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Autore: _Noodle    29/12/2016    3 recensioni
 
“Quando la danza diventa un’esigenza, un bisogno primario e necessario, la musica fuoriesce dalla sua tana avvolgendo i corpi degli amanti, sgorgando dagli strumenti e dai grammofoni, dalle casse e dalle console. Quando si balla è notte. Quando si ascolta, il sole è lontano”.
Raccolta di One-Shot: ad ogni decennio del Novecento corrisponde un genere musicale, ad ogni sonorità un diverso e particolare modo di danzare.
~ The Romantic Naughties: 1911 [KuroTsuki].
~ The Roaring Twenties: 1925 [DaiSuga].
~ The Dirty Thirties: 1936 [AsaNoya].
~ The Flying Forties: 1946 [YamaYachi].
~ The Stylish Fifties: 1957 [KuroKen].
~ The Revolutionary Sixties: 1964 [KageHina].
~ The Eccentric Seventies: 1973 [IwaOi].
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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1936, Musica Jazz.
Yuu Nishinoya, che dovrebbe trovarsi da un’altra parte, preferisce ascoltare “When you’re smiling” di Louis Armstrong.
 
 
 
 
 
 
 
Novembre, 1924
 
Oscillo.
Il cadenzato movimento delle onde mi culla sgraziatamente. Sento il legno dell’immensa imbarcazione scricchiolare sotto le mie natiche, un continuo e grave ronzio disturba il sonno dei bambini, facendoli piangere. Una malcelata nausea accompagna i miei respiri, viso nascosto tra le ginocchia e dita delle mani intorpidite per il freddo. Battiti accelerati, un tamburo al posto del cuore. Non potendo affacciarmi sul mare ho perso la cognizione del tempo, dell’alternarsi del dì e della notte, del trascorrere dei minuti e delle ore. Non dormo da ormai due giorni, credo, perché il puzzo che aleggia nell’aria è sempre più insopportabile: odore di paura, di disperazione, di felicità, di speranza. Sudore e pipì.
La mia valigia di cartone è a pochi passi da me. Dentro ci sono solamente uno spazzolino da denti e qualche calzino. Non ho molto, ne sono consapevole, e sono consapevole anche del fatto che sarà difficile sopravvivere alla novità, trovare un posto in cui alloggiare, un lavoro, dei vestiti nuovi e forse una dignità. Sono consapevole di essere solo, di non avere molto con cui cominciare, ma tanto per cui lottare. Sono consapevole del fatto che io non mi arrendo mai. Avrei già abbandonato la nave gettandomi in mare aperto e sperando di affogare, avrei rinunciato a metterci piede se solo fossi un codardo. Ma io non lo sono, perché io non mi arrendo mai.
Ripetermelo è diventata la mia sicurezza. 
A bordo del barcone ci sono donne amorevoli e bambini strillanti, uomini di diverse età ed animali tremanti. Nessun passeggero ha più di una valigia con sé. Alcuni tentano di dormire appoggiando il capo su qualche vecchio indumento, altri giocano a carte ed altri ancora, semplicemente, fissano il vuoto. La mia mente è piena d’interrogativi e sebbene sia ancora un ragazzino sono certo di poter badare a me stesso, certo di poter ricominciare. Ciò che sto affrontando non m’intimorisce, né mi reca sconforto. Io sono un Nishinoya, e nel mio paese si dice che i Nishinoya non abbiano paura di nulla e che nemmeno i miei genitori abbiano avuto paura in quel momento. Ripetermelo è diventata la mia sicurezza.
Un vecchio si avvicina a me. Ha gli occhi velati da una patina biancastra, ma uno scintillante barlume di positività risplende con intensità nelle sue iridi. Credo di non aver mai incontrato degli occhi così, prima d’ora.
<< Anche tu diretto in America, ragazzo? >> mi domanda dopo essersi accomodato al mio fianco, tastando il pavimento con le mani; a causa di quei movimenti, capisco che l’anziano signore è cieco. Come avrà fatto a percepire la mia presenza? Come a capire che ero un ragazzo e non una ragazza? Ha i capelli bianchissimi e i lineamenti simili ai miei. Credo provenga da una regione del Giappone diversa dalla mia, dato l’accento particolare.
<< Sì >> rispondo sorridente.
<< E la tua famiglia? >>
<< Io non ho una famiglia. >>
Noto un lieve appunto di tristezza offuscare la sua espressione gioviale e questo mi rattrista più di quanto possa rattristarmi sapere di essere solo. Sorrido per non sprofondare, anche se non mi può vedere.
<< Se cerchi fortuna, non temere. In America troverai tutto ciò di cui hai bisogno, ne sono convinto. Come ti chiami? >>
<< Mi chiamo Yuu, Yuu Nishinoya. >>
<< E quanti anni hai, Yuu Nishinoya? >>
<< Undici e mezzo. >>
Uno strano ghigno compiaciuto affiora sulle sue labbra, sopracciglia folte che s’inarcano leggermente.
<< Non farti spaventare dalle avversità. È difficile all’inizio, per tutti. Attendi con pazienza ed il momento per essere felice arriverà. Devi soltanto fare affidamento su qualcosa di più grande di te. >>
E il vecchio se ne va.

 
00:03, 7 marzo 1929
 
<< Ryu, stai attento a non mollare la presa, o potrei fracassarmi il cranio. >> 
Tanaka trattiene il lembo superiore del lenzuolo del mio letto per non farmi cadere. Ne abbiamo legati insieme sei con maestria, assicurandoci che i nodi fossero sufficientemente resistenti da non sciogliersi. Ci vuole ben poco per sorreggere i miei miseri quarantotto chilogrammi, ma è stato meglio intrecciarli seguendo le dettagliate istruzioni di Ryu: suo padre era un marinaio. 
Ebbene sì, sto scappando.
Ho sedici anni e l’orfanotrofio all’angolo tra la Centododicesima Strada e Lexington Ave comincia a starmi stretto. Sbarcato al porto di Manhattan ero ricolmo di aspettative: sono fuggito in America per riscattarmi, per trovare fortuna tra le strade della prosperosa New York City, ma un bambino di undici anni, se non in un orfanotrofio, non ha possibilità di sopravvivere e l’ho imparato a mie spese. Avevo fame. Ora, dopo cinque anni di stenti e d’ingiustizie, è arrivato per me il momento di fuggire e di essere indipendente. Avevo solcato il suolo americano con le migliori intenzioni. Scendendo dalla nave immaginavo che una radiosa e sterminata via si sarebbe srotolata davanti a me, offrendomi tutto ciò che la vita avesse da offrire ad un indifeso bambino di undici anni e mezzo. Non avevo paura, ero intrepido, non temevo di imbattermi in alcuna delusione, ed ero certo che tutto sarebbe stato difficile, ma incredibilmente stimolante.
Mi sbagliavo.
Niente e nessuno mi hanno offerto ciò che desideravo: ora, è arrivato il momento di andarmelo a prendere.
<< Stai attento là fuori, Nishinoya >> sospira Tanaka, vedendomi afferrare la cima della fune di lenzuola.
<< Non dubitare. Spero di non rivederti mai più, Ryu. >>
<< Lo spero anche io. >>

 
00:20, 7 marzo 1929
 
<< FERMATI RAGAZZO, E’ UN ORDINE! >>
Non ho più fiato. Vorrei strapparmi i polmoni. Non riesco a controllare i movimenti delle  mie gambe e le suole delle scarpe sono ruvide a tal punto da ustionarmi le piante dei piedi. Come mi è venuto in mente di scappare? Come? Sei proprio un disastro Yuu, fattelo dire! Sei un debole, un deficiente! Credevi che non se ne sarebbero accorti? Che nessuno avrebbe fatto la spia? Che la direttrice dell’orfanotrofio non avrebbe chiamato la polizia da un momento all’altro? Sei un ingenuo, uno sprovveduto. Te lo meriti.
Svolto l’angolo, ritrovandomi in un vicolo cieco. Tre alti muri di mattoni a sovrastare la mia piccolezza. E se non avessi seminato gli sbirri? E se la mia rapidità non fosse servita a niente in confronto alle loro falcate? Mi nascondo dietro ad un ammasso di rifiuti e bidoni di metallo, sperando che nessuno possa avvicinarsi a quello schifoso ammasso d’immondizia.
 
Quando sento dei passi veloci correre nella mia direzione è ormai troppo tardi.
 
<< Ti sei perso, Muso Giallo? >>
Una voce maschile ha individuato la mia presenza. È una voce giovane, altisonante, rispettabile. Dall’atteggiamento che ha nel rivolgersi a me, non credo si tratti di uno sbirro. Alzo gli occhi, impaurito e disgustato dal terribile odore che mi circonda.
<< Non sono tenuto a risponderti >> decreto, incontrando lo sguardo del mio interlocutore. È un ragazzo alto, dagli occhi e dai capelli castani; credo che abbia almeno venticinque anni. Sorriso smagliante, abiti puliti ad avvolgere una struttura fisica apparentemente gracile. Accanto a lui vi sono altre due figure.
<< Pantaloni sgualciti, scarpe bucate, braccia livide e capelli tagliati col coltello… direi che non sei più di un cane randagio. Orfanotrofio, dico bene? Come ti chiami? >>
Mi alzo, scuotendo i rifiuti dalla mia camiciola e dai pantaloni sgualciti. 
<< Come fai a saperlo? E comunque, mi chiamo Yuu Nishinoya >> balbetto sbigottito. È come se questo individuo, di cui non conosco nemmeno il nome, sapesse già tutto di me, da dove vengo, perché fuggo.
<< Ho naso per queste cose, e poi siamo distanti solo due quartieri da quello di Lexington Ave. Ne ho già visti tanti altri come te. Io, o meglio noi, possiamo aiutarti. Stai scappando dagli sbirri, non è così? >> mi chiede, tendendomi una mano.
<< Sì. >>
I tre si avvicinano paurosamente a me, con fare determinato e rassicurante. Si muovono velocemente, quasi impercettibilmente.
<< Tony, passami il cappello. >>
Il suddetto Tony si toglie il cappello dalla testa e lo passa al mio interlocutore, che lo gonfia e gli restituisce una forma.
<< Mettitelo, e fai cambio di giacca con me. >>
Seguo i suoi ordini, concludendo che questo è l’unico modo che ho per confondermi con loro e salvarmi la pelle. Una volta rinnovato il mio aspetto, vengo preso sottobraccio da Tony e dall’altro giovane uomo e trascinato sulla via principale.
<< Ma dove mi portate? Chi siete? >>
<< Ti portiamo a vedere di che cosa ci occupiamo. Con noi potrai iniziare a fare la bella vita. Si parla di soldi, tanti soldi. E anche di divertimento. Mi pare che tu sia decisamente solo e una collaborazione potrebbe giovare ad entrambi. Hai un bel faccino, e i bei faccini sono sempre utili quando si tratta di contrattare. Io mi chiamo J. Come già sai, lui è Tony e quest’altro fusto si chiama Frankie. >>
Percorriamo strade ampie e vie dalle pareti strette per una decina di minuti, fino ad arrivare all’angolo di un nuovo vicolo cieco. Appartamento numero 2. Saliamo quattro rampe di scale, poi J apre la porta dell’unica camera presente in quel piano.
<< Se vuoi scoprire di che cosa ci occupiamo Tony, Frakie ed io, non ti resta che varcare la soglia di questa porta, caro Noya >> sibila J, scostando una polverosa tenda viola e sorridendo smaliziato. 
Faccio qualche passo in direzione della suddetta stanza accompagnato dalle occhiate scaltre e compiaciute degli altri ragazzi: la potenza dei loro sguardi è simile a quella di sei mani che premono contro la mia schiena per farmi avanzare. 
Varco la soglia. Ciò che vedo all'interno della piccola camera non è nulla di più che una giovane donna. Credo che abbia qualche anno più di me. È distesa su un letto matrimoniale dalle lenzuola bianche e mi osserva divertita, dita attorcigliate ad una ciocca di capelli; credo sia stupita dalla mia piccola statura, forse, mi crede poco più che un bambino.  
<< Ehi dolcezza, benvenuto. Accomodati. Ma quanti anni hai? Sei così piccino... >> 
Resto immobile. La voce della ragazza dai capelli di mogano e dagli occhi di cristallo è suadente, sensuale, estremamente accattivante. Non è truccata, pelle pulita e lentiggini dipinte alla rinfusa sul suo volto da Madonna.  Cammina verso di me con incedere peccaminoso, la leggera e trasparente sottoveste che ricopre il suo corpo lascia intravedere tutto di lei, le sue linee, le sue curve, la sua intimità. È la prima volta che mi ritrovo in una situazione del genere, che mi trovo davanti al corpo nudo di una donna. Inizio a sudare copiosamente, esterrefatto dalla situazione surreale. Probabilmente la mia bocca si modella in una smorfia simile ad un sorriso e tento di indietreggiare. La ragazza, tuttavia, mi ferma e appoggia una mano sotto il mio mento, mi fissa per qualche secondo, e poi mi tira a sé. Mi sta baciando. Io sto baciando una ragazza. Sto assaporando la sua bocca, sto toccando la sua lingua. Mi accarezza il volto per poi passare alle spalle e alla schiena. Mi dice che, se voglio, posso toccarla. Sono intimorito dal tono soffice delle sue parole, dalla soavità con cui parla di oscenità. Io non voglio toccarla, non vorrei farlo, ma mi afferra la mano e la porta dove mai avrei voluto che arrivasse. La sento gemere, sebbene io non sappia nemmeno che cosa sto facendo. Dopo aver avvicinato le sue dita in direzione del cavallo dei miei pantaloni, comprende che non sono un bambino, e si lascia completamente andare. 
In breve tempo siamo nudi, distesi sul letto, intenti a fare sesso. Vestiti a terra, scarpe e camicia a contatto con il pavimento di moquette.
Non ho mai avuto così tanto freddo in vita mia. 
In questo momento di destabilizzante libidine, comprendo me stesso. Tra le gambe di questa donna, stelle e gocce di liquido seminale sembrano la stessa cosa e questo è un peccato imperdonabile: mai disconoscere le stelle. Comprendo che il mio primo bacio non è stato esattamente come me lo immaginavo e che non è stato né emozionante, né gratificante. Persino quando provavo a baciare la mia stessa mano per capire che cosa si provasse le sensazioni erano diametralmente diverse. Scopare è ripugnante. L'alito della donna non è profumato e le sue mani avide di corpi tormentano la mia carne bianca come se non avessero altro scopo. Mi fa male. La testa vortica e lo stomaco si contorce. Il mio bacino si muove avanti e indietro affondando in lei, mi muovo per inerzia, costretto dalle sue mani, dipinte di rosso. Non volevo che andasse così, non volevo che l'amore venisse usurpato in tal modo. È piacevole ed incredibilmente appagante, ma al contempo è disgustoso; non tanto perché questa ragazza con cui sto facendo l'amore sia una prostituta, non tanto perché i nostri gemiti siano ritenuti illegali dalla società, non tanto perché per me è la prima volta, la prima volta che concedo il mio corpo a qualcuno, non tanto perché tutto ciò mi sia stato silenziosamente imposto; ma perché la suddetta persona con cui il mio corpo si sta fondendo, non è ciò che apprezzo. Comprendo, in questo momento di destabilizzante libidine, che a me le donne non piacciono
Quando il tutto finisce, mi accascio di fianco a lei, incapace di realizzare che cosa sia appena accaduto. I miei obiettivi erano scappare ed abbandonare l'orfanotrofio il prima possibile, ma mi sono ritrovato a fare altro, senza nemmeno sceglierlo. Lei mi guarda con una strana felicità negli occhi, compassione e nostalgia sciolte in un timido sorriso. 
<< Sei un nuovo amico di J? >> mi chiede. 
<< Non mi definirei suo amico, l'ho conosciuto poco fa >> rispondo, coprendomi con le candide lenzuola del letto. Lei si sdraia sul fianco sinistro per fissarmi meglio negli occhi. 
<< Se accetti di ascoltare un consiglio dato da una ragazza di appena 19 anni, allora devi credermi. Accanto a J troverai protezione, diventerà come tuo fratello. Ci vuole bene, io e altre ragazze lavoriamo per lui e, senza differenze, ci guadagniamo entrambi. So che non è il lavoro più bello del mondo, ma per lo meno ho una casa e del cibo con cui sfamarmi. Non perdere questa occasione, il mondo là fuori è crudele. >> 
Dopo aver ascoltato le sue parole, decido che è arrivato il momento di sorriderle. Provo pena per la vita che conduce, ammirazione per la dedizione con cui pratica questo mestiere nauseabondo. Vendere il proprio corpo è spregevole. 
<< Come ti chiami? >> le domando. 
<< Elise. >> 
<< Io mi chiamo Yuu. >> 
Abbasso le coperte, mi chino e recupero i vestiti da terra. Mentre mi vesto, Elise parla ancora, o più precisamente, sussurra. 
<< Yuu, ho capito che non ti è piaciuto. Era la tua prima volta, non è vero? >> 
Annuisco. 
<< Sono sicura che qualche trucchetto ti servirà in futuro >> ridacchia, nascondendo una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. << Di' a J che ti sei trovato bene, per piacere >> conclude, volume di voce impercettibile e labbra tremolanti. 
<< Che non mi sia piaciuto non significa che non mi sia trovato bene, Elise. >> 
Annuisce, strizzando un occhio in segno di complicità. Comprendo che Elise diventerà mia amica. 
 
<< Allora? >>
J, schiena appoggiata al muro e braccia incrociate sul petto, batte il piede a terra, impaziente di scoprire che cosa pensi della loro illecita attività. Avrei dovuto capirlo da come erano vestiti che non erano dei ragazzi per bene, lui, Tony e Frankie, ma la possibilità di guadagnare soldi e di stare bene, per una volta nella vita, mi alletta come non mai. Sono stanco di viaggiare, di dormire per terra, di vomitare saliva e di piangere ogni notte. Voglio assaporare il benessere ed il successo che mi ero ripromesso di trovare in America e per farlo sono pronto a tutto. Cercano alleati? Un alleato avranno.
<< È questo quello di cui vi occupate? Prostituzione? Sapete che è severamente vietato portare avanti questo tipo di commercio? Se solo non mi fossi trovato così bene con Elise, vi avrei già denunciato agli sbirri! >> 
 
Una stretta di mano sancisce la mia entrata nella Gang. 
 
 

9 settembre, 1936
 
<< Ehi, Muso Giallo, lì c’è un tuo simile! >>
Getto lo sguardo oltre il bancone di uno dei locali meglio frequentati di New York City. Al limitare della porta della cucina, un giovane uomo dai lunghi capelli castani raccolti in uno chignon si affanna a portare ai rispettivi tavoli quattro pesanti e fumanti piatti di carne. E’ alto almeno venti centimetri più di me; fonte ampia, occhi allungati, pizzetto rado, spalle larghe e robuste. È impacciato, e camminando quasi teme di urtare il quieto vivere di chi gli sta attorno. Un gigante buono, imbranato e inaspettatamente cordiale. Sorride imbarazzato.
<< E quindi? >> domando, curioso.
<< Beh, perché non ci parli? Facci sentire come parli in giapponese dai! >>
<< Perché mai! Non mi interessa parlare con quel tizio… >>
Ma quel tizio, quasi a farlo apposta, si avvicina al nostro tavolo. Mentre posa le pietanze sulla mensa di legno, mentre la jazz band suona qualcosa di Cab Calloway, i nostri sguardi si sfiorano, si toccano con rispetto.
<< Ecco a voi. >>
La sua voce è profonda. Credo abbia la mia stessa età, ma, data la stazza, dimostra molto più di ventitrè anni.
<< Ehi, da dove vieni tu? Sei Cinese o Giapponese? Il nostro Noya, qui, è di un paese vicino a Tokyo, ma è uno dei nostri ormai, non è vero, Yuu? >>
<< Hai detto bene, J. Tu di dove sei? >> chiedo al cameriere, appoggiando il mento sul pugno della mia mano sinistra.
<< No, no! Che fai? Chiediglielo in giapponese! >> m’interrompe J, sorriso sornione e voce squillante.
Parlo nella mia lingua natia ed il giovane inserviente sembra capire che ciò che gli sto dicendo è tutt’altra cosa da quello che gli aveva domandato J.
 
<< Scusali, so che sono sfacciati. Solitamente, io cerco di comportarmi meglio con chi non conosco. >>
<< Non ho dubbi. >>
 
<< Dice che è di vicino Tokyo anche lui! Che coincidenza >> esclamo mentendo, scolandomi un altro bicchiere di vino rosso. Ovviamente il cameriere sta al gioco. Non so né da dove venga, né come si chiami, ma devo ammettere che già mi sta simpatico.
<< Come ti chiami, Muso Giallo? >> chiede J con il solito distinguibile tatto. Il fatto che si rivolga a me con quel nome non mi urta particolarmente, in quanto è stato questo suo modo di chiamarmi a salvarmi la vita, ma m’infastidisce particolarmente che lo usi per rivolgersi a gente della mi stessa razza. Lo trovo discriminante, schifoso.
 
<< Non dovrebbero usare quell’appellativo, scusali ancora. Come ti chiami? >>
<< Tranquillo. Mi chiamo Asahi Azumane. >>
 
<< Che gli hai chiesto, Noya? >>
<< Il suo nome in giapponese. Ha detto di chiamarsi Asahi. >>
J scuote la testa, incuriosito dal simpatico nome del cameriere. Non appena apre la bocca per parlare, il gigante lo interrompe, recuperando dal tavolo alcuni piatti precedentemente spazzolati.
<< Perdonatemi, ma devo tornare in cucina. >>
 

9 ottobre, 1936
 
Frequentiamo il locale da ormai un mese. Tutto è sempre uguale, l’atmosfera è sempre la stessa, i clienti si conoscono tutti. J è irriverente come al solito, ed il cameriere Asahi cordiale e premuroso. L’abitudine di trascorrere qui le nostre serate è diventata una necessità. Tutto è sempre uguale, ma qualcosa in me è cambiato. Sto iniziando ad odiare il mio lavoro e sto iniziando a capire che qualcosa di più grande di me mi sta soffocando, qualcosa su cui, probabilmente, dovrei fare affidamento.
 

22:54, 9 novembre 1936
 

<< Stasera incontriamo il capo, Noya. Spero che tu non te lo sia dimenticato. Avremo bisogno del tuo bel faccino, sei essenziale per contrattare con lui. >>
 
Il fumo di sigaretta che striscia dalla bocca di J mi colpisce dritto in faccia. Dal tono di voce, capisco che si è accorto del mio cambiamento. So perché sedere a questo tavolo, ascoltando la frizzante musica della jazz band, mi sta salvando la vita, la sta scuotendo, sbattendo con forza contro ad un muro di dolorosi mattoni consumati. So perché l'odore di questo posto e la particolare atmosfera che si respira attorcigliano le mie budella, scavano dentro la sacca del mio stomaco. So perché quest'abitudine di ordinare sempre lo stesso piatto e sempre lo stesso vino mi sta portando a riconsiderare alcuni tratti ed aspetti della frenetica vita d’illegalità che conduco da sette anni a questa parte. So perché mi piace venire qui e perdermi tra le note del jazz. 
Ripercorro lentamente i volti dei miei colleghi -troppo arduo chiamarli amici- e in loro scorgo qualcosa che, guardandomi allo specchio, non riesco a scorgere in me. In loro percepisco sfacciataggine, mancanza di compassione per chi non è come loro, arroganza. Io sì, sono sfacciato, ma semplicemente perché preferisco indossare la camicia fuori dai pantaloni e sparare ad un braccio, piuttosto che dritto al cuore. Sono sfacciato perché ho scoperto che tingersi i capelli è divertente. Ma non sono arrogante, mai manco di compassione nei confronti di qualcuno che non è come me, senza buone motivazioni per farlo. Stare con i Ragazzi mi ha fatto crescere, mi ha fatto cacciare fuori le palle, come dice sempre Tony; mi ha messo davanti a scomode situazioni che non avrei mai voluto interferissero con la mia vita e con la mia personalità, mi ha portato a mentire, a truffare, quasi ad uccidere. E a pensarci bene, io non voglio essere nulla di tutto ciò. Non voglio essere un assassino, un bugiardo, un complice della malvagità. In orfanotrofio ho imparato a leggere, e quando mi capita di sfogliare le pagine giallastre dei quotidiani e di comprendere che cosa sta succedendo in Europa, quasi mi viene da gridare. L’odio nei confronti del diverso mi disgusta, le leggi che quel pazzo criminale tedesco ha promulgato mi fanno terrore e mi lacerano le interiora, perché si parla anche di me tra quelle righe, perché se solo anche io mi trovassi oltre oceano, probabilmente sarei spacciato. Non voglio essere complice della slealtà e della cattiveria.
Questa sera non parteciperò ad alcun incontro, non commetterò alcun atto illegale. Stare seduto a questo tavolo, ascoltare la frizzante musica della jazz band, ordinare sempre lo stesso piatto e lo stesso vino sono diventate consequenziali conseguenze della spensieratezza. Mi riportano al benessere, mi conducono verso qualcosa che è più grande di me, e questo qualcosa ha un nome. Questo qualcosa, si chiama Asahi Azumane.
 

01:08, 9 novembre 1936
 

<< Che ne dici di Louis Armstrong? >> 
 
Asahi cinge i miei fianchi con estrema delicatezza, quasi abbia paura di frantumarli con la semplice pressione delle sue dita. È proprio buffo, il mio cameriere amante della musica. Lo scorso venerdì l’ho trovato a strimpellare il contrabbasso del locale, timoroso che qualcuno potesse accorgersene, sebbene fosse da solo. Io, che ormai lo osservo da due mesi, l’ho beccato.
Un gigante di un metro e ottanta che maneggia un ragazzo più basso di lui come se tra le mani avesse il più scintillante dei diamanti è davvero, incredibilmente buffo. Perché mai dovrebbe aver paura che io mi spezzi? Non sono un diamante, né tanto meno scintillante. 
Questa sera l'ho incastrato. Sono rimasto fino alla chiusura del locale (è lui l’addetto alle chiavi), ho aspettato che finisse di rassettare e di sistemare i tavoli e poi ho fatto la mia entrata in scena. In una mano un disco dell'insostituibile Louis, nell'altra una manciata di coraggio. Dopo averlo costretto a restare, dopo averlo convinto a concedermi un lento, ho scelto per noi "When you're smiling", e spento qualche luce. Devo averlo realmente sconcertato, ma era ciò che volevo ottenere. Avevo bisogno d'illegalità, ma di un'illegalità decisamente diversa dalla solita. Avevo bisogno di restare da solo con la ragione delle mie distrazioni, con la causa delle mie notti insonni e delle mie domande. Avevo bisogno di osservare più da vicino chi mi aveva fatto credere che mia la vita fosse sbagliata, chi mi aveva portato a pensare che forse, un lavoro degno di un ragazzo della mia età, potevo trovarlo. Volevo ballare con chi mi aveva mostrato la via di scampo. 
Ondeggiamo a destra e sinistra, poi di nuovo a destra, poi ancora a sinistra. Muoviamo i piedi a ritmo di musica. Questo ondeggiare è ben diverso da quello della nave grazie alla quale arrivai in America. Questo ondeggiare non fa venire la nausea. Questo ondeggiare è terribilmente piacevole, mette a proprio agio; io sto cercando di mettere a suo agio Asahi. La sua fresca fragranza scivola tra le mie narici, insidiandosi in esse. Potrei giacere in questo stato per il resto della mia vita, poco m'importa di che cosa stia succedendo altrove. Le sue spalle, la sua pelle profumata ed il suo respiro irregolare sono più importanti di qualsiasi altro contrabbando, di qualsiasi altra faccenda. Perché quando sorride, il mondo intero sorride con lui. 
Affondo la mia testa nel suo petto, perché più in alto non arrivo. Vorrei fiondarmi sulle sue labbra senza risparmiarmi, fare mio ogni centimetro del suo corpo servendomi dei vecchi trucchetti della scaltra Elise. Asahi è una vetta altissima e all'apparenza irraggiungibile, ma io sono un Nishinoya e non ho paura di niente, ora davvero non più. 
 
<< Perdonami Asahi, ma io non sono un gentiluomo come te. Non ho potuto permettermi un’orchestra. >>
Ride, divertito.
<< Lo sai che tutto questo è sbagliato, vero? >> sussurra, fragile quanto il fiore più delicato dell’universo. Non accetta che le nostre dita si siano intrecciate, non accetta che cosa silenziosamente abbiamo costruito in questi mesi, non accetta che, ballare con me, gli stia facendo provare qualcosa di strano. Questo qualcosa lo sto provando anche io.
<< Pensi che me ne importi? Ho commesso tante azioni sbagliate nella mia vita, e questo corrotto granello di libertà che tengo tra le mani non potrà certamente essere peggio di altre cose. >>
 
“But when you're cryin', you bring on the rain. So stop that sighin', baby, and be happy again.”
 
<< Perché proprio questa canzone? >>
<< Perché no? >>
<< Sei proprio un teppista scriteriato. >>
 
La nostra stretta di mano si fa più forte, quasi temo di spezzargli le dita. È bello, bello da morire, bello da star male, bello da star bene.
<< Dicono che non è normale sentirsi come mi sento io in questo momento >> confesso.
<< Come ti senti in questo momento? >>
<< Terribilmente felice. Io vorrei... Insomma, vorrei… Tu mi attrai, Asahi. Ma non voglio fare niente di sbagliato, perché so che cosa significhi essere obbligati e forzati ad amare. >> 
<< Amare? Noya, mi stai dicendo che... >> 
<< Non chiamarmi più così, chiamami Yuu. Non chiamarmi come mi chiamavano loro. E poi sì, ti sto dicendo che, parlando di te, mi vien da parlar d'amore. Ma non voglio correre, a dire il vero, non voglio nemmeno costringerti a ballare, a...>> 
Posa una mano tra i miei capelli, intrufolando le sue dita tra le mie ciocche corvine e le mie punte decolorate. Fronte contro fronte, respiriamo appena, assuefatti dal suono della tromba di Louis Armstrong. Balliamo fino all'alba, fottendocene del sonno, del lavoro, della dignità, della correttezza. Parliamo delle nostre vite, di chi siamo, di che cosa vorremmo ottenere o stracciare in mille pezzi, di che cosa ci piace e di che cosa segretamente nascondiamo. Del contrabbasso di Asahi, della mia passione per lo sport. Ridiamo, ci commuoviamo, ascoltiamo quella canzone almeno una ventina di volte, mandando in fumo il giradischi. 
E siamo felici, di nuovo. 
Al sorgere del sole, inconsapevoli dell'inganno in cui J, Tony e Frankie sono stati intrappolati, io appoggio la mia testa sulla comoda ed accogliente spalla di Asahi, seduto accanto a me sul pavimento sgombero di tavoli e sedie. Al sorgere del sole, inconsapevoli della cattura dei miei vecchi colleghi e di qualche pallottola scampata, Asahi mi bacia sulle labbra. 

 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: PIANGO PIANGISSIMO. Restituitemi un cuore, per piacere, perché sebbene questa storia non sia angst mi sento malissimo per aver fatto trascorrere a Noya delle esperienze così ripugnanti! T.T Quella che avete appena letto è l’AsaNoya a cui sono più affezionata. È quella che svariate volte, pensandoci, mi ha fatto venire il mal di pancia, è quella che è nata dopo un semplice ascolto di questa canzone meravigliosa. Per scriverla ho dovuto fare molte ricerche. Mi sono volutamente ispirata a “C’era una volta in America” per l’ambientazione e per la faccenda della gang di ragazzacci, e mi sono ispirata alle vicende di “An American Tail” e “Annie” per lo sviluppo dei temi dell’immigrazione e dell’orfanotrofio. L’amore che ho per Nishinoya è incommensurabile e spero di aver reso felici (oddio, felici è un parolone) le fan di questa coppia che, ammetto, è la mia OTP suprema. Scrivendo sono stata bene, mi sono commossa e ho avuto il mal di pancia. <3 Essendo una one-shot lo sviluppo dei sentimenti è piuttosto rapido, ma gli sbalzi temporali dovrebbero far capire che di tempo ne passa. L’ho riletta parecchie volte, ma come al solito, se trovate errori o incongruenze non esitate a farmelo notare! Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “When you’re smiling” di Louis Armstrong, “Hard knock life” dal musical Annie, “Main title, An American Tail” di James Horner, “Minnie the Moocher” di Cab Calloway.
Spero che vi sia piaciuta, e come al solito se volete farmi sapere la vostra ne sarò super felice! <3 *va a rispondere alle precedenti recensioni*. Un enorme bacio jazzante!
_Noodle
 
  
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