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Autore: Adeia Di Elferas    28/12/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare Borja guardava continuamente fuori dalla finestra, scostando con un dito la pesante tenda che copriva la visuale sulla strada. Suo padre era stato molto chiaro, aveva assicurato che il tempo c'era, ma il giovane non aveva alcuna intenzione di sentirsi rimproverare per non essere stato abbastanza veloce.

Vannozza Cattanei ricontrollò un'ultima volta di avere tutto quanto le fosse strettamente necessario nella sua bisaccia da viaggio e fece un cenno al figlio.

A quel punto Cesare le prese di mano il borsone e la precedette fuori dal salone.

Attraversarono a passi rapidi la casa sontuosa di Carlo Canale, che li guardò andar via senza dire una parola, tacitamente d'accordo con il papa sul fatto che quello fosse un accorgimento necessario.

Carlo, pur avendo lottato strenuamente con sé stesso, alla fine si era ritrovato geloso di quella moglie che il papa gli aveva concesso come onore e onere anni prima. Anche se Vannozza aveva passato da qualche tempo i cinquant'anni, restava una donna bellissima e l'uomo, con il passare delle stagioni, aveva conosciuto di lei molti lati nascosti che lo avevano rapito.

Perciò, se riusciva ancora a sopportare gli incontri furtivi tra la donna e il papa – solo perché Vannozza in persona gli aveva assicurato che quegli appuntamenti avevano come unico scopo quello di parlare dei figli – che lui stesso combinava, trovava molto più penoso dover concedere alla moglie il permesso di andare a ritirarsi a Castel Sant'Angelo assieme a Rodrigo Borja, malgrado si trattasse solo di una misura di sicurezza.

In tutta franchezza, avrebbe preferito saperla lontana, piuttosto che sotto lo stesso tetto dello spagnolo. Dicevano che Giulia Farnese fosse scappata dal Vaticano, anche se nessuno sapeva dire dove. Carlo non pensava, come invece facevano in tanti, che fosse stato proprio Rodrigo ad allontanarla. Quella donna era una volpe e quindi era probabile che il suo grande amore per il papa fosse svanito con la paura di essere di nuovo catturata. Per come la pensava Canale, la bella Giulia a Roma non la si sarebbe più rivista, perché quella fuga non sarebbe stata perdonata facilmente dal sanguigno Borja.

Ecco, anche a costo di non rivederla più, Carlo avrebbe preferito sapere Vannozza diretta ovunque fosse diretta anche la Farnese, a patto di saperla lontana da Rodrigo.

“Andiamo.” sussurrò Cesare, una volta all'ingresso del palazzo, dopo aver controllato con attenzione a destra e a sinistra.

Tirandosi il cappuccio del mantello sui capelli chiari, in alcuni punti già bianchi, Vannozza diede un ultimo sguardo a Carlo Canale, con un cenno d'intesa, come a dirgli di non preoccuparsi, e seguì suo figlio per le vie di Roma.

 

Il 31 dicembre 1494, aperte le porte della città, i francesi entrarono a Roma.

La sfilata dei soldati d'Oltralpe durò oltre sei ore. Re Carlo, affiancato da Prospero e Fabrizio Colonna, raggianti nelle loro armature nuove, attraversò la via Lata, diretto a palazzo San Marco, scelto come sue residenza temporanea.

Ad accompagnarlo vi erano cinquemilacinquecento nobili agghindati come principi, fanti svizzeri e tedeschi che facevano rullare i tamburi da guerra, ufficiali con strabilianti piume sugli elmi, soldati con spade corte e picche di legno lunghe dieci piedi, alabardieri, una compagnia di archibugieri ogni mille fanti, cinquemila guasconi, bretoni e francesi a seguire, quasi tutti balestrieri, con indosso fini abiti di foggia fiorentina, testimonianza della recente conquista, ancora dopo la cavalleria, fior fiore della nobiltà di Francia, con mantelli di seta e collane d'oro che tintinnavano a ogni passo dei cavalli, duemilacinquecento armigeri coperti d'acciaio e cinquemila cavalleggeri senza corazza in sella a bestie di razza con coda e orecchie mozzate all'uso franco, con accanto un paggio e due scudieri tutti a cavallo e ancora cavalleggeri con arco grande all'inglese o con mezza picca, altri quattrocento arcieri, e infine, come guardia personale del re, duecento cavalieri scelti con gualdrappe porpora e bellissimi corsieri.

Chiudevano ben trentasei cannoni di bronzo, una quantità non indifferente di colubrine e un numero notevole di falconetti.

I cittadini di Roma, che in tutto non erano che una manciata di persone rispetto all'immenso esercito portato da Carlo VIII, osservarono con stupore e paura quel corteo che pareva infinito e che si stipava nelle strette vie della città, straripando di quando in quando in viottole secondarie, seminando il terrore tra i romani che non avevano fatto in tempo a chiudersi in casa.

Appena prese possesso del suo nuovo palazzo, il re di Francia ordinò ai suoi di costruire seduta stante in tutte le piazze di Roma delle forche, affinché tutti quanti capissero che da quel momento in poi la legge era lui, anche se ufficialmente lo fece per ricordare alle proprie truppe che le trasgressioni sarebbero state punite.

Fece schierare i cannoni nella piazza e ai lati del portone di palazzo San Marco e poi diede il via libera ai suoi di passare qualche ora – anche qualche giorno – a riprendersi dal lungo viaggio.

Quella notte, al sicuro a Castel Sant'Angelo, divorato dall'ansia per la scomparsa improvvisa di Giulia Farnese, scappata chissà dove e con chi qualche giorno addietro, Rodrigo Borja osservò Roma accendersi di torce e rimbombare di grida e risate sguaiate.

Il papa sapeva che la città che gli stava dinnanzi quella notte stava sanguinando, ma non gli importava. Che svuotassero le case, che rapissero le donne e uccidessero i bambini. Quello che importava a Rodrigo era far sì che si sfogassero in fretta, in modo da vederli ripartire rapidamente, così da potersi concentrare su ciò che davvero gli premeva.

Mentre ragionava su tutti quei fatti, Vannozza lo raggiunse a passi leggeri e, quando gli fu alle spalle, gli sussurrò: “Vorresti non essere qui, vero?”

Rodrigo avrebbe voluto rispondere: 'Vorrei essere ovunque si trovi Giulia'. Tuttavia non se la sentì di dire una cosa del genere alla donna che aveva amato sopra tutte le altre. Era pur sempre la madre dei suoi figli prediletti.

“Hic menebimus optime.” le disse, contraendo appena i muscoli del collo.

Vannozza sospirò e, affiancando il papa, gli appoggiò con delicatezza una mano sulla spalla e si mise con lui a guardare fuori dalla finestra, seguendo i bagliori sinistri che si inseguivano per le strade.

 

“Il fossato nuovo era davvero necessario?” chiese Ottaviano, vincendo la sua ritrosia nel mettere a parte la madre di alcuni suoi dubbi: “Non è solo uno spreco di soldi?”

I ricci morbidi del Conte erano smossi dal vento freddo di quella mattina di inizio gennaio e la bassa temperatura aveva donato alle sue guance un colorito di tutto rispetto.

Caterina era al suo fianco, sul camminamento della rocca di Ravaldino. Da quella postazione privilegiata stavano guardando i lavoranti che da qualche giorno avevano cominciato i lavori di scavo vero e proprio, seppur con grande fatica.

“Sì, lo era.” confermò la Contessa, senza dare altre spiegazioni, sicché, a suo parere, erano del tutto superflue, dato che Ottaviano aveva preso parte a tutte le riunioni durante le quali si era discusso in merito all'evidente necessità di quella miglioria.

“Le nostre casse sono quasi vuote, continuate a dirlo – proseguì il giovanissimo Conte – eppure avete deciso di fare questo fossato anche a costo di pagarlo di tasca nostra e non coi soldi delle tasse, quando è ovvio che è il popolo a beneficiare di una simile opera e non noi.”

Caterina si morse il labbro. Mentre Ottaviano parlava, stava gesticolando in modo del tutto simile a Girolamo e tanto le bastava per non essere oggettiva nel valutare le sue parole. Si sforzò di ripensarci senza fare associazioni mentali con il suo primo marito, ma si convinse che il discorso di suo figlio non stava comunque in piedi.

“Questo fossato potrebbe salvarci la vita.” spiegò, tentando di essere paziente: “Se Forlì cadesse in mano agli stranieri o a mio zio Ludovico – Caterina ignorò il lampo che attraversò gli occhi di Ottaviano – sai che ne sarebbe di noi? Quel fossato protegge noi, ancor prima di proteggere il nostro Stato.”

Il Conte non trovò nulla con cui argomentare una sua battuta di rimando, così sporse in fuori le labbra carnose e continuò a fissare dritto davanti a sé gli operai che cercavano di aver ragione del terreno ghiacciato.

Caterina non aveva ancora avuto il coraggio di fargli domande precise sull'ultima notte che i francesi avevano trascorso e a Forlì e forse non l'avrebbe mai trovato. Sapeva che suo figlio aveva ormai un'età in cui era lecito per un ragazzo cercare la compagnia di una donna, tuttavia non poteva fare altro che restare in ansia.

Oltre a temere il mal francese, che dal passaggio delle truppe di Carlo VIII si stava spandendo a macchia d'olio lungo tutta la penisola italiana, la Contessa aveva anche la paura di sapere suo figlio padre prima del tempo e per evitare entrambi i pericoli – o almeno per essere pronta ad affrontarli – avrebbe voluto sapere di più.

Non voleva che Ottaviano diventasse come Girolamo anche sotto quel punto di vista. Il suo primo marito aveva sparso figli in giro come se non gli importasse, e forse era così, ma Caterina voleva che suo figlio fosse un uomo migliore di suo padre.

Però le risultava troppo difficile fare con lui quel genere di discorsi, seppur restando sul vago.

L'unico tentativo degno di tal nome che aveva fatto risaliva alla cena di Capodanno. Cogliendo Ottaviano intento a avvicinarsi alla porta del salone in cui si stava tenendo una festa con pochi invitati, così come era stata quella di Natale, Caterina lo aveva avvicinato e aveva provato a fare un'allusione ai generosi regali fatti dai francesi la notte della loro partenza.

Il Conte, difficile capire se volutamente o meno, diede una risposta molto vaga: “Molto generosi, è vero.”

Allora Caterina aveva provato a redarguirlo: “In futuro ti invito a stare molto attento ai regali che potenti e sedicenti amici potrebbero farti, soprattutto se non li conosci a fondo. Prima o poi potresti accettare un favore e renderti conto troppo tardi che si trattava di una cosa da nulla, ma ormai saresti obbligato a sdebitarti.”

“I francesi non hanno chiesto nulla in cambio.” aveva controbattuto Ottaviano, in parte tradendosi.

La Contessa aveva assunto un'espressione neutra, sforzandosi di non far trapelare nulla di quello che pensava e aveva riparato dicendo solamente: “Pensa bene a quello che fai, sempre. Le nostre scelte condizionano non solo il nostro futuro, ma anche quello del nostro Stato.”

Al che Ottaviano, rispolverando l'audacia che sapeva mostrare di quando in quando, aveva lanciato un'occhiata molto significativa verso Giacomo, che era ancora a tavola, e aveva concordato, sarcastico: “Avete proprio ragione, madre.” ed era uscito.

Un soffio di vento appena più forte degli altri scompigliò Ottaviano, che, stringendosi nel suo giubbetto azzurro imbottito, disse: “Ho freddo. Sono stanco di starmene qui a vedere gli altri faticare.”

La madre gli fece un cenno con il capo, e il giovane Conte lasciò i camminamenti, rientrando nella rocca.

Giacomo Feo, che per tutto il tempo aveva tenuto un occhio puntato alle merlature della rocca, non appena vide il figlio della moglie allontanarsi abbandonò la zappa e raggiunse Caterina.

La Contessa si accorse subito di quell'iniziativa, e così indugiò là dov'era, appoggiandosi alla pietra fredda e fingendo di trovare molto interessante un battibecco nato tra due operai che si accusavano a vicenda di non essere abbastanza forti per scavare.

Quando il Barone le fu accanto, la donna lo squadrò a lungo e così Giacomo si sentì in dovere di commentare: “Sono tutto sporco di terra, lo so.” e cercò di togliersi un po' di polvere di dosso con qualche colpo a mano aperta.

“Io ti preferisco così.” ribatté la Contessa, trovando in effetti molto più piacevole la vista di suo marito in abiti da lavoro, che non addobbato come un signorino dell'alta società.

Per qualche istante il Barone sembrò in procinto di dire qualcosa, ma alla fine rinunciò, mettendosi accanto a Caterina a guardare i manovali che cercavano di mandare avanti gli scavi.

La Contessa trovò strano quel silenzio, così diede voce ai suoi pensieri: “Solo un paio d'anni fa – sussurrò, in modo tale da non essere sentita da altri se non dal marito – in un momento come questo avresti detto che avremmo dovuto mollare tutto e scappare in campagna, solo noi due, a vivere di quello che ci avrebbe dato la terra e di quello che avrei cacciato nei boschi.”

Giacomo parve a disagio. Le si fece appena più vicino e, appoggiando entrambe le mani alla merlatura della rocca, fece un profondo sospiro.

Mentre una nuvola fitta di condensa si liberava dalle sue labbra, il Barone soffiò: “È che adesso ho capito che non si può.” poi dedicò alla donna un'occhiata in tralice: “Ci ho messo un po', ma adesso che lo so, preferisco non perdere tempo a illudermi.”

Caterina sentì improvvisamente un gran freddo. Si strinse nelle spalle e si chiese se non fosse tempo di tornare al riparo, davanti a un camino acceso.

Giacomo interpreto il suo brivido come un qualcosa rivolto alla sua costatazione, così si lasciò scappare: “Però a volte ci penso ancora. Magari tra qualche anno, quando tuo figlio sarà in grado di cavarsela da solo...”

“E quando pensi che riuscirà a farlo?” chiese Caterina, chinando il capo e guardando con diffidenza una delle guardie che, per il suo giro di ronda, stava passando loro accanto: “Cinque, sei anni? Sette? A quel punto io avrò quasi quarant'anni e tu avrai da poco passato i trenta. Troverai ancora così allettante l'idea di startene da solo con me a vivere una vita con poche comodità e nessuno sfarzo?”

Il Barone parve pensarci davvero e alla fine, seguendo la moglie che stava raggiungendo le scale per tornare nella rocca, rispose: “Sì, credo che la troverei ancora un'idea molto allettante.”

La Contessa represse una risata, ritrovando nel tono cocciuto di Giacomo il suo vecchio ottimismo, quello che li vedeva uniti anche a distanza di secoli, senza alcun problema né preoccupazione. Non si diede la pena di mettere a parte l'uomo delle sue perplessità circa quel piano folle, primo tra tutti il fatto che lei sarebbe sempre stata un bersaglio per qualcuno e che Ottaviano, probabilmente, non avrebbe mosso un dito per difenderla, se lei si fosse allontanata da lui in modo tanto radicale.

Mentre scendevano le strette scale, Caterina si convinse che non era più il caso di indugiare in certi rancori. La vita era incerta e il futuro poteva riservare qualunque disgrazia. Doveva fare quel che poteva per essere felice, finché le era concesso.

“Questa sera, dopo cena, non venire in camera mia.” disse la Contessa, appoggiando con leggerezza una mano sul petto del marito, quando si trovarono in un corridoio deserto.

Giacomo deglutì, ma non fece in tempo a chiedere cosa fosse successo per meritare quella punizione che Caterina gli fece comprendere che si trattava dell'esatto opposto: “Aspettami al Paradiso. Da stanotte mi trasferisco di nuovo assieme a te.”

Il Barone spalancò gli occhi: “Mi hai perdonato allora?”

La donna fece un'espressione molto strana, mentre la mano appoggiata sul cuore di Giacomo scivolava lentamente sulla stoffa umida e macchiata di terra: “Avanti – gli disse, senza accennare a una risposta alla sua domanda – torna a lavorare, che ti stanno aspettando.”

Giacomo rinunciò all'istante a ottenere una spiegazione, già abbastanza felice di sapere che la moglie sarebbe tornata al loro appartamento privato che, soprattutto in inverno, era come un piccolo mondo lontano da tutti i problemi esterni.

Tenendo d'occhio il marito che tornava sui suoi passi per raggiungere di nuovo gli operai, Caterina sentì qualcuno alle sue spalle correre verso di lei.

Francesco Oliva, tenendosi una mano sul fianco, le guance rosse per lo sforzo, esclamò: “Contessa! Vi stavamo cercando!”

Comprendendo all'istante che il milanese non stava usando il plurale maiestatis, la Contessa gli si avvicinò, domandandosi perché mai più di una persona la stesse cercando.

“Re Carlo!” fece l'Oliva, tirando il fiato: “Da tre giorni è entrato a Roma e presto papa Alessandro lo incontrerà!”

“Le truppe di Rodrigo Borja hanno contrattaccato?” chiese subito Caterina, partendo di gran carriera verso lo studiolo del castellano, sperando di trovarvi Tommaso Feo.

“No! Le porte di Roma sono state aperte! Il papa si è arreso senza combattere!” disse l'Oliva, faticando a star dietro alla sua signora.

A quelle parole Caterina inchiodò e guardò l'uomo incredula: “Senza combattere?”

“Senza combattere.” confermò l'uomo, cercando di controllare l'ansimo: “E ha anche liberato vostro zio Ascanio Sforza.”

“Quel diavolo di un Borja...” commentò la Contessa, mentre uno spontaneo sorriso le saliva alle labbra: “Ha lasciato la nave che affondava appena prima di bagnarsi le sottane...!”

 

Bona di Savoia si fece il segno della croce e salì sulla carrozza. Non le piaceva viaggiare di notte e da quando Gian Galeazzo era morto collegava il suono delle ruote e degli zoccoli dei cavalli al momento in cui aveva visto il suo feretro partire da Pavia alla volta di Milano.

Tuttavia, pur con il cuore in gola e una fitta nel centro della testa per il troppo piangere di quel giorno, sapeva di non aver tempo per perdersi nelle sue paure.

Pregando ancora per Isabella d'Aragona, la sua testarda nuora, che non aveva voluto seguirla, Bona diede ordine al cocchiere di partire.

Aveva chiesto alla giovane di lasciar partire con lei almeno i suoi bambini. Isabella non aveva voluto lasciarli.

“Partorisci in Francia!” le aveva ripetuto mille volte Bona: “Vedrai che faremo in tempo a far nascere tuo figlio in Francia!” ma anche a quella preghiera la nuora era rimasta sorda.

Forse era impazzita una volta per tutte per via del dolore. O forse aveva ragione lei a voler restare, sperando ancora nella riconquista dei napoletani.

Bona non credeva più a nulla. Ora che Carlo VIII era entrato a Roma senza dover sparare nemmeno un colpo di colubrina, non c'erano più certezze per nessuno.

Voleva solo trovare riparo e l'unico posto che le era parso sufficientemente lontano da suo cognato Ludovico era la corte di Amboise. Una volta là, protetta e al sicuro, avrebbe pregato suo nipote Filiberto di Savoia di farla ritornare nelle sue terre natali e sarebbe sparita dal mondo nella pace del suo Paese d'origine.

Mentre la carrozza arrancava sul terreno secco dei sentieri pavesi, Bona diede un ultimo sguardo alla terra che l'aveva vista prima Duchessa e poi prigioniera e supplicò Dio di mettere un po' di ragione nella testa di sua nuora.

“Fa' che mi raggiunga in Francia, fa' che cambi idea...” bisbigliò, afferrando il rosario e ricominciando a piangere.

 
   
 
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