Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    27/12/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Di comune accordo coi suoi Consiglieri più fidati, la Contessa Sforza Riario aveva optato per festeggiamenti molto sobri, quel Natale.

Mentre da Imola arrivavano notizie rincuoranti circa il favore popolare apparentemente conservato malgrado l'episodio di Mordano, anche in Forlì si stavano rinverdendo le frange favorevoli alla Tigre.

Alcune stamperie avevano cominciato a mettere in commercio dei libri di letterati locali e non solo in cui Caterina Sforza veniva descritta non solo come una guida capace di far fronte a una minaccia come quella della guerra, ma anche come la 'donna più prudente di tutte le donne Sforzesche'. La paragonavano a Venere, ma la dipingevano come una nuova Minerva, in grado di non perdere il suo Stato malgrado esso fosse stato minacciato da potenze come la Francia e Napoli.

Per conto suo, la Contessa non aveva indugiato in autocelebrazioni, limitandosi a prendere nota di quello che veniva detto sul suo conto, accorgendosi anche di quanto invece né Giacomo né Ottaviano venissero mai citati, se non di sfuggita e con toni molto tiepidi. Se non altro il Conte si era aggiudicato un paio di dediche in altrettanti libelli.

La notte di Natale, prima di scendere per il banchetto, che quell'anno avrebbe contato pochissimi invitati, Caterina stava controllando la corrispondenza. In quei giorni non aveva avuto molto tempo per dedicarsi a quello che preferiva – in particolare l'alchimia e la caccia – perché i nuovi lavori di fortificazione la stavano completamente assorbendo.

Giacomo cercava di fare del suo meglio, ma anche i più esperti stavano faticando per via del terreno ghiacciato e della neve che rendeva difficoltosa ogni azione. In tempi più tranquilli, la Contessa sarebbe stata la prima a ordinare una differita dei lavori, ma ci si aspettava che i francesi tornassero a nord prima dell'estate e dunque non si poteva attendere oltre.

Così aveva lasciato che le lettere si accumulassero sulla sua scrivania. Siccome era in anticipo, però, prima della cena cominciò ad aprirne una dopo l'altra. Erano quasi tutte scritte da alchimisti suoi corrispondenti che la tenevano informata sui loro progressi o che chiedevano consigli o ragguagli sulle sue eventuali scoperte.

Tra queste, però, Caterina ne trovò anche una del Cardinale Raffaele Sansoni Riario. Non si era accorta del suo sigillo impresso nella ceralacca, altrimenti l'avrebbe letta non appena le era stata recapitata.

Con un sospiro, chinandosi sotto il candelabro per vedere meglio, lesse le parole vergate dalla mano nervosa di Raffaele e capì che non era stato poi un grave peccato, non aprirla subito.

Il Cardinale si perdeva in frasi vaghe, classiche di chi teme di essere intercettato. Consigliava attenzione alla Contessa e chiedeva più volte come stessero i suoi figli, Ottaviano in particolare.

Le diceva che il clima a Roma era molto incerto e che pregava per un nuovo anno più disteso e senza guerra. Non diceva altro, nulla che potesse davvero interessare Caterina e il suo Stato.

Stava per accartocciare la missiva, quando l'ultimo inciso le fece ritornare un certo interesse.

'Salutate vostro figlio da parte mia e da parte del suo padrino, Sua Santità. La famiglia vi sarà sempre vicina.' e seguiva la firma.

Chiedendosi se quelle parole avessero qualche recondito significato specifico, la Contessa si appoggiò con un sospiro allo schienale.

La porta alle sue spalle si aprì, lasciando entrare un refolo d'aria più fredda che fece tremolare le fiammelle delle candele.

“Sei pronta?” era Giacomo che la richiamava all'ordine: “I nostri ospiti stanno aspettando e io sto morendo di fame. Che stai leggendo?”

Assecondando una sua vecchia attitudine a tenere all'oscuro delle sue perplessità politiche il marito, Caterina ripiegò la lettera del Cardinale Sansoni Riario e vi appoggiò sopra con fare casuale un paio di messaggi di alchimisti del nord Italia: “Niente, sempre le solite cose.” disse, indicando con vaghezza la pila di lettere mentre si alzava: “Chi si intende d'alchimia cerca di creare la pietra filosofale, avvelenandosi il sangue e rubando tempo a studi più utili.”

“Come la tua pozione per far dormire i feriti?” chiese Giacomo, mentre l'aspettava sulla porta, ripensando al soldato che in effetti si era salvato grazie all'intruglio a base di oppio creato dalla moglie.

“Quello è un buon esempio.” concordò la Contessa e seguì il marito al piano di sotto dove i loro selezionatissimi ospiti aspettavano con la pancia vuota che il banchetto cominciasse.

 

Ostia era caduta nei giorni prossimi al Natale. Le difese di Fabrizio Colonna si erano subito rivelate molto fasulle e a Yves d'Alégre era bastato un soffio per far crollare il castello di carte del romano.

Intanto re Carlo, con tutti gli altri comandanti, aveva preso possesso di Civitavecchia e già preparava il suo trionfale ingresso a Roma.

Ermes Sforza alla fine sembrava aver fatto breccia nella sua iniziale resistenza e i termini che avrebbero avanzato nel trattare con Alessandro VI sarebbero stati molti chiari e precisi.

Oltre a lasciare loro libero accesso alla città e al Vaticano, avrebbero dovuto lasciare libero Ascanio Sforza, come segno di buona volontà a di rinnovata amicizia con la Francia. In cambio re Carlo si sarebbe impegnato a lasciare in vita il papa, a non deporlo e, soprattutto, a lasciarlo libero di far quel che credeva con chi preferiva fino a che non sarebbero ripartiti alla volta di Napoli.

Fabrizio Colonna aveva richiamato a sé il cugino Prospero e insieme si erano uniti in via definitiva al fronte francese, sperando di poter sfruttare l'avanzata travolgente di Carlo VIII per riprendere il loro posto a Roma.

Restavano pochi, i punti da sistemare negli accordi sottobanco che i francesi stavano prendendo con il papa in persona. Con la defezione quasi totale dei napoletani, i cui ultimi soldati avevano lasciato il Vaticano non appena era giunta loro la notizia della caduta di Civitavecchia, Alessandro VI aveva cominciato a lasciar intendere che forse c'era un modo per accontentare tutti quanti e re Carlo aveva tutta l'intenzione di seguire le inclinazioni papali, visto che non aveva voglia di impegnarsi a espugnare Roma, essendo ancora Napoli il suo vero obiettivo.

 

“Se anche Roma provasse a opporre resistenza, al massimo potrebbe ritardare la vittoria dei francesi di qualche giorno, non di più.” disse Calco, ricontrollando i resoconti che aveva davanti: “Il papa non ha abbastanza soldati e la popolazione non lo asseconderebbe mai, contro un simile esercito. I napoletani si stanno chiudendo a riccio e re Alfonso si sta disinteressando sempre di più delle sorti del suo Stato e di suo figlio.”

Ludovico il Moro, imbacuccato nel suo mantello bordato di pelliccia, sprofondò ancor di più nel divanetto. Teneva tra le mani un calice di vino caldo speziato e avrebbe pagato tutto l'oro del mondo pur di poter rimanere sotto le coperte fino al mattino dopo. Aveva qualche brivido e la voce un po' abbassata e la guerra era l'ultima cosa a cui voleva pensare.

Beatrice Este, una mano sul pancione e una sul davanzale della finestra, guardava fuori la neve che cadeva nel cortile del palazzo di Porta Giovia. Gli Aragona, una volta perso Ferrante, non si erano minimamente dimostrati all'altezza della situazione. In più, da quando Gian Galeazzo Sforza era morto, anche sua cugina Isabella sembrava aver perso tutto il suo spirito combattivo.

“A sapere che finiva così – disse tra sé la giovane, mentre i due uomini restavano in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri – avremmo potuto evitare di tirarci in casa i francesi.”

Bartolomeo Calco avrebbe tanto voluto dire che lui non era stato convinto dall'idea di chiamare in Italia Carlo VIII fin dal principio, ma sapeva che il Moro lo avrebbe preso a male parole, se avesse osato farlo. Così fece solo un breve cenno con il capo, che però Beatrice, che gli dava le spalle, nemmeno vide.

“Di questo passo re Carlo conquisterà anche Napoli con una facilità estrema...” continuò Beatrice, la cui mente era dilaniata tra le preoccupazioni legate alle velleità dichiarate del Duca d'Orléans e quelle dovute alle attenzioni che il marito continuava a dedicare a Lucrezia Crivelli.

Anche se la Duchessa era pressoché certa che tra il marito e la dama di compagnia non fosse ancora successo nulla, il dubbio che un giorno lui avrebbe ricominciato a tradirla proprio con quella donna non le dava pace.

Era come riavere tra le mura del palazzo ducale quella peste che era stata Cecilia Gallerani. Per Beatrice, in certi momenti, era peggio di una tortura inflitta dal più abile degli aguzzini. Forse Ludovico nemmeno se ne avvedeva, ma lei passava notti intere a ragionarci sopra e più di una volta aveva pensato all'ipotesi di far scacciare quella dama di compagnia con una scusa qualsiasi, ma non l'aveva ancora fatto.

In cuor suo, purtroppo, nutriva una paura ancora più grande dei sospetti. Temeva che suo marito avrebbe dimostrato la sua contrarierà all'idea di licenziare la Crivelli o, ancora peggio, le avrebbe in qualche modo impedito di mandarla via e a quel punto i dubbi sarebbero divenuti certezze e Beatrice non voleva correre quel rischio. Non prima di dare alla luce il figlio che portava in grembo, almeno. L'astrologo di corte era stato molto chiaro: non doveva subire traumi, né emozioni troppo forti e la Duchessa era certa che scoprire il marito nuovamente fedifrago sarebbe stato per lei un trauma che le avrebbe causato emozioni devastanti.

“Non appena re Carlo avrà Napoli, a noi non interesserà più.” fece a quel punto Ludovico, la cui voce ricordava quella di un morto uscito dal sepolcro: “Anzi, meglio per noi che se ne torni in Francia il prima possibile.”

“E come credi di poterlo convincere a lasciare l'Italia tanto in fretta?” chiese Beatrice, lasciando il davanzale e andando a sedersi accanto al Duca.

L'uomo represse un brivido di freddo e fece spallucce: “Prima di tutto ridimensioniamo il nostro impegno militare. Richiamiamo qualcuno dei nostri generali, riduciamo il foraggiamento e la quantità di soldati a disposizione. Nessuno potrà biasimarci, in fondo. Avevamo chiesto Pisa in cambio del nostro sforzo bellico, e invece re Carlo l'ha liberata da Firenze e l'ha proclamata autonoma. Un nostro progressivo disimpegno non dovrebbe stupire nessuno.”

Calco ascoltava in silenzio, chiedendosi come avrebbero potuto seguire una simile linea senza quantomeno insospettire Carlo VIII.

“Intanto sguinzaglierò degli ambasciatori validi, come mio nipote, e convincerò i signori di tutta la penisola della malafede di Carlo. Che lo vedano come un invasore da scacciare.” fece Ludovico, mentre Beatrice lo fissava con severità: “Venezia sta già architettando un piano per dar contro a re Carlo e noi li asseconderemo, quando sarà il momento. In più, l'Imperatore non aspetta altro che avere un pretesto per mettere in ridicolo il re di Francia.”

“Vorresti risolvere un'invasione straniera con un'altra invasione?” chiese Beatrice, attonita, cercando sostegno anche in Calco, che, invece, fece di tutto per non incrociare il suo sguardo nemmeno per sbaglio.

Ludovico si spazientì. Aveva la testa che pulsava e nemmeno il vino caldo sembrava riuscire ad alleviare le sue penitenze.

“Lasceremo che Carlo resti un po' al sud e che risalga, passando anche per lo Stato del papa. Ma prima che arrivi nel nostro Ducato lo farò spazzare via.” disse il Duca, mettendosi in piedi a fatica.

La moglie incrociò le braccia grassocce sul petto e accigliandosi domandò: “E dove vorresti farlo fermare? In Romagna o più a nord?”

Ludovico sbuffò e rispose: “Non lo so. Prima devo sistemare la questione di Forlì.”

“Che intendete dire?” fece Calco, staccando finalmente gli occhi dalle sue carte e concentrandosi sul suo signore.

Il Moro andò al camino, allungò le mani e, dopo un colpo di tosse, disse: “Intendo dire che non mi fido di mia nipote e ancor meno di quel suo maledetto amante. Quel dannato Feo ha fatto di tutto, all'inizio della guerra, per far sì che mia nipote si mettesse contro di me e adesso fa chiamare suo figlio Carlo come il re di Francia che lo ha fatto Barone. Se vogliamo avere dalla nostra Imola e Forlì dobbiamo disfarci di quell'impiccione.”

“Potrebbe non essere una mossa saggia.” fece notare cautamente Calco.

“Infatti. Ragiona, Ludovico. Credi che tua nipote sarà più incline a star dalla nostra parte se tu le uccidessi l'amante?” chiese Beatrice, trovando sconcertante la scarsa lungimiranza del Moro.

“Lo Stato di mia nipote è mio!” sbottò Ludovico, che non ammetteva critiche in merito a quel suo modo di ragionare.

Per lui erano suoi tutti gli Stati dei nipoti. Perfino l'Impero, in una certa misura, gli pareva suo, da quando la nipote aveva sposato Massimiliano d'Asburgo.

“Una volta eliminato il mantenuto di mia nipote, se sarà il caso elimineremo anche lei e a quel punto non dovrò fare altro che usare i suoi figli a mio piacere.” tagliò corto il Moro, mentre la moglie lo fissava incapace di opporre resistenze.

“Calco!” esclamò il Duca, facendo deglutire il suo cancelliere in modo molto rumoroso: “A che punto sono le nozze tra la figlia di mia nipote e quel poveraccio di Manfredi?”

