che i due parlavano di quanto fosse buono il cervo arrosto, si era tranquillizzata.

“Infatti, non credo che vi sarebbe stato di grande aiuto, come comandante d'artiglieria.” concordò la donna, cercando di sorridere in modo naturale.

“Se re Carlo non avesse la testa tanto dura – si inserì Gaspare Sanseverino, che aveva spronato il suo destriero per avvicinarsi ai due – l'avremmo convinto a chiedere a voi di seguirci come comandante d'artiglieria.”

Don Giuliano la credette una facezia e scoppiò a ridere, mentre Fracassa guardava di sottecchi Caterina, come a dire che parlava sul serio.

Dopo un paio d'ore, bagnati dalla prima luce del sole, che filtrava a fatica tra le nubi bianche e la neve, che iniziava a farsi più copiosa, i comandanti francesi e il drappello di forlivesi raggiunsero il campo di Ladino.

Ci volle qualche tempo, prima che tutti fossero pronti a partire, ma l'organizzazione dei soldati di Carlo VIII stupì Caterina. Erano stati rapidi e ordinati. A vederli così, le facevano ancor più paura che non a saperli scalmanati e irruenti.

Siccome l'artiglieria non sarebbe ripartita assieme a Giacomo, come invece i francesi si erano aspettati, la Contessa aveva prontamente offerto loro vari capi di bestiame, che stavano arrivando dalle campagne vicine, affinché potessero trasportare rapidamente tutte le armi pesanti senza affaticare troppo i cavalli.

“Questa generosità non andrà dimenticata.” aveva assicurato con un cenno benevolo del capo Antonio Pio, ma Caterina era certa che a quelle parole non sarebbe seguita nessuna ricompensa effettiva.

Poco importava. A lei bastava vederli partire in fretta, vederli abbandonare in toto le sue terre e, possibilmente, non doverseli mai più ritrovare tra i piedi. Qualche vacca da soma valeva ben quella soddisfazione.

Si congedò dai comandanti stranieri uno a uno, così come fecero anche Ottaviano e infine Giacomo, e poi augurò loro ogni bene per il proseguimento della loro campagna.

Di contro i francesi la ringraziarono per l'ospitalità e lodarono la sua corte che, malgrado di piccole dimensioni, non aveva nulla da invidiare ai Ducati e ai Marchesati più importanti d'Italia.

L'unico che ebbe un commento acido da fare fu L'Aubigny, che disse, a denti stretti: “Bell'idea, avete avuto, a farci star svegli tutta notte. Sperate forse di averci storditi tanto da farci cadere da cavallo mentre passiamo le montagne?”

“Ma che soldato siete – lo apostrofò Fracassa, che sembrava rinfrancato dopo quella cavalcata notturna – un vero uomo dorme in sella senza farsi disarcionare nemmeno da un cavallo imbizzarrito!”

L'Aubigny accolse la battuta con una debole alzata di spalle e poi prese a gridare ordini in francese ai suoi soldati.

Ci volle ancora un po', prima di veder ripartire la colonna di soldati d'Oltralpe. Erano molti, ben armati e apparentemente in salute. Un'armata del genere – soprattutto contando che si trattava solo della metà scarsa degli effettivi – avrebbe fatto paura a chiunque. Trovarsela contro avrebbe potuto atterrire anche il più valoroso dei generali.

Caterina cominciava a credere che Ferrandino d'Aragona fosse l'uomo più sfortunato della terra.

 
   
 
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