Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    23/12/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Una volta certi della lontananza tanto dei francesi quanto dei napoletani, i Consiglieri della Contessa Sforza Riario avevano ricominciato ad avvallare senza farsi troppi problemi tutti i suoi progetti.

Era stato chiaro a tutti come, nel momento del bisogno, le sue idee lungimiranti in campo fortificativo avessero di fatto salvato lo Stato dalla catastrofe e perciò, quando la donna propose una serie di nuove opere di fortificazioni – in vista del rientro dei francesi a guerra finita – nessuno si oppose.

Una delle parti più laboriose del suo piano consisteva nello scavare un fossato che andasse dalla Torre Dei Quadri fino a Porta Ravaldino. Quella, a suo dire, era stata una mancanza che avrebbe potuto costar loro molto cara e dunque era necessario approfittare di quel momento di pace per porvi rimedio.

Fu difficile convincere il Consiglio degli Anziani, che accettò solo dopo aver attentamente valutato l'effettiva necessità di un nuovo fossato e di tutte le altre piccole migliorie richieste dalla Tigre. Per ottenere infine il loro consenso, Caterina fu costretta a dire che avrebbe pagato in parte di tasca propria quei lavori e tanto bastò a mettere a tacere anche i più recalcitranti.

Quando, infatti, aveva provato a proporre un appoggio finanziario da parte delle famiglie nobili della città o da parte dei mercanti più abbienti, il Consiglio aveva messo ai voti e le fave nere, stanti a indicare un diniego, avevano doppiato di misura quelle bianche.

Fu un'altra, però, la questione che sollevò del malanimo tra i forlivesi più facoltosi.

“Se quello ha nozioni di costruzione e ingegneria – disse con sdegno Filippo Delle Selle, sedendosi con un tonfo pesante sulla sedia – allora io sono il re di Francia!”

“Vi piacerebbe, eh?” ridacchiò Ettore Ercolani, che, già sbarbato, stava per uscire dalla bottega del Novacula.

“Ditemi che non è vero!” lo provocò Delle Selle, voltandosi tanto di scatto da far quasi rovesciare il suo scranno di legno leggero.

Mentre Bernardi invogliava l'agitato cliente a star fermo, Ercolani prese il suo mantello pesante e, dando uno sguardo malinconico alla neve che scendeva silenziosa oltre alla porta aperta da un nuovo avventore, concluse: “Dico che non sono affari miei.” e uscì.

Il nuovo arrivato era Bartolomeo Orcioli e così Filippo pensò di aver finalmente trovato qualcuno che l'avrebbe pensata esattamente come lui.

“Lasciare un lavoro del genere nelle mani di quel... Non so nemmeno come chiamarlo!” esclamò, mentre il Novacula affilava la lama del rasoio simulando indifferenza.

L'Orcioli lanciò un'occhiata interrogativa al barbiere, che non diede mostra di essere interessato a quelle chiacchiere e così si azzardò a dire: “Sono convinto che il progetto sia della Contessa, come lo è quello per i nuovi rivellini, ma che abbia voluto dare l'incarico al Feo solo per fargli guadagnare qualche punto agli occhi della città.”

“Barone Feo, adesso va chiamato così.” ghignò Domenico Ghetti, che, stringendosi nelle spalle per far fronte al freddo era entrato macilento nella barberia.

“Prima l'ha fatto castellano – cominciò a elencare Filippo Delle Selle, che quel giorno proprio non riusciva a fare altro se non crogiolarsi nell'insoddisfazione e nella rabbia – poi cavaliere, poi Governatore Generale, poi Vicesignore, poi Barone...”

“Ci manca solo che lo nomini Conte e poi siamo a posto.” concordò Ghetti, sistemandosi su una delle sedie disposte contro al muro.

Andrea Bernardi cominciava a far fatica a tenere la bocca chiusa, perciò cercò di far cambiare argomento ai suoi clienti: “Ho visto che cominciano già a ritornare alcuni pellegrini per il Giubileo...” ma il suo vago tentativo venne completamente ignorato.

“Adesso quel mantenuto – disse digrignando i denti Ghetti – ha sborsato anche un sacco di soldi per pagarsi il cambio di nome di suo figlio e pretende che tutti lo chiamino Carlo come il re di Francia. Noi paghiamo le tasse, e lui sperpera in bei vestiti e capricci.”

A quel punto, anche il Novacula non poté evitare di trovarsi d'accordo con quello che si stava dicendo nella sua barberia.

“Va in giro agghindato come un principe.” si aggiunse Filippo Delle Selle: “Come se le donne già non lo guardassero abbastanza.”