Bartolomeo, a voce bassa, dovette confessare: “Vostra nipote continua a tergiversare...”

Ludovico fece un verso strozzato di disappunto e commentò: “Quella donna è impossibile. E quei maledetti faentini che continuano a scrivermi...!”

Mentre cercava di scacciare dalla memoria le lungaggini di Niccolò Castagnino, che a nome di tutta la città di Faenza aveva preso a scrivere con una regolarità allarmante al Moro pregandolo di intercedere presso la nipote per far sì che finalmente i due Stati venissero uniti in matrimonio, in modo da fronteggiare uniti tutte le sfide di quei terribili mesi, il Duca concluse: “Ebbene, domani scriverò precise indicazioni a Sfrondati. Che acceleri questo matrimonio. Una volta unite le due famiglie, sarà il momento di eliminare il Feo e se necessario mia nipote e a quel punto mi proporrò come difensore dei poveri orfani di Forlì e le terre da Imola a Forlì, Faenza compresa, saranno mie!”

Beatrice e Calco si scambiarono una veloce occhiata in cui le perplessità di entrambi trovarono conferma l'uno nell'altra. Il Duca non si accorse della loro intesa, e così, come se la questione fosse chiusa una volta per tutte, appoggiò di malagrazia il calice ancora mezzo pieno sulla scrivania del cancelliere e lasciò la stanza, borbottando tra sé una sfilza di improperi equipartiti tra sua nipote e il re di Francia.

 

“Certo che questi napoletani, quando si mettono, sono davvero ottusi.” commentò a denti stretti Alessandro VI, stracciando l'ennesima lettera di re Alfonso, che gli offriva una via di fuga sicura e la fortezza di Gaeta: “Ho Castel Sant'Angelo. Se non sono al sicuro qui, figuriamoci nella sua rocchetta da due soldi!”

La bella Giulia cominciava a nutrire qualche dubbio sulla politica del papa, ma sapeva di non potersi esprimere con cognizione di causa.

Rodrigo Borja, in abiti da camera, si affacciò alla finestra aperta del Belvedere. Oltre Castel Sant'Angelo, come una beffa ben studiata, poteva vedere le ombre dei primi cavalli dei francesi che pascolavano beati, cercando un po' d'erba commestibile in mezzo a quella secca e ghiacciata dalla gelata improvvisa di quella notte.

“Un messaggio.” la voce del servo che aveva appena portato nella stanza una missiva dall'aria ufficiale raggelò per un momento il sangue nelle vene del papa, che, immerso com'era nelle sue elucubrazioni, non si era accorto subito del suo arrivo.

“Grazie, datemi qui.” fece Alessandro VI, allungando un braccio e quasi strappando di mano il messaggio al domestico.

Dopo aver invitato con un gesto sgraziato del capo il delatore ad andarsene, Rodrigo spezzò il sigillo del re di Francia e cominciò a leggere in silenzio.

Giulia Farnese avrebbe voluto chiedergli che stava accadendo, ma sapeva per esperienza che era bene non distogliere Sua Santità dalla lettura, specialmente se si trattava di messaggi scritti in lingue che non fossero lo spagnolo o l'italiano.

Le labbra di Rodrigo disegnavano man mano le parole e il modo in cui la sua fronte si distendeva e si aggrottava a intervalli regolari faceva ben capire quanto fosse in effetti in difficoltà con il francese, una lingua da lui ritenuta barbara e incoerente.

Alla fine, comunque, il suo viso riassunse il solito cipiglio e il suo naso importante vibrò di indecisione per un lungo istante.

Il papa stava cercando di valutare le proprie possibilità senza lasciarsi trascinare dal panico, ma farlo era molto più complesso di quanto potesse sembrare. Rodrigo ricordò con amarezza quando si prendeva la libertà di dileggiare i papi che lo avevano preceduto, quando si trovavano in guai simili, senza sapere che poi sarebbe toccato anche a lui prendere decisioni difficili e discutibili.

Diede una rapida occhiata alla donna che attendeva una sua reazione chiara e improvvisamente comprese quali mosse fare.

Se i suoi figli, in particolare Juan, fossero stati più adulti, forse avrebbe provato a seguire una strada diversa, ma doveva essere realista e combattere con le sole armi che aveva a sua disposizione.

“Aspettami in camera mia, adesso ho da fare.” fece infine Rodrigo, sfilando accanto alla bella Giulia, alla quale non restò altro da fare se non eseguire quel mezzo ordine.

Dopo essersi buttato addosso l'abito da papa, Alessandro VI andò dai carcerieri e disse: “Liberate Ascanio Sforza. Che sia pronto a uscire di qui prima dell'alba.”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas