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Autore: Adeia Di Elferas    18/12/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Non appena seppe del prossimo arrivo della bella Giulia, Alessandro VI parve rinascere sotto gli occhi increduli dei suoi servi.

Scattando in piedi e lasciando la poltrona dove, da quando aveva saputo del rapimento della Farnese, stava a languire quasi tutto il giorno, Rodrigo corse nei suoi alloggi privati e si mise a raspare come un cane da tana nei suoi armadi, alla ricerca degli abiti più adatti per andare incontro alla donna più bella d'Italia.

Mettendo al bando ogni preoccupazione politica e morale, il papa passò l'intero pomeriggio preda di dubbi più adatti a un ragazzino innamorato che non a un pontefice.

Alla fine delle sue tribolazioni, scelse il suo miglior giubbone di velluto nero listato d'oro. Il colore lo snelliva, nascondendo i chili di troppo accumulati da quando sedeva alla Santa Cattedra di Pietro, e le finiture dorate, secondo Rodrigo, mettevano in risalto il colore dei suoi occhi.

Ai piedi calzò stivale valenziani degni di un giovane principe e li accompagnò con una sciarpa spagnola di finissima foggia e con un berretto di velluto.

Rimirandosi allo specchio, Rodrigo aggiunse al quadretto anche la cinta con pugnale e spada. Quel tocco nulla aveva a che fare con l'eventuale necessità di difendersi dai francesi che avrebbero riaccompagnato da lui la bella Giulia. Si trattava solo di una debolezza inconfessabile che tormentava il papa più d'ogni altra cosa.

La Farnese era stata in compagnia di baldi giovani, valorosi militari ed eroici guerrieri. Rodrigo non voleva che la bella Giulia si deprimesse nel trovarlo vecchio, sovrappeso e in abito talare come uno dei tanti pedanti ecclesiastici che vivevano in Vaticano.

L'attesa si stava facendo snervante, man mano che il pomeriggio si scuriva, lasciando il posto alla sera.

Roma era smossa da un lieve venticello freddo e le torce fiammeggiavano irrequiete sopra alle teste delle guardie.

Rodrigo non stava più nella pelle e la paura incontrollabile che qualcosa fosse andato storto lo stava divorando. Seguitava a camminare avanti e indietro, intrattabile e nervosissimo, tanto che più di una volta mandò a quel paese più di un Cardinale che, passando e vedendo il Santo Padre in abiti civili e con il viso contratto dall'ansia, chiedeva innocente che mai fosse accaduto.

A notte fatta, con uno spettrale scalpiccio di zoccoli, quattrocento cavalieri francesi arrivarono fino alle porte di Roma, ad armi deposte, solo per riportare le tre prigioniere al Santo Padre.

Appena arrivò la notizia alla corte del papa, Rodrigo uscì dal suo palazzo con la rapidità di un giovanotto, saltò in sella a uno dei cavalli pronti da ore e, seguito a ruota dalla sua scorta, attraversò la città veloce come un fulmine.

Una volta arrivato alla porta oltre cui attendevano i francesi, Rodrigo smontò di sella quando il cavallo ancora non era fermo e, ignorando in modo quasi offensivo tanto Girolama Farnese, quanto Adriana Mila, si piazzò davanti alla bella Giulia. Provò a parlare, ma la voce gli moriva in gola a ogni tentativo e così lui e la donna non fecero altro che guardarsi e sorridersi per interminabili istanti, mentre i burocrati del papa e il capo di spedizione dei francesi mettevano a posto le questioni più terrene.

Si trovò subito un alloggio presso uno dei palazzi degli Orsini per Adriana Mila e Girolama Farnese, che accettarono di buon grado l'idea di ritirarsi all'istante, saltando perfino la cena. Anche se Yves D'Alégre le aveva trattate alla stregua di regine, la prigionia era stata comunque molto stancante, se non altro a livello emotivo.

La bella Giulia, invece, passò la notte in Vaticano.

 

Saputa della partenza dei francesi dalle terre della Sforza, Ferrandino d'Aragona aveva deciso di provare a sfondare per un'ultima volta il fronte romagnolo per ipotizzare in un secondo momento un accerchiamento alle spalle.

Sfruttando l'effetto sorpresa, spedì subito Ferdinando d'Avalos, Marchese di Pescara, affiancato da Bartolomeo d'Alviano, a Teodorano, dove restava una piccolissima guarnigioni di francesi dipendenti ormai dal Conte Guido Guerra di Cesena.

La città in realtà era quasi del tutto sguarnita e, a parte un piccolo contingente di stanza al castello, non c'erano difese degne di tal nome.

Ferdinando d'Avalos voleva condurre l'assedio in modo tale da andare incontro al minor numero di perdite possibile. Non credeva nella validità di quella mossa, ma il principe di Napoli aveva parlato e nessuno poteva contestarlo. Dopo l'episodio di Mordano, Ferrandino aveva perso il favore di gran parte dei nobili di Napoli, che avevano imputato a lui la brutta piega presa dalla guerra, ma il popolo e, contro ogni previsione, gran parte dell'esercito, lo veneravano ancora come una divinità.

Concentrandosi soprattutto sul castello, Ferdinando e Bartolomeo coordinarono l'azione in modo molto accorto, ma quando capirono che Guido Guerra – che era il vero motivo per cui erano titubanti nell'assediare Teodorano – non sarebbe intervenuto in alcun modo, deciso di dare il colpo di grazia.

Sotto una nevicata stentata, Ferdinando d'Avalos, dopo essere riuscito a forzare finalmente una delle porte della città, fece entrare i suoi cavalieri come un fiume in piena, mentre Bartolomeo d'Alviano condusse la sua fanteria alla presa del castello.

“Forza!” li incitava: “Per re Alfonso!” e a quel grido seguivano le urla di guerra dei suoi soldati.

Bastarono poche scale per riuscire a penetrare nella fortificazione. Bartolomeo, che portava solo mezza armatura e aveva perso l'elmo durante la scalata, arrivò tra i primi in cima alle merlature.

Si fece strada affondando la spada in tutti i nemici che gli si mettevano davanti e cercò di raggiungere il prima possibile il vessillo francese che garriva ben in vista a pochi metri da lui.

La smania di raggiungere il simbolo dei nemici e abbatterlo, gli fece per un momento perdere di vista il pericolo che lo circondava.

Un dolore trafittivo appena sotto alla spalla destra gli tolse il fiato per qualche minuto. Non era la sua prima ferita, ma era stata tanto inattesa da mandarlo nel panico. Come un cane che cerca di guardarsi la coda, Bartolomeo voltava la testa a scatti, scivolando un po' sulla neve mezza sciolta, tentando di vedere che cosa avesse piantato nella schiena.

Tutt'attorno a lui la battaglia stava quasi per spegnersi, con una netta vittoria degli aragonesi, ma Bartolomeo non se ne avvide, tanto era concentrato sul fiato corto e sul sapore metallico che aveva sulla lingua.

Quando vide la coda di una freccia che usciva direttamente dalle sue carni, ebbe l'irrefrenabile istinto di strapparsela via. Non appena provò a toccarla, però, il dolore fu troppo intenso, e svenne.

 

Tommaso Feo raggiunse a passo di marcia il salone, dove la Contessa aveva riunito d'urgenza il Consiglio.

I francesi se n'erano andati da un paio di giorni e già c'era una nuova emergenza a cui far fronte. Se si fosse andati avanti di quel passo, pensava l'uomo, non ci sarebbe mai stato modo per lui e sua moglie di tornarsene in pace a Imola ad amministrare una città a tutti i conti tranquilla e ordinata.

La Contessa salutò con un cenno del capo il Governatore di Forlì, quando lo vide entrare di fretta nella sala e prendere il suo posto al tavolo.

“E quindi è stato già dato ordine di diramare questa direttiva a tutti i contadini.” continuò Caterina, che stava già parlando da alcuni minuti: “Che stiano nei rifugi in cui erano stati invitati a recarsi quando ancora eravamo alleati degli Aragona. I napoletani, ora che hanno preso Teodorano potrebbero mettersi in testa di fare scorrerie anche nelle nostre campagne.”

Accanto alla Contessa era seduto Giacomo, investito in sordina Barone di Francia solo quella mattina, mentre Ottaviano si era sistemato, come ormai sua consuetudine, dal lato diametralmente opposto a quello della madre.

Tommaso, che conosceva bene entrambi, aveva capito a un primo sguardo, il giorno dopo la partenza dei francesi, che suo fratello e la moglie avevano ritrovato la loro vecchia intesa, anche se non era riuscito a capire come avessero potuto recuperarla in modo tanto repentino. Fino al giorno prima la tensione tra i due era palpabile, mentre ora stavano uno accanto all'altra con una rilassatezza che non apparteneva loro da parecchio tempo.

Mentre ancora ragionava su queste cose, Tommaso sentì Luffo Numai aggiornare il Consiglio leggendo un messaggio appena arrivato: “Pare che Bartolomeo d'Alviano sia rimasto ferito, ma che non sia grave.”

“Peccato.” commentò a mezza bocca Caterina, che avrebbe preferito sapere i napoletani privati di un comandante abile come lui.

“Hanno spostato parte dell'esercito a Teodorano.” concluse Numai, chiudendo la lettera.

La Contessa sospirò e lanciò un'occhiata a Ottaviano che, però, come unica risposta mosse appena le labbra verso il basso, quasi a dire che quelle cose a loro non importavano. Poi guardò anche Giacomo, ma quello che lesse sul suo volto fu solo preoccupazione e nessuna idea.

Tommaso avrebbe voluto proporre qualcosa, ma Caterina parlò prima che lui potesse formulare qualche idea concreta: “Mandiamo i nostri soldati a Forlimpopoli, a scopo preventivo. Se mai i napoletani volessero vendicarsi di noi per aver cambiato alleati, probabilmente ci attaccherebbero lì.”

“Il nostro esercito, anche se schierato per intero, non potrebbe contenere i napoletani per sempre.” fece notare Filippo Delle Selle, con cautela.

Molti Consiglieri gli diedero ragione, preoccupati soprattutto all'idea di venir coinvolti in prima linea in quella che sarebbe stata una mossa suicida.

“Infatti. Servirebbe solo per temporeggiare in attesa di un aiuto francese.” commentò il Governatore di Forlì, che cominciava a capire il gioco della Contessa.

Caterina annuì: “Esatto. Anche se spero che i napoletani non ci attacchino, è l'unica cosa che possiamo fare per evitare di trovarceli in casa prima di aver anche solo avvertito re Carlo.”

Un'aria di gelida incertezza aleggiò per il Consiglio e solo Luffo Numai ebbe lo spirito di chiedere: “Chi volete mandare come comandante?”

La Contessa ci pensò un momento. Ci voleva qualcuno dalla mente lucida, capace di non lasciarsi prendere dalla paura, né dalla frenesia della battaglia. Da Forlimpopoli non avrebbe dovuto partire nessuna offensiva. Ci voleva qualcuno abile nel contenimento e nella diplomazia.

“Antonio Orcioli.” concluse: “Manderemo lui.” poi guardò Bartolomeo Orcioli, che sedeva in Consiglio e gli chiese: “Potreste farlo chiamare immediatamente? Vorrei discutere con lui il da farsi.”

Bartolomeo, deglutendo a stento, si alzò e fece un inchino: “La vostra fiducia onora me e tutta la mia famiglia.” disse, ma dentro di sé l'unica cosa che provava non era orgoglio, ma paura.

 

Il palazzo del Doge odorava di spezie e candele spente da poco. I drappeggi alle finestre coprivano a mala pena il sole appena sorto.

Paolo Orsini scostò con due dita una tenda e guardò l'acqua che circondava quell'edificio, così come circondava il resto della città. Gli sembrava fuori da ogni logica che potesse esistere sulla terra un posto tanto strano. Venezia galleggiava sul mare, per come la vedeva lui e questo bastava a renderla una città stregata.

Il rumore di qualche passo che si avvicinava alla porta fece scattare sull'attenti Paolo, che stava aspettando con rispettosa impazienza la fine del colloquio tra il Doge e i fratelli Medici.

Vide la maniglia cominciare ad abbassarsi, ma subito tornare nella posizione di partenza e così si rassegnò a tornare sul divanetto ottomano su cui aveva cercato requie poco prima.

Aveva intercettato Piero Medici poco fuori Firenze, il giorno della sua fuga e lo aveva scortato coi suoi cinquecento cavalieri attraverso tutto il Mugello. Quando poi erano stati raggiunti anche da uno dei fratelli minori del Fatuo, Giuliano, era stato lo stesso Orsini a proporre loro di andarsene dalla Toscana.

L'esilio a cui era stato condannato il capofamiglia sarebbe potuto ricadere presto su tutti i suoi consanguinei – eccezion fatta, ovviamente, per i Popolani – e con l'arrivo dei francesi la loro situazione non sarebbe migliorata, malgrado Piero sembrasse sperare sinceramente nell'appoggio di Carlo VIII.

Non appena avevano deciso di ritirarsi verso Bologna, i contadini del Mugello avevano assaltato la loro colonna di soldati e Paolo Orsini aveva visto la sua piccola armata disgregarsi con una semplicità disarmante.

Così erano scappati a gambe levate verso Bologna, che non li aveva voluti, e avevano finito per cercare protezione a Venezia, per quanto fosse una potenza dichiaratamente antifrancese.

La maniglia tornò ad abbassarsi, questa volta con più decisione e così Paolo Orsini fece un respiro profondo e si rimise in piedi, con un cigolio sinistro delle zampe dell'ottomana.

Agostino Barbarigo, il Doge, fu il primo a uscire dalla saletta, una mano sulla lunga barba bianca e le palpebre socchiuse, mentre borbottava tra sé qualche parola in veneto.

Seguivano subito dopo i due Medici, Giuliano apparentemente ammutolito, Piero più fiducioso, ma comunque molto agitato.

“Comunque sia – disse alla fine Barbarigo, sforzandosi di moderare il suo fortissimo accento – vi presenterete domani al mio cospetto per confermare la vostra presenza.”

“Dunque possiamo restare?” chiese Giuliano Medici, con un filo di voce.

Il Doge si tormentò ancora per qualche istante il barbone candido e concluse: “Scriverò a Firenze, per essere messo a parte dei precisi termini del vostro esilio, ma fino a che non ci saranno novità, sarete ospiti di Venezia.”

 

Caterina spiegò la mappa della penisola italiana sulla scrivania e continuò a guardarla per parecchio tempo. Giacomo, nel frattempo, cercava di scaldarsi le mani tendendole verso il camino acceso.

Stava per scendere la sera e Antonio Orcioli aveva appena fatto sapere di essere arrivato a Forlimpopoli tutto intero e di aver cominciato a ricollocare i soldati in parte in città e in parte alle rocca. Piero Landriani, il castellano, aveva aggiunto una postilla in cui pregava la sorella di fargli avere al più presto dettami precisi su come organizzare i suoi, in modo da poter essere il più possibile d'aiuto.

Facendo sobbalzare il marito, la Contessa diede un improvviso pugno al tavolo, facendo cadere i segnalini che aveva posizionato sulla cartina in modo da avere più chiara la situazione.

“Non ha senso!” esclamò, rimettendo le miniature al loro posto e allargando le braccia: “Credevo che una volta saputi i francesi in Toscana, i napoletani sarebbero corsi a difendere il loro Stato! La logica diceva che si sarebbero ritirati! Che senso ha per loro continuare a salire verso nord, se intanto i loro nemici vanno verso sud?!”

Giacomo, che non si era posto domande del genere, sollevò le sopracciglia, alla ricerca di una frase di comodo che potesse placare un po' la moglie, ma non trovò nulla di convincente.

“Se anche si prendessero la Romagna – ragionò Caterina, allungando le dita verso la scritta 'Forlì' che capeggiava nel centro della mappa – che se ne farebbero, se nel frattempo Carlo avesse preso Napoli?”

Per puro onor di bandiera, Giacomo si avvicinò alla scrivania e diede un'occhiata alla situazione dell'Italia. Vedeva gli stemmi delle famiglie coinvolte in quella guerra, ma ne conosceva sì e no la metà. Quando la moglie gli aveva detto di impararseli, lui aveva addotto mille scuse e, ora che gli sarebbe servito conoscerli, si rendeva conto di quanto fosse profonda la sua ignoranza anche in quel campo.

“E Roma? Che intenzioni ha il papa? Si fa difendere da Napoli, ma di questo passo verrà conquistato anche il Vaticano...” la voce di Caterina si stava facendo distante, man mano che la sua mente si impelagava in valutazioni sempre più possibilistiche e astratte: “Ha messo in carcere mio zio Ascanio, questa è una provocazione su cui Milano non può passare sopra come nulla fosse. Il papa non fa altro che parlare, ma di fatto non ha assoldato abbastanza uomini per proteggersi da solo, né sta dando il giusto appoggio agli Aragona. Non posso credere che Rodrigo Borja stia commettendo un errore tanto grave...”

Giacomo aveva finalmente individuato, più o meno, i fronti di guerra e stava cercando di fare due conti circa le possibilità di ambo gli schieramenti, quando sentì Caterina sussurrare: “Dum Romae consolitur, Saguntum expugnatur...”

“Come?” chiese l'uomo.

La Contessa mosse una mano per aria e poi disse, infastidita: “Lascia perdere. Piuttosto... Vai a chiamare una staffetta veloce. Devo mandare una lettera.”

Giacomo incassò di malagrazia il tono autoritario usato da Caterina, tuttavia fece quello che gli era stato chiesto. Non aveva alcuna voglia di cominciare una discussione, rovinando il clima tutto sommato pacifico che si era rinstaurato tra loro.

La donna, nel frattempo, scostò la cartina dalla scrivania, ricavandosi un angolino libero per appoggiarvi un foglio, su cui scrisse: 'Caro cugino, da troppo tempo non vi scrivo'.

Restò un momento con la penna a mezz'aria, ricordandosi di come non avesse informato nemmeno una volta delle sue mosse il Cardinale Raffaele Sansoni Riario, benché al loro ultimo incontro si fossero lasciati con la mutua promessa di tenersi in contatto, così aggiunse, a mo' di scusa: 'cause di forza maggiore mi hanno impedito fino a oggi di tenervi informato, non avendo un canale sicuro che giungesse fino a Roma'.

 

Il castello di Bracciano era freddo come una tomba, mentre un vento gelido spirava dal mare, infrangendosi salmastro contro le alte mura di pietra.

Bartolomea Orsini guardava con espressione truce il messaggero che era appena arrivato dal campo degli aragonesi a Teodorano. Il giovane stava con un ginocchio in terra, una mano premuta sul petto e lo sguardo basso.

“Adesso come sta?” chiese piano la donna, stringendo d'istinto l'elsa della spada che portava al fianco.

“Quando sono partito – rispose il messaggero – era cosciente, anche se ancora molto sofferente.”

Bartolomea si permise di tornare a respirare. Quello che contava era che fosse vivo. Suo marito era un uomo forte e vigoroso. Se era riuscito a superare le prime ore, la ferita non l'avrebbe ucciso più, ne era certa. Era già stato colpito duramente altre volte, il suo corpo ne portava i segni, ma alla fine si era sempre rialzato.

“Va bene.” concluse Bartolomea: “Rialzatevi. Potete andare.”

La staffetta obbedì, ma aggiunse: “Volete che porti un messaggio a Messer d'Alviano?”

La donna boccheggiò un attimo: “Ditegli che...” 'che lo amo', pensò, ma disse: “Che spero possa presto riprendere a combattere.”

Ripetendosi un paio di volte nella mente il messaggio, per essere sicuro di poterlo riferire in modo preciso, il giovane fece un inchino e lasciò il salone delle udienze.

“Tu!” sbottò Bartolomea, i cui occhi non riusciva a nascondere un velo impercettibile di lacrime, puntando il dito contro uno dei servi in attesa contro la parete: “Portami il necessario per scrivere, la ceralacca e l'anello di mio fratello Virginio.”

Mentre aspettava che le venisse portato ciò che aveva richiesto, la donna cercò di convincersi che stava facendo la cosa giusta. I napoletani non avrebbero mai vinto e, se il papa aveva ancora un po' di sale in zucca, presto avrebbe cambiato bandiera. Le mosse di Ferrandino in Romagna le avevano tolto ogni dubbio.

Non se ne sarebbe rimasta con le mani in mano ad aspettare che suo marito Bartolomeo venisse ucciso in una battaglia stupida come quella di Teodorano. Doveva muoversi tramite la politica per trovare a tutta la famiglia un posto di rilievo tra i vincitori, scappando subito dalla nave spezzata dei perdenti.

Doveva subito scrivere a suo fratello, convincendolo a trovare qualche sbocco tra le fila di Carlo VIII e di pari passo avrebbe anche mandato un messaggio ufficiale proprio al re di Francia, affinché sapesse che, in caso di necessità, il castello di Bracciano sarebbe stato a sua disposizione.

 
   
 
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