Mentre la frase si stava spegnendo, entrò nella barberia il Governatore di Forlì, Tommaso Feo.

Tanto Ghetti quanto Delle Selle e Orcioli si zittirono all'istante e solo Bernardi ebbe la prontezza di salutare il nuovo arrivato.

Tommaso guardò i quattro uomini per un lungo istante, con la strana sensazione che stessero facendo qualche discorso che lui non avrebbe dovuto ascoltare. Se avesse dovuto seguire solo il suo sentire, l'uomo avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe andato subito. Non sopportava pensare che stessero sparlando di lui, o di suo fratello, o della Contessa. Tuttavia, se se ne fosse andato, li avrebbe lasciati liberi di continuare e come difensore della sua signora e del suo buon nome, non poteva permetterlo.

Così, con noncuranza estrema, si andò a sedere vicino al muro, in silenzio, aspettando il suo turno.

“Avete ragione – disse dopo qualche momento Ghetti, in evidente imbarazzo, occhieggiando verso il Novacula in cerca di un appoggio – stanno tornando i pellegrini... Speriamo che il commercio riprenda presto vigore...”

 

Prospero Colonna camminava tra due file di guardie. Gli uomini che lo circondavano tenevano le alabarde pronte, come se davvero si aspettassero di vederlo fuggire da un momento all'altro.

Re Carlo era ormai vicino a Roma, lo dicevano tutti. Prospero sapeva che Rodrigo Borja non si sarebbe permesso di farlo ammazzare proprio a pochi giorni da un assedio del genere. Con il re di Francia ci voleva diplomazia, a quel punto, non forza. Se Alessandro VI sapeva fare una cosa – e Prospero ne era certo – era essere forte coi deboli e debole coi forti.

Per quanto distratto dalla ritrovata Giulia Farnese, il papa non avrebbe mai commesso l'errore di irritare Carlo VIII uccidendo un suo dichiarato emissario.

“Libererà anche voi – aveva detto Prospero, a voce abbastanza alta da farsi sentire dal Cardinale Sforza, nella cella accanto alla sua – vedrete che alla fine si farà amico di re Carlo e sarete di nuovo un uomo libero!”

Ascanio non aveva dato risposta, ma Prospero poteva immaginarselo mentre sogghignava, a metà strada tra il rassegnato e lo scettico.

“Ecco qui.” concluse Alessandro VI, firmando la liberazione vincolata di Colonna: “Avete tempo due giorni per convincere vostro cugino Fabrizio a cedermi Ostia in via definitiva. In cambio, oltre alla vita salva, avrete una condotta da trentamila fiorini con l'esercito pontificio e aragonese.”

Prospero ascoltò tutto con il fiato sospeso. Avrebbe voluto sottolineare come fosse folle accettare a quel punto una condotta napoletana, ma ciò che gli premeva era lasciare subito Castel Sant'Angelo, a qualsiasi condizione.

“Sono stato chiaro?” chiese Rodrigo, giungendo le forti mani davanti al viso e guardando il prigioniero di sottinsù.

Colonna annuì più volte e si mise addirittura in ginocchio: “Ostia sarà vostra entro due giorni.” assicurò.

Alessandro VI fece un cenno di soddisfazione e poi agitò la mano su cui spiccava l'anello piscatorio e concluse: “Andate. E se scopro che non avete ottemperato alle mie richieste, state certo che vi farò staccare la testa dal collo.”

Prospero deglutì, resistendo a fatica a passarsi una mano sulla gola, per assicurarsi che fosse ancora intera. Le guardie che lo attorniavano rimisero le armi in assetto d'attesa e, con i documenti del caso sottobraccio, Colonna poté uscire dal Vaticano, attraversare Roma a cavallo e dirigersi verso Ostia senza che nessuno lo fermasse.

 

Quattro mesi di bene placito erano un buon accordo, secondo Francesco Gonzaga.

Sentendo dei rumori fuori dal padiglione, il Marchese di Mantova si affrettò a nascondere la lettera nella tasca interna del suo giubbone. Anche se Venezia aveva solo fatto proposte, se gliele avessero trovata addosso di certo re Carlo non ne sarebbe stato felice.

“Posso?” chiese la voce ferrea del Duca d'Aubigny.

“Prego.” rispose all'istante Francesco, tossicchiando per ritrovare un tono di voce del tutto disinvolto.

“Re Carlo vuole vedervi, stiamo progettando la discesa a Ostia.” annunciò l'Aubigny, entrando nel padiglione e guardandosi attorno come se non vi fosse mai stato.

“A Ostia? Credevo che la prossima tappa fosse direttamente Roma.” notò Francesco, grattandosi il mento ispido.

L'Aubigny non rispose subito. Sollevò un sopracciglio e fece un mezzo sospiro. Avanzò di qualche passo e parve pensare a lungo su come esprimersi.

I suoi occhi freddi stavano passando in rassegna i pezzi dell'armatura del Marchese, che erano stati disposti dal suo attendente in bella mostra vicino al pagliericcio, e, togliendosi i guanti con piccoli gesti misurati, l'uomo finalmente disse: “Prospero Colonna ha tradito il papa. Suo cugino ha finto di averlo scoperto intento alla fuga, lo ha formalmente imprigionato, ma in realtà lo ha nascosto a Marino.”

Francesco Gonzaga, in realtà, non restò molto colpito da quella notizia. Che i Colonna fossero traditori nati era risaputo. Dall'inizio della guerra quello era forse il loro terzo ripensamento e chissà quante altre volte avrebbero deciso di lasciare lo schieramento più in crisi.

“Ma adesso – chiese il Marchese, un po' confuso – esattamente i Colonna da che parte stanno?”

L'Aubigny sbuffò: “Ah, voi italiani... Sempre indecisi sulla fazione da seguire. Come Virginio Orsini, che milita per re Alfonso, ma manda i suoi parenti a combattere per noi e ci offre Bracciano su un piatto d'argento...”

Francesco si sentì molto offeso dal tono di scherno usato dallo scozzese rinnegato e fu a un passo dal fargli notare come neppure lui fosse di specchiata lealtà nei confronti del suo paese d'origine, ma alla fine si disse che era meglio fare orecchie da mercante e lasciar perdere.

La lettera che nascondeva nel giubbone pesava come un macigno e temeva che, a far grosse parole con uno come quel Duca, alla fine la sua tresca coi veneziani sarebbe stata scoperta e a quel punto sarebbe stato il primo a essere chiamato traditore e forse non a torto.

L'Aubigny lo guardava, con le sue guance mortifere un po' cadenti che vibravano appena, mosse dal ghigno che si stava formando sulle sue labbra: “Avanti – disse, quando fu certo che l'italiano non avrebbe controbattuto in alcun modo – si sta decidendo chi dovrà marciare su Ostia e chi prendere Civitavecchia. Per il nuovo anno saremo in Vaticano.”

Gonzaga fece un sorriso di circostanza e, col pretesto di prendere un mantello più pesante, convinse l'Aubigny a uscire. Una volta solo, diede ancora un'occhiata alla lettera firmata dal Doge e se la rimise in tasca, all'altezza del cuore. Comunque fosse andata, aveva quattro mesi per fare la sua scelta.

 

Caterina attese di vedere il sarto lasciare il Paradiso, prima di andare a controllare cosa stesse architettando Giacomo.

Quel giorno non era particolarmente di buon umore, sia perché Luffo Numai l'aveva assillata per buona parte della mattina affinché accelerasse i trattati con Faenza, sfruttando l'attimo di pace di cui si godeva in Romagna, sia perché Tommaso Feo aveva risollevato la questione del suo ritorno a Imola.

Al Consigliere la Contessa aveva risposto dicendo che prima era bene far passare il Natale e far entrare l'anno nuovo. A quel punto, in primavera, avrebbe preso in considerazione l'idea di un matrimonio per procura, in ragione della giovanissima età dello sposo e della pericolosità di un viaggio della sposa. Quando Numai aveva provato a dire che Faenza era tanto vicina da rendere quell'ultima obiezione facilmente attaccabile da parte del tutore di Astorre, Niccolò Castagnino, Caterina aveva risposto stizzita dicendo che spettava a lei decidere cosa fosse o meno pericoloso per sua figlia.

Sulla seconda richiesta del giorno, invece, la Contessa si era trovata molto più in difficoltà.

Era stato relativamente facile, la sera dell'ultima cena dei francesi a Forlì, promettere a Tommaso la possibilità di tornare a Imola a ricoprire il ruolo che aveva lasciato su sua precisa richiesta.

Ora che il pericolo sembrava lontano, Caterina si rendeva conto che la preghiera dell'uomo non era del tutto insensata. Lei per prima si rendeva conto dell'insofferenza di Bianca nel vivere con lei alla rocca, ma, egoisticamente, non voleva privarsi di un braccio destro come Tommaso.

Così quando il Governatore aveva osato accennare ancora alla questione, la Contessa aveva reagito come fanno gli animali selvatici feriti: attaccando.

Quando Tommaso aveva accennato al desiderio della moglie di tornare a Imola, dove vivevano entrambi i suoi genitori, Caterina lo aveva guardato fisso negli occhi e aveva sferrato il suo colpo.

“Voglio che siate sincero.” gli aveva detto, cambiando atteggiamento in modo quasi radicale: “Mia sorella è felice con voi?”

Quella domanda aveva spiazzato tanto Tommaso che per rispondere gli ci era voluto un po' e comunque alla fine era riuscito a balbettare solamente: “Io... Non... Non saprei.”

“Quando vi ho permesso di sposarla, mi avevate promesso che avreste saputo farla felice. Che sareste stato per lei un buon marito.” gli aveva allora ricordato la Contessa: “Non state rispettando i patti.”

“Non è semplice.” aveva allora controbattuto il Governatore: “Soprattutto restando qui.”

A quel punto Caterina aveva perso la pazienza, trovandosi di fronte a un impasse logico a cui non sapeva far fronte. Tommaso aveva ragione, ma lei non voleva più permettergli di tornare a Imola.

“Avete perso altri figli?” aveva domandato a quel punto, e fu la volta di Tommaso di spazientirsi, per la delicatezza dell'argomento, sfoderato con tanta disinvoltura dalla sua signora.

“No.” aveva risposto, secco.

La Contessa, un po' pentita, aveva cercato di rimediare: “Vedrete che prima o poi avrete fortuna. Se Bianca non vi vuole in questi giorni, non abbiate fretta, quando sarà il momento...”

Ma Tommaso l'aveva interrotta: “Non è lei a negarsi.”

Caterina aveva guardato a lungo lo sguardo mesto del suo Governatore, che diceva tutto quello che le parole stavano tacendo e così, con un nodo allo stomaco, aveva dovuto concedere: “Dopo le festività cercherò un nuovo Governatore per Forlì e potrete tornare a Imola.”

Con la mente ancora immerse nelle conversazioni molto spiacevoli avute tanto con Numai quanto con Tommaso, Caterina raggiunse la porta del Paradiso ed entrò, senza annunciarsi.

Dentro trovò Giacomo che si stava rimirando allo specchio, con indosso degli abiti nuovissimi e non ancora finiti.

L'uomo si voltò verso la moglie e, con un sorriso un po' tirato, disse: “L'ho fatto fare per Natale. Il sarto dice che manca poco, giusto qualche punto sulle spalle e un ritocco in vita.”

Caterina si prese un attimo per rimirare il suo Giacomo. Effettivamente vestito a quel modo sembrava un re. Le brache attillate, alla moda, le lattughine della camicia un po' più lunghe del solito, come usavano i francesi, e lo splendido blu scuro del velluto mettevano in risalto la sua figura armoniosa e snella.

Con indosso quei vestiti nuovi, su cui si notavano i disegni di fantasia sui polsini – scelti probabilmente per supplire un simbolo nobiliare che a Giacomo mancava – e i fili d'oro, il Barone pareva di un altro mondo. E sembrava anche più giovane. Nell'anno che stava arrivando avrebbe compiuto ventiquattro anni, ma a Caterina ricordava più il diciassettenne che aveva conosciuto nelle stalle, che non un uomo della sua età.

Ciò bastò a farla sentire orrendamente vecchia.

“Quanto costa quell'abito?” chiese, fingendo di non essere troppo interessata.

Giacomo la seguì con lo sguardo, mentre lei si sedeva sulla poltrona. Da molto tempo la Contessa non entrava al Paradiso, ma, per quanto il Barone fosse felice di rivederla in quella stanza che era stata per molto tempo il loro nido d'amore, la sua presenza l'agitava, in quel frangente.

“L'ho pagato coi miei soldi, non ti preoccupare.” si schermì subito.

“Coi tuoi soldi.” fece eco Caterina, abbandonandosi sull'imbottitura soffice della poltrona.

“Sono soldi che ho guadagnato.” fece notare Giacomo.

“Ti ricordo che i tuoi stipendi arrivano dalle tasche dei nostri sudditi e a loro non piacerà vedere che continui a spenderli in abiti nuovi.” lo riprese la Contessa, stanca: “Già ce l'hanno con te, se in più li provochi così...”

Quell'ultima affermazione riaccese l'attenzione del Barone: “Se ce l'hanno con me, sono problemi loro.” disse, alterato: “Io sto facendo il mio dovere. Sono stato sui camminamenti quando i francesi volevano entrare in città, ho preso in mano i lavori del fossato, ho...”

“La gente non si ricorderà mai di quello che hai fatto per loro.” lo bloccò Caterina, che proprio non aveva voglia di sentirlo mentre si vantava per quelle due cose che aveva combinato dopo anni di nullafacenza quasi totale: “Ma ricorderà benissimo le cose che hai fatto a suo discapito.”

Lei stessa, ricordava con amarezza, aveva potuto vedere come i forlivesi si erano dimenticati all'istante dei suoi sforzi per curarli dalla peste, quando avevano avuto il pretesto di prendersela con lei.

“Le tasse sono alte, le nostre casse sono quasi vuote. Ormai solo il borgo di Fortunago è in attivo e lo è perché di fatto è nei confini del Ducato di mio zio.” spiegò Caterina, quasi a convincersi da sola del fatto che stesse facendo tutto il possibile: “Noi siamo stati più colpiti, siamo stati invasi e isolati e lo saremo ancora. È il momento di risparmiare e per far sì che la popolazione accetti quest'austerità, dobbiamo essere i primi a mostrarci modesti.”

Giacomo fece un suono di impazienza. Tirò un po' i lembi del giustacuore nuovo e si guardò di nuovo allo specchio. Parve molto compiaciuto di quello che vedeva, ma il sorriso si guastò quasi subito.

Il Barone sentiva gli occhi della moglie puntati addosso, e con essi si sentiva braccato anche da tutte le accuse silenziose che lei continuava a fargli. Prima tra tutti, la decisione di cambiare nome a Bernardino. Alla fine non se l'era sentita di ribattezzarlo solo Carlo e così aveva aggiunto il nuovo nome al vecchio, ma a Caterina non era bastata come soluzione.

Giacomo cominciò a togliersi con cura l'abito nuovo, appoggiandone un capo dopo l'altro al letto.

La Contessa distolse lo sguardo. Non aveva alcuna intenzione di permettere al marito di risolvere ancora una volta tutto quanto col medesimo metodo che usava sempre.

Mentre il Barone stava per dire qualcosa, quando addosso aveva ancora solo le brache – di finissima seta blu con finiture in oro e cuoio – qualcuno bussò alla porta.

“Chi è?” chiese Giacomo, con un'aggressività che Caterina trovò fuori luogo.

Se abbaiava a quel modo a tutti i domestici, prima o poi avrebbero dovuto prendere un assaggiatore di corte, per evitare che qualche servo inviperito lo avvelenasse con il cibo.

“Sono io, perdonatemi.” rispose la voce della cameriera personale della Contessa: “So che la mia signora è qui.”

Caterina alzò una mano in modo imperioso, impedendo a Giacomo di alzare la voce, come di certo avrebbe fatto, visti i vasi del collo che s'erano fatti turgidi e minacciosi.

“Sono qui.” confermò, aprendo la porta.

La serva fece una mezza riverenza. Vide con la coda dell'occhio il Governatore Generale che vagava mezzo nudo per la stanza, ma quello che attirò di più la sua attenzione furono le espressioni bellicose che campeggiavano sui volti sia della Contessa, sia dell'uomo.

“I sarti della corte dicono che il vostro abito sarà pronto entro Natale. Credevo voleste saperlo.” fece la donna, rivolgendosi alla sua signora.

“Ah!” esclamò Giacomo alle spalle di Caterina: “E poi fai la predica a me!”

“Sono riusciti a rattoppare quella scucitura vicino alla spalla?” chiese la Contessa, senza nemmeno dedicare un'occhiataccia al marito.

“Sì, mia signora.” rispose la serva, mentre Giacomo in lontananza ribolliva per la figuraccia.

“Bene, aspettami, vengo con te.” fece Caterina.

Tornò un attimo dentro, lasciando la porta socchiusa e disse al marito: “Io i vestiti li faccio rammendare, prima di buttarli e comprarne di nuovi. È così che si fa in momenti di crisi come questo.”

Giacomo alzò il mento, con l'atteggiamento tipico di chi è pronto a litigare, ma non disse nulla.

Caterina scosse la testa e lasciò il Paradiso.

“In fondo lo capisco – disse, quando fu sola con la sua serva alla rocca – per lui ogni vestito nuovo è una rivincita.”

“Non c'è bisogno che lo difendiate davanti a me.” disse la cameriera, mentre pettinava la Contessa in vista della cena.

Caterina sospirò: “È mio marito. Se non lo difendo io, chi lo farà?”

La serva non sollevò più l'argomento, mettendosi a parlare di cose molto più frivole e quella sera, dopo cena, non si sorprese, passando davanti alla porta della sua signora, nel vedere come sempre il Governatore Generale che aspettava nel buio la sua Contessa.

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas