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Autore: Adeia Di Elferas    20/12/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Alfonso d'Aragona si svegliò madido di sudore e tutto tremante. Anche quella notte aveva fatto i soliti incubi, tanto vividi da sembrargli del tutto veri.

Vedeva cadaveri, spettri, riviveva alcuni dei momenti più bui della sua esistenza e, in ogni singolo sogno, le sue mani gocciolavano del sangue delle sue vittime e subito dopo a quel rosso vivido si aggiungeva un fiotto che usciva dalla sua gola, come una fontana foriera di morte.

Passandosi una mano ossuta – così erano diventate le sue dita in quelle ultime settimane – sul viso per asciugarsi le gocce copiose che gli scendevano verso la punta del naso e verso il mento, il re si mise a sedere sul letto.

Accese con difficoltà varie candele, per rischiarare la notte che lo circondava come una morsa senza scampo.

Il suo corpo si stava assottigliando e con lui la sua anima. Anche se aveva cercato di ignorare quei segni, Alfonso sapeva che il suo destino stava per compiersi e che non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo.

Con passo malfermo, ben lungi da sembrare il quarantaseienne robusto e atletico che era stato fino a poco prima, il re di Napoli si trascinò fino alla scrivania sotto alla finestra. Lottando coi brividi di freddo, si chiuse un po' il camicione vicino alla gola e si mise a riguardare le lettere che aveva impilato ordinatamente una sull'altra la sera prima. Non aveva alcuna voglia di pensare alla situazione drammatica in cui stava vertendo la guerra, ma tutto era meglio degli incubi.

Dopo un paio di resoconti dal fronte, di cui uno firmato da suo figlio Ferrandino, Alfonso si imbatté in una delle lettere di sua figlia. Da quando Gian Galeazzo Sforza era morto, Isabella aveva scritto un paio di volte, e in entrambi i casi non solo aveva pregato il padre di sbrigarsi a liberarla da Ludovico il Moro, ma lo aveva anche criticato per la sua lentezza, chiedendogli con insistenza perché stesse aspettando tanto per salire fino al Ducato di Milano e portarla in salvo.

In calce, Isabella si era firmata in modo melodrammatico: 'Unica nella disgrazia'.

“Non ci sei solo tu, nella disgrazia.” sussurrò con rancore Alfonso, appallottolando la lettera e gettandola nel camino quasi spento.

Guardò le fiamme lambire la carta e poi farne cenere e in quel momento comprese che non sarebbe riuscito a fare altro, per Napoli, se non cercare di arginare quello che si preannunciava come il più grande disastro della storia del regno.

Intingendo con attenzione la punta della penna nell'inchiostro, il re spianò con l'altra mano una pergamena e poi cominciò a scrivere un ordine che avrebbe dovuto impartire parecchi giorni addietro: 'Che si riporti l'esercito intero nei confini del regno'.

Indirizzò la missiva a suo figlio, chiamò un servo affinché facesse partire subito delle staffette e pregò che i messaggeri fossero veloci come il vento.

 

Quando Caterina si svegliò, trovò Giacomo stretto a lei, che respirava leggero, immerso ancora nei suoi sogni.

Anche quella notte erano rimasti nella rocca, disertando il Paradiso. La Contessa avrebbe anche fatto ritorno al loro piccolo appartamento separato dal resto della fortificazione, ma le piaceva quel ritrovare le vecchie consuetudini legate al restare nella sua stanza.

Per certi versi, era stato come tornare indietro di anni, quando lei e Giacomo si conoscevano ancora molto poco, non erano sposati e non avevano nemmeno avuto un figlio. Trovarselo fuori dalla porta ogni sera, in sua attesa, la faceva sentire di nuovo libera e padrona delle sue decisioni.

Dal freddo che le era rimasto nelle ossa, Caterina intuiva che fuori stesse ancora nevicando. Quello, comunque, si stava dimostrando un inverno molto mite, rispetto a quelli passati. Sembrava quasi che Dio volesse facilitare davvero la campagna di re Carlo.

Giacomo si mosse un po', facendo scivolare le lunghe braccia sul corpo della moglie e finalmente aprì gli occhi. La pallida luce del mattino che filtrava dalle finestra gli illuminò le iridi castane, rendendole estremamente vivide. Ancora una volta, a Caterina parve di tornare indietro nel tempo, a quando lo sguardo del suo uomo era limpido e senza ombre.

Fu solo un attimo, perché subito gli occhi di Giacomo riacquistarono tutte le loro ombre e sulla sua fronte di formò una piccola ruga: “Vorrei poter restare chiuso con te in questa stanza per sempre.” disse l'uomo, con un sussurro appena udibile.

“Lo sai che non si può.” rispose Caterina, cercando di non suonare troppo dura.

Se aveva subito riportato sulla terra ferma il marito, l'aveva fatto solo per impedire a se stessa di fantasticare troppo. Non era mai stato nella sua natura, crogiolarsi nell'immaginare rosei futuri per sé e per chi amava, e in quel momento più che in altri sapeva che era necessario continuare a essere il più realisti possibili.

Spento solo vagamente dalle parole della moglie, Giacomo tuffò il viso tra i suoi capelli e cominciò a darle piccoli baci sul collo, quasi a volerla convincere della validità della sua dichiarazione, ma a quei baci non ne seguirono altri, perché dei colpi precisi e insistenti sulla porta interruppero ogni sua iniziativa.

Caterina lo scostò appena da sé e chiese, cercando di modulare la voce: “Chi è?”

“Sono Tommaso.” rispose la voce: “Ho una cosa importante da dirvi.” e dal tono la Contessa intuì che non aveva intenzione di comunicare il suo messaggio gridando a una porta chiusa.

Così, scivolando via dalle braccia del marito, Caterina lasciò il letto caldo, si infilò una veste da camera che teneva appoggiata all'inginocchiatoio e raggiunse la porta.

La scostò e, mostrando il meno possibile tanto di sé quanto della sua camera, guardò fuori.

Tommaso stava aspettando, impettito e composto come sempre, ma quando la vide i suoi occhi vennero attraversati da uno strano lampo. Se quella era gelosia, secondo la Contessa era tanto fuori luogo da dover essere punita. Tuttavia il Governatore di Forlì riuscì a trattenersi e quando parlò lo fece con una tranquillità che, per quanto forzata, giocò a suo favore.

“Ferrandino d'Aragona ha ripiegato verso Napoli.” annunciò Tommaso: “Suo padre lo ha richiamato presso la sua corte, per organizzare la difesa.”

Caterina provò un sollievo tanto forte che per un attimo le gambe le cedettero. Si aggrappò allo stipite della porta con una mano e, dopo tanto tempo, si aprì in un sorriso di autentica gioia.

“Chiamate subito i membri del Consiglio, dobbiamo discutere le novità.” disse la Contessa, mentre il peso che aveva sul cuore si faceva man mano più leggero.

Tommaso, però, restava fermo al suo posto. Caterina ne guardò dubbiosa il profilo regolare e si accorse per la prima volta di quanto i suoi capelli corti si fossero ingrigiti. Avevano solo un paio d'anni in più, eppure il Governatore sembrava più vecchio di lei.

In uno slancio di ritrovato amore anche per la mondanità, tipico di quando si sente di aver scampato un grosso pericolo, la Contessa fu sul punto di proporgli una delle sue migliori misture per far tornare i capelli scuri, ma Tommaso aveva qualcosa da aggiungere: “È arrivato da poco uno dei padri confessori giubilari, uno di quelli che stanno a San Mercuriale e chiede di poter incontrare voi o il Governatore Generale. L'ho accompagnato nello studiolo di mio zio e vi sta aspettando.”

Caterina soprassedette sul calo di voce che Tommaso aveva avuto nel dire il titolo di suo fratello Giacomo, e si concentrò solo sul significato delle sue parole: “E che vuole?”

Tommaso strinse il morso e poi riferì: “Dice di essere qui proprio su ordine del Governatore Generale – ancora una volta la sua voce prese una nota stonata nel dire quelle parole – per sistemare la questione del nome del bambino. In realtà non ho capito bene cosa volesse.”

La fronte aggrottata della Contessa gli fecero capire che nemmeno lei si stava raccapezzando in quella storia.

“Ho capito... Andrò da lui immediatamente. Ora, però, organizzate il Consiglio. Sarò da voi il prima possibile” fece Caterina, apparentemente molto confusa da quella notizia, ogni euforia per a partenza dei francesi già svanita.

Tommaso la salutò con un gesto rapido del capo e sparì di nuovo per andare a convocare un Consiglio urgente.

La Contessa si richiuse la porta alle spalle, cercando di rielaborare quello che le era stato detto circa i napoletani, anche se la sua mente era impegnata a valutare solo la seconda notizia.

Giacomo aveva sentito solo parte delle parole dette dal fratello, ma aveva comunque intuito l'ultima parte del discorso, perciò quando la moglie si voltò verso di lui, il Barone di Francia sapeva già cosa aspettarsi.

“Che cosa dovrebbe fare esattamente, questo padre confessore che hai fatto chiamare alla rocca?” chiese Caterina, guardinga.

“Oh, finalmente è arrivato!” esclamò Giacomo, dissimulando male il nervosismo: “È da qualche giorno, ormai, che gli avevo detto di presentarsi con tutti i documenti necessari...”

“Che cosa intenderesti fare?” domandò la Contessa, mentre il marito si alzava dal letto e si infilava le brache.

L'uomo si mise in piedi, cercando per la stanza una camicia adatta a quella giornata fredda e disse, in fretta, come se fosse una cosa da nulla: “Ho deciso di cambiare nome a Bernardino.”

“Cosa...?” Caterina si sentiva ancor più confusa di prima, soprattutto perché tra tutte le cose che sarebbe stato utile fare in quei giorni, cambiare nome al loro figlio era proprio l'ultima che le sarebbe venuta in mente.

“Adesso che sono Barone – spiegò Giacomo, infilandosi il camicione più pesante che riuscì a trovare – voglio dimostrare tutta la mia gratitudine a re Carlo dando a mio figlio il suo nome.”

La Contessa fissava il marito, che continuava a vestirsi come nulla fosse, parlando con il tono indifferente di chi commenta l'ultima nevicata della stagione.

“Non dirmi che è una cattiva idea. Anche tuo zio ha chiamato suo figlio Massimiliano solo per far piacere all'Imperatore che l'ha fatto Duca.” le ricordò Giacomo, incoraggiato dal silenzio della moglie e dalla sua immobilità: “Così ora che il re di Francia mi ha fatto Barone, io lo ringrazio allo stesso modo. Finalmente abbiamo modo di sfruttare i servigi dei padri confessori che tu hai fatto venire qui per il Giubileo straordinario.”

“Sì – fece dopo un po' Caterina, riconoscendo la validità dell'iniziativa, mentre Giacomo stava già indossando il giubbone bordato di pelo – non è una cattiva idea, ma avresti dovuto dirmelo prima di chiamare quel prete. Bernardino è anche figlio mio.”

“Quando è stata l'ultima volta che sei andata a trovarlo?” chiese a bruciapelo Giacomo, avvicinandosi alla donna e guardandola di sotto in su con insistenza.

Caterina si sentì tremendamente in fallo e così provò a scusarsi: “Sono stati giorni molto concitati, lo sai quanto me. Abbiamo avuto molte cose a cui pensare e molti impegni che...”

“Per andare da quel tuo barbiere con aspirazioni da storico, però, il tempo l'hai trovato.” ribatté il Barone, senza ammettere repliche.

“Bernardi è un amico prezioso, non posso trascurarlo, lo capisci?” provò ad argomentare la Contessa: “Quello che scrive e le notizie che mette in giro o che mette a tacere sono le fondamenta su cui è costruita la gran parte della nostra immagine pubblica.”

“Chiacchiere.” sbuffò Giacomo, passando accanto a Caterina, raggiungendo la porta: “Ecco cosa sono. Se tu amassi davvero nostro figlio...”

“Non osare insinuare che...!” provò a dire la Contessa, ma il marito la fece tacere con una risatina sprezzante.

“Tu non avresti dovuto avere figli. Non sei fatta per essere madre.” decretò il Barone, mettendo una mano sulla maniglia.

“Hai ragione.” disse a quel punto Caterina, con la voce piatta e le braccia strette attorno al petto.

Giacomo l'aveva punta sul nervo più scoperto che aveva. Fin da quando era nato il suo primogenito, Ottaviano, la Contessa aveva provato un'istintiva difficoltà nel relazionarsi in modo sereno con la sua prole. Con il tempo era riuscita ad apprezzare le qualità dei suoi figli e si era sentita morire, quando li aveva visti in pericolo, ma era abbastanza intelligente da riconoscere le proprie mancanze come madre.

Con Bernardino si era convinta che le cose sarebbero state diverse e in parte era stato vero, ma le circostanze l'avevano portata ad allontanare anche lui, in modo ancor più netto, anche se a fine di bene.

Perciò alle parole severe del marito, Caterina non poté che sentirsi smascherata. Aveva dato ai suoi figli tutto quello che era riuscita a dar loro, ma sapeva che non era sufficiente. Era un suo limite e probabilmente lo sarebbe stato per sempre. Tanto valeva ammetterlo.

Giacomo, che si sarebbe aspettato qualche frase aggressiva o anche qualche insulto, restò attonito davanti a quell'affermazione inattesa.

Dopo un momento di interdizione, durante il quale il Barone si chiese se fosse o meno il caso di aggiungere qualcosa o di consolare in qualche modo la moglie, aprì con un gesto secco la porta, e girò appena la testa per concludere: “Il padre di Bernardino sono io e come tale ho diritto di decidere che ne deve essere di lui. Gli farò aggiungere il nome Carlo e sai che è la cosa giusta fare.”

Quando Giacomo era già lontano, Caterina si ridestò dal momento di sgomento che l'aveva catturata e sporgendosi oltre l'uscio gli disse: “Quando hai finito col prete, sappi che ho convocato un Consiglio a palazzo!”

 

La ritirata dei napoletani aveva suscitato una certa frenesia nel campo francese sistemato attorno a Siena.

I generali, che risiedeva in quei giorni in città, erano molto più cauti delle truppe, ma anche tra loro si stava spandendo un'aria ottimista che li portava a pensare sempre più in grande.

Re Carlo, che aveva seguito con attenzione i velati consigli di Giuliano Della Rovere, che conosceva molto bene papa Borja, era contento di aver sfruttato la prigionia di Giulia Farnese a suo profitto. Con quel favore, era certo di poter chiedere in cambio molto e così avrebbe fatto.

Ermes Sforza, inviato di valore di Ludovico il Moro, aveva proposto, timidamente, ma in modo abbastanza chiaro, di chiedere anche la liberazione del Cardinale Ascanio Sforza, in segno di buona volontà da parte del pontefice.

A quella proposta, il re di Francia non aveva lasciato intendere nulla di particolare, ma l'ambasciatore milanese era fiducioso. Milano, o meglio, il cancelliere Calco, aveva mollato un po' la presa sulla pretesa di far deporre Alessandro VI e questa nuova elasticità sembrava molto gradita al re, che non voleva inimicarsi, con quella guerra, gli stati cattolici d'Europa.

Il Duca di Milano, invece, continuava a chiedere che Rodrigo Borja venisse sollevato dal suo incarico il giorno stesso dell'ingresso francese a Roma, ma Ermes si guardava bene da mettere a parte di questi capricci Carlo VIII.

Il quadro di comando francese, nel frattempo, restava abbastanza compatto, anche se la decisione di Gaspare Sanseverino di risalire al nord per strane manovre diplomatiche fece storcere il naso al re, che chiese a Galeazzo Sanseverino, suo fedelissimo, di fare qualcosa per arginare eventuali problemi.

Appoggiato al muro bianco e nero del Duomo, Galeazzo attendeva con pazienza l'arrivo di Giovan Francesco Sanseverino.

Aveva preferito dargli appuntamento lì perché era sua ferma convinzione che nelle chiese ci fosse più segretezza e meno orecchie interessate che non nei quartieri militari.

Giovan Francesco attraversò la piazza a passi lunghi e ben distesi, tirandosi il cappuccio del mantello fin sugli occhi per proteggersi dall'aria fredda che cominciava a spirare da tutte le direzioni.

Galeazzo lo chiamò a sé con un gesto della mano e lo invitò a seguirlo nel Duomo. Saltando i gradini a due a due, Giovan Francesco salì la scalinata e raggiunse il congiunto oltre il portone laterale.

“Di cosa dobbiamo parlare?” chiese, dopo essersi fatto il segno della croce ed essersi tolto il cappuccio.

Galeazzo, ravviandosi con disinvoltura i folti ricci che tendevano al biondo rosso, fece un breve sorriso e chiese: “Posso fidarmi?”

Giovan Francesco sporse in fuori il mento già sporgente di suo e confermò: “Sono un servo fedele della nostra famiglia.”

“Voglio che tu segua Gaspare al nord, ovunque sia diretto di preciso.” spiegò Galeazzo, cominciando a camminare lungo la navata laterale, calpestando il meraviglioso pavimento decorato senza nemmeno vederlo: “Non mi fido di lui. Questa decisione di staccarsi da noi è stata troppo improvvisa.”

“Credo che sia da imputarsi solo alla sua contrarierà per i metodi del Duca d'Aubigny.” lo difese Giovan Francesco, che in parte era d'accordo con Fracassa.

Galeazzo fece una smorfia e un suono gutturale: “Non siamo bambini, sappiamo cos'è la guerra e non avrebbe dovuto risentirsi tanto per un saccheggio. Mi risulta che lui sappia fare anche di peggio.”

“È che noi conosciamo la Tigre. Quelle erano le sue terre.” tentò Giovan Francesco, rendendosi conto che a ogni parole l'espressione di Galeazzo si faceva sempre più dura.

“Era una nostra nemica dichiarata, in quei giorni, dunque il sentimento di pietà di Gaspare era fuori luogo.” tagliò corto, dando un'occhiata distratta all'altare: “Allora, lo seguirai e mi terrai informato?”

Giovan Francesco, che non avrebbe voluto accettare il ruolo della spia in casa, si sentì improvvisamente disgustato tanto da Galeazzo quanto dai francesi: “Lo seguirò.”

Galeazzo, facendo voltare di scatto per il rumore improvviso due frati che misuravano a grandi passi la navata centrale con i nasi immersi nei loro breviari, gli diede una forte pacca nel centro della schiena: “E bravo Giovanni!”

Quando stavano per uscire, parlando d'altro, Galeazzo alzò un momento gli occhi sul soffitto del Duomo e commentò: “Quanto sfarzo inutile...”

“Io lo trovo meraviglioso.” disse Giovan Francesco che, da che si ricordava, pur avendo girato quasi tutta la penisola, non aveva mai visto un'altra chiesa tanto bella.

Galeazzo stirò le labbra e, poco convinto, fece spallucce e concluse: “Sarà come dici tu... Per me è solo uno spreco di soldi e tempo. Sai quante colubrine avrei comprato io, con l'oro usato per tirar su questo scatolone di pietra?”

Rendendosi conto improvvisamente della pochezza spirituale e Galeazzo, Giovan Francesco fu ancor più felice di aver accettato l'ingrato compito di seguire al nord il fratello. Non avrebbe sopportato di stare al campo dei francesi nemmeno un giorno di più.

 
   
 
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