NdA
Questo
capitolo non ha un vero e proprio senso, ad essere sincera: è solo nato dal mio
desiderio di vedere qualcuno comportarsi gentilmente nei confronti di Bucky,
dopo tutto quello che è successo in Civil War. Spero che vi piaccia!
Capitolo 7: Dobrokachestvennyy
È sufficiente per distoglierlo dai suoi oscuri e silenziosi pensieri.
Quando
alza la testa incontra lo sguardo della donnina
ferma in
piedi davanti a lui. Sembrerebbe avere almeno ottant'anni e quasi
scompare
sotto l'ombrello blu che tiene in mano; gli ha parlato con gentilezza,
come se
tornare a casa e trovarsi davanti un uomo sanguinante, con i vestiti a
brandelli, sia la cosa più normale al mondo.
Il
temporale si è scatenato all'improvviso e lui ha
finito per ritrovarsi rannicchiato sugli scalini di un palazzo. Aveva
programmato di fermarsi solo pochi
minuti o almeno finché la pioggia si fosse calmata, ma il
cielo
color ardesia non gli ha lasciato tregua per tutta la giornata. I suoi
vestiti sono zuppi,
i capelli fradici e il suo aspetto in generale dev'essere poco
rassicurante.
Sono
passate tre settimane dallo scontro col
Capitano e dalla caduta dello S.H.I.E.L.D.
Non poteva restare a Washington, soprattutto a causa
di tutte le ripercussioni di quello che i media hanno rinominato "Hydra-Gate". Il rischio di essere riconosciuto o
di essere ricatturato
da uno dei suoi guardiani era troppo alto e non gli è
rimasta altra scelta
che scappare.
Non
è riuscito ad andare molto lontano,
comunque; non sapere chi sei significa anche non avere alcun
documento né soldi. Senza una destinazione precisa in mente
è arrivato fino ad Alexandria, ad un
tiro di schioppo da Washington - la distanza maggiore che è
riuscito a coprire
in così breve tempo. Ha continuato a
girare per le strade come un'ombra trasportata dal vento, dormendo in
edifici
abbandonati e frugando tra gli scatoloni della beneficenza per cercare
qualche
vestito. La città è molto più piccola
di Washington ma lo stesso abbastanza
grande per permettergli di scomparire. Da qui può iniziare a
riprendere il
controllo della propria vita.
Ha
scoperto
che quanto più a lungo rimane lontano dalla capsula di
criostasi, più la sua
memoria migliora. I ricordi però sono imprevedibili e
arrivano con la violenza
di una mareggiata che lo schiaffeggia e lo trascina via afferrandolo
per i
piedi, come la risacca. Le immagini sono confuse, offuscate, spezzoni
di
pellicola rovinata che scorrono attraverso un proiettore. È
sempre difficile
metterli in ordine perché non sono lineari. Gli anni '60 si
mischiano a memorie
degli anni '90 e ci sono ancora troppi spazi vuoti, così la
sua vita finisce per assomigliare soltanto ad un distorto
puzzle incompleto.
La
notte
precedente è stata dura. In verità quasi tutte le
notti lo sono, anche se
l'ultima è stata la peggiore perché la minaccia
del temporale aveva reso l'aria
umida e fredda. Ormai
non riesce più a tollerare il freddo; gli ricorda la
criostasi e il gelo che
scava nel profondo. Gli ricorda una vallata immersa nella neve, metallo
contorto
e rocce ghiacciate. Il freddo gli fa pensare ad una morte che rivive
ogni volta
che ha degli incubi.
Si
è
svegliato urlando, in cerca di qualcosa che non era lì. Una
mano, forse. Un
viso. Un passato che non riesce a ricostruire.
Il palazzo nel quale si era nascosto
era vuoto, un complesso di uffici pignorati in attesa di essere
riadattato alla fine del mese. Non
ricorda
molto del sogno, a parte che era cupo e pieno di sangue. Ha spesso
sogni di questo tipo. A volte invece vede
un uomo con i
capelli neri e i baffi oppure un eroe di guerra vestito di rosso,
bianco e blu.
Si sveglia sconvolto, la testa sottosopra per i pensieri che corrono
ovunque,
impazziti. Una parte di lui sa che queste persone sono importanti, che
le
conosce, sebbene non riesca a ricordare perché.
Appena
le urla
gli sono morte in gola si è reso conto che la mano sinistra
era allungata nel
vuoto, il braccio disteso e la cromatura lucente nella pallida luce del
mattino. All'improvviso si è sentito furioso, senza sapere
bene per quale
motivo, e ci si è accanito contro.
L'arto
di
metallo serve ad impedirgli di dimenticare cosa è diventato,
in che cosa
l'hanno trasformato. Rappresenta tutte le cose terribili che ha fatto,
ogni
assassinio, ogni missione, ogni vittima. Con l'altra mano ha afferrato
la
placca della protesi, dove il bordo irregolare si unisce alla spalla;
è fusa
alla sua pelle, connessa al suo corpo come se fosse qualcosa che gli
appartiene, e per questo sente di odiarla. Ha
cercato di strapparla via, lacerando la pelle nel tentativo di
rimuoverla.
Non ha funzionato, è rimasta saldamente fissata al proprio
posto nonostante
tutti i suoi sforzi. L'unico risultato che ha ottenuto sono stati pelle
strappata e unghie rotte.
Ha
sanguinato per un bel po', dopo. Le ferite che si è inferto
erano profonde e ben
presto sul metallo lucente hanno cominciato a gocciolare rivoli
cremisi,
serpeggiando lungo l'articolazione. Faceva male ed era come se lo
meritasse. Il
braccio è un'arma e dev'essere distrutto. Se proprio
è impossibile eliminarlo,
deve fare in modo che muoverlo diventi una sofferenza.
Non
ha dormito
per tutto il resto della notte, sfinito da quell'incubo e troppo
turbato per
dimenticarlo. La spalla faceva male, sanguinante e ferita, eppure ha
ignorato il
dolore. È rimasto seduto con la schiena appoggiata al muro
finché le prime
luci del mattino hanno illuminato la città. Non poteva
restare lì, lo sapeva,
così ha raccolto quel poco che aveva con sé e si
è rimesso in cammino.
Adesso
si trova sugli scalini dell'appartamento di questa donna, una
situazione come
minimo inaspettata. Quello
che è ancora più inaspettato è che la
donna non sembri turbata
o spaventata dal sangue che ormai ha inzuppato la manica e tinto il
tessuto di rosso scuro - solo incuriosita.
Prova a coprire la macchia e una fitta lancinante gli
trapassa il braccio.
«Mi
spiace,»
mugugna a bassa voce, allontanandosi dagli scalini e tornando sotto la
pioggia. «Mi spiace, non volevo…»
La
donna gli
rivolge un'occhiata perplessa. «Dove pensi di
andare?!»
È il
suo
turno di essere confuso e si stringe nelle spalle. Fa un cenno in una
vaga
direzione, nessun punto in particolare, e sta per dire che
andrà da quella
parte ma lei non gli lascia il tempo di parlare.
«Credi
davvero che ti lascerei andare via con un tempo del genere?»
La domanda
suona
retorica, come se la risposta fosse del tutto scontata.
«Secondo
le previsioni migliorerà soltanto durante la notte. Non ho
intenzione di mandarti via.»
Gli
passa
accanto e scuote l'ombrello sul bordo del portico. Scrollata gran parte
dell'acqua infila soddisfatta una
mano in tasca e prende un mazzo di chiavi, infilandone una nella
serratura prima
di aprire la porta. «Avanti,» annuisce per
invitarlo a seguirla, «vieni con me.»
Lui
non si
muove. È un gesto davvero generoso ma non è
il caso; non potrebbe sopportare
l'idea di perdere il controllo e fare del male a qualcuno per sbaglio,
per
questo è stato ben attento a tenere le distanze da chiunque
incontrasse. Adesso
questa anziana signora lo sta letteralmente invitando nella propria
casa e
tutto nella sua testa urla "pessima
idea". In
più non conosce per nulla
questa donna, non ha idea di chi sia o di quali siano le sue
intenzioni, perché
stia facendo una cosa del genere…
«Non
costringermi a trascinarti di peso,» dice ancora lei, un filo
di esasperazione
nella voce. Non che lo stia minacciando (probabilmente
pesa
quaranta chili vestita e non costituisce
affatto un pericolo) eppure è determinata a non accettare un
no come risposta. Anche se va contro tutto quello che si è
imposto di non fare, alla fine si
decide a muovere
un paio di passi attraverso la soglia.
Una
volta
che entrambi si trovano oltre
l'ingresso la donna chiude la porta
e ci appende l'ombrello per
il manico. «Le strade si allagheranno se questa pioggia
continuerà così,» mormora
tra sé prima di fargli strada verso
la sala. «Andiamo, da questa parte.»
Lui
la segue
senza una parola, osservando le fotografie e i dipinti affissi
alle pareti. L'appartamento è modesto, ha una singola camera
da letto e le
altre stanze sono visibili dalla sala; a dispetto delle dimensioni ha
un'aria
accogliente, un piccolo nido confortevole più che un mero
edificio. È passato
parecchio tempo da quando si è trovato in un posto che
potesse dargli l'impressione di
trovarsi a casa.
«Scusa
il
disordine,» dice la donna dalla cucina e lui si guarda
intorno, senza trovarne traccia. «Non aspettavo
compagnia. Dovevamo essere soltanto il
temporale ed io, stasera.»
La
testa
della sua ospite fa capolino da un angolo mentre lui rimane immobile in
sala. «Ho dei vestiti che puoi prendere in prestito. Erano
di mio marito e non ho ancora trovato il coraggio di liberarmene. Sai,
mi
aiutano a ricordare.»
Si
sente il
clangore attutito di una pentola appoggiata sui fornelli e la donna
ricompare nel corridoio. «Se non vuoi dei vestiti posso
buttare i tuoi nell'asciugatrice.
Sempre meglio che tenerli addosso tutti bagnati.» Lo guarda, in attesa di una risposta
che tarda
ad arrivare. «Beh, ti decidi a raggiungermi o no?»
chiede alla fine indicandogli
la cucina con una mano.
Lui
non è in grado di replicare
e si limita a trascinare i piedi lungo il corridoio. La cucina, come il
resto
dell'appartamento, è piccola ma funzionale ed è
dipinta di un leggero grigio che
ricorda il colore della lana filata. C'è un tavolino spinto
contro un muro, sopra
al quale si trova una mensola riempita di libri di ricette, e il resto
dello
spazio è occupato da quadretti di etichette vintage. Si
lascia cadere su
una delle sedie a disposizione, cullato dall'intimità e dal
calore dell'ambiente.
Soddisfatta
di questo piccolo progresso, la
donna si toglie l'impermeabile e lo appende ad un gancio accanto al
frigorifero. È davvero minuta, forse qualche centimetro
più alta di un metro e
mezzo, e pare così
leggera che un
minimo colpo di vento potrebbe farla volar via. I suoi capelli sono di
un
bianco lucente, in netto contrasto con la pelle scura. Spazza via un
residuo di
pioggia che inizia a scivolarle giù per la fronte, poi si
gira per guardarlo ed è come se riuscisse a
scuoterlo fin dentro l'anima.
L'eufemismo
del secolo: è sudicio e lo sa bene, i capelli sono
più lunghi di
quanto siano mai stati, sporchi e gocciolanti
acqua sul pavimento di linoleum. Ha la barba lunga,
può sentirla grattare anche attraverso il
bavero
della giacca; considerato il suo aspetto e la manica imbrattata di
sangue,
questa dolce, anziana signora non avrebbe mai dovuto fidarsi tanto da
invitarlo
ad entrare. «Perché lo sta
facendo?»
«Cosa?»
«Aiutarmi,» spiega lui stringendosi nelle spalle. «Non mi conosce, potrei essere pericoloso.»
Lei
non dice nulla e si limita a fissarlo.
Il che lo costringe ad incurvarsi sulla sedia, simile ad un bambino
messo in
punizione. «Senta… non posso pagare
per…»
«Ah,
finiscila,»
dice lei, una mano sollevata nell'universale gesto che sta per "non
aggiungere altro". «Non pensarci neanche, non
voglio che tu mi dia dei soldi.»
«Allora
perché mi sta aiutando?»
La
donna
ride, stupefatta. «Tesoro, lo sai che a volte le persone
aiutano
gli altri e basta, vero?»
Alla
sua espressione persa nel vuoto sospira e sorride con fare gentile e
benigno. «Dopo aver lavorato per anni in molti centri di
accoglienza so capire quando mi trovo davanti qualcuno che ha bisogno
di un
pasto caldo e di un letto dove dormire. Stavi sui gradini di casa mia,
bagnato fradicio e con l'aspetto di un cucciolo abbandonato…
come potevo
buttarti fuori?»
Accompagna
il tutto con un'alzata di spalle, a sottolineare che non c'è
bisogno di
aggiungere altro. «Ora,»
continua
indicando il corridoio, «io inizio a preparare la cena. Tu
vai a farti
una doccia e a cambiarti, rischi di prendere
una polmonite. È la seconda porta sulla destra,
gli asciugamani sono sotto
il lavandino. Lascia la tua roba nella cesta della biancheria,
metterò tutto
nell'asciugatrice quando avrai finito.»
Lui
lancia
un'occhiata in fondo alla sala ed
esita. Nessuno è mai stato così gentile con lui,
almeno non che lui ricordi. I
suoi guardiani e committenti non hanno mai fatto niente per lui - o
perlomeno,
quando è successo era sempre perché si
aspettavano qualcosa da lui. Qualcosa
che in genere finiva con spargimenti di sangue. Ha ancora le cicatrici
e alcune
ossa rotte come ricordo della loro gentilezza; secondo la sua
esperienza niente
viene mai guadagnato senza sacrificare qualcosa in cambio.
«Però
una
cosa da te la voglio,» dice la donna mentre lui fa per
alzarsi.
Quasi
sobbalza a questa richiesta. «Che
cosa?»
«Sapere
il tuo nome.»
Rimane
spiazzato, perché non è di certo quello che si
aspettava ma non per questo è meno
difficile darle una risposta.
Non è
sicuro di quale sia il suo nome: il Capitano l'ha chiamato "Bucky"
eppure non
sente alcuna connessione con quella precedente identità. Le
targhe commemorative
che ha visto al museo, con la sua faccia e le sue foto, riportavano la
scritta "James". È la cosa più simile ad un
vero nome, piuttosto che un soprannome usato da un amico del quale non
ha
memoria.
«James,»
dice alla fine. Quel nome lo fa sentire vuoto e completo allo stesso
tempo.
La
donna gli
sorride, gentile e cordiale. «James,» ripete a
bassa voce ed è come se
acquistasse importanza detto da lei. «Proprio come mio
figlio. Beh, James… puoi
chiamarmi Anna.»
Lui
si
sforza di sorridere. Si tratta
di un'espressione sconosciuta, poco familiare, e si chiede se lo stia
facendo nel
modo giusto. «Piacere di conoscerla.»
«È
un piacere conoscere te, James,» ribatte Anna. Fa un cenno
con la testa in
direzione del corridoio. «Vai, adesso. Datti una ripulita e
poi torna qui, più tardi penserò ai tuoi vestiti.»
Lui
annuisce
e si incammina in fondo al corridoio, in direzione del bagno. La luce
si
accende in uno sfarfallio quando trova l'interruttore sul muro e la
stanza
viene illuminata da un bagliore fluorescente. I muri sono di colore
beige
chiaro e c'è appesa la fotografia incorniciata di una barca
a vela. La stanza è
piccola e un tantino angusta, ma non si lamenta; in confronto alla
capsula di
criostasi sembra un castello.
Toglie
i
vestiti strato per strato e li lascia cadere nel lavandino,
trattenendo
una smorfia quando deve utilizzare la spalla sinistra. La carne
è lacerata ed esposta, i solchi profondi intorno al metallo
sono in parte coperti
da crostema ci sono ancora rivoli di
sangue che trasudano dalle ferite e colano giù per il
braccio di metallo,
insinuandosi tra le placche di metallo e le articolazioni. La stella
è
scomparsa, raschiata via con un pezzo di vetro due giorni dopo la
battaglia nel
cielo sopra il Potomac. Rappresentava soltanto un promemoria del
periodo
trascorso in cattività, un altro dettaglio che non sarebbe
mai riuscito a
dimenticare. Era stato comunque più facile eliminare la
stella che l'intero braccio e se n'era liberato con piacere.
La
doccia
sputacchia per un istante, poi il getto si stabilizza nel giro di
alcuni
secondi. Entra nella cabina e ci rimane per due minuti circa,
abbastanza per
ripulirsi; non vuole approfittare della cortesia di Anna più
di quanto non
abbia già fatto e usare tutta la sua acqua calda
è fuori discussione.
Chiude
il
rubinetto e rimane avvolto dal vapore, taciturno. Non riesce a
ricordare
l'ultima volta che è stato invitato ad entrare in casa di
qualcuno o l'ultima
volta che è stato considerato un essere umano piuttosto che
un'arma.
Non lo merita, non si merita tanta compassione. Ha fatto cose
terribili,
indicibili, e chiunque pensi che lui sia diverso da un mostro
dev'essere fuori
di testa.
Con
un
sospiro sommesso esce dalla doccia. Sul ripiano vicino al lavandino
trova una piccola
quantità di abiti ripiegati e impilati uno sull'altro. I
suoi indumenti bagnati
sono spariti, rimpiazzati con dei ricambi asciutti; non ha neanche
sentito la
porta aprirsi e si chiede come sia possibile che i suoi riflessi si
siano arrugginiti nel giro di poche settimane.
Il
riflesso che lo osserva dallo specchio è quello di un uomo
che non aveva mai
visto, scarmigliato e smunto, con borse scure sotto agli occhi.
È solo un
guscio vuoto, il fantasma di qualcuno che una volta era umano. C'è
anche un pettine di plastica sul ripiano e decide
di
fare un tentativo di rendersi presentabile. Anna è stata
gentile con lui, è
stata dolce e premurosa, le deve
almeno lo sforzo di cercare di apparire in ordine. Fa scorrere con cura
il
pettine fra i capelli, sciogliendo i nodi che si sono formati per
settimane e lasciando
che le ciocche bagnate gli ricadano sul viso, come una coltre scura e
umida.
Raggiunto
un
risultato soddisfacente rimette a posto il pettine e piega alla
perfezione la
camicia del marito di Anna. Finché i suoi vestiti non
usciranno dall'asciugatrice
non potrà rivestirsi del tutto. In un'altra situazione non
sarebbe un problema ma
in questo caso sa che Anna vedrebbe il suo braccio e non vuole
spaventarla. Non
sa come potrebbe nasconderle l'arto di metallo, anche se è
intenzionato a provarci.
Anna
è in
cucina quando lui esce dal bagno, la schiena rivolta verso la porta
mentre è
intenta a cucinare. Non deve riuscire a vedere il suo braccio;
è orrendo e
brutale, uno strumento di morte fuso al suo stesso corpo, ed
è meglio che lei
non ci si avvicini nemmeno.
In
quel
momento però si gira, lo vede e scuote la testa. «Continui
a sanguinare,» dice prima di chinarsi a rovistare nella
credenza sotto
il lavello. Estrae una scatola di plastica e la appoggia sul bancone
vicino ai
fornelli, poi recupera alcune garze contenute all'interno.
«Vieni
a
sederti,» aggiunge indicando la sedia più vicina.
Non è tanto una richiesta quanto un ordine,
benché
cortese. Lui è così abituato agli ordini da
obbedire in silenzio e mettersi
seduto senza discutere.
Per
un
momento Anna sembra esitare, si limita ad osservare
a lungo il braccio metallico. I suoi occhi scuri non tradiscono alcun
pensiero
ma la smorfia che le arriccia le labbra vale più di mille
parole. Ancora una
volta, comunque, non è sconvolta o disgustata - solo
preoccupata. Facendo
attenzione allunga la mano e tocca una delle placche, dove si connette
alla
spalla. Lui trattiene un sussulto; non è il dolore a
infastidirlo, più che
altro la preoccupazione che lei si trovi a poca distanza da un'arma
tanto
pericolosa. «Ferita di guerra?»
«Qualcosa
del genere,» risponde lui. Un
muscolo della mascella si contrae quando Anna comincia a tamponare i
solchi più
profondi con uno straccio imbevuto di acqua ossigenata. «Come
fa a saperlo?»
«Mio
nipote
è stato ferito in Afghanistan,» spiega Anna
intanto che srotola una benda
sottile e la avvolge intorno ai graffi superficiali. «Ha
perso la gamba al di
sotto del ginocchio. Gli è servito parecchio tempo per
abituarsi alla protesi, anche
lui si riduceva così a forza di grattarsi.»
Lavora
in
silenzio per un po', pulendo il
sangue e bendando le ferite. Lui rimane rigido e immobile per lo sforzo
di non
muoversi troppo. È strano quanto quei gesti amorevoli
facciano quasi più male
delle ferite stesse; le mani di Anna sono delicate, una sensazione che
gli toglie il fiato.
Nessuno l'ha mai trattato con tanta gentilezza. «Quando hai
prestato servizio?»
«1945,»
dice
lui in automatico, le parole gli escono di bocca prima che possa
fermarle. Si
morde una guancia, irritato da quella perdita di autocontrollo.
Anna
sembra
sorpresa, lo guarda incredula e poi ride di gusto. «Beh,
caro, se eri sotto
le armi nel '45 hai davvero un bell'aspetto per uno della tua
età! Mio
marito ha partecipato alla Guerra di Corea, se ne è andato
da quasi tre anni.
Durante la Seconda Guerra Mondiale eravamo bambini.»
Assicura
le
bende con del cerotto a nastro e scuote la testa. «Non sei
costretto a
parlarmene se non vuoi. A Robert non è mai piaciuto parlarne
e neppure mio
nipote Marcus ne parla volentieri.»
Rimette
le
garze nella scatola di plastica, poi si allontana per riporla sotto il
lavello. «Ho sempre vissuto in mezzo a dei soldati. So che la
guerra è un argomento difficile, la maggior
parte delle
persone preferisce evitarlo.»
Lui
le offre
un debole sorriso in risposta, grato per quell'attimo di tregua. Non
è sicuro
di cosa sarebbe riuscito ad inventarsi se Anna avesse insistito; non
ricorda nulla della guerra o della sua vita prima di essa e parlare di
sé finirebbe
solo per far nascere altre domande in proposito.
Prova
a far
ruotare la spalla con cautela. Fa ancora male ma può
sopportarlo, gli è
capitato di stare molto peggio. Se non altro ha smesso di sanguinare.
Sposta lo
sguardo verso Anna, che con l'aiuto di un mestolo sta rimestando la
cena che ha
appena tolto dal fuoco. «Posso dare una mano?»
«Puoi
aiutarmi standotene tranquillo, così quelle bende resteranno
al loro posto,» ribatte
lei. Si china sul tavolo e gli posa di fronte una scodella di zuppa.
«E puoi
aiutarmi anche finendo tutto quello che ti piazzerò sotto il
naso. Direi che è
da un pezzo che non mangi qualcosa di decente.»
Lui
si
sofferma a pensarci per un attimo:
quando è stata l'ultima volta in cui può dire di
aver fatto un pasto completo o
di aver mangiato del cibo preparato con tanta cura? I suoi guardiani e
committenti in genere gli fornivano vitamine e barrette proteiche.
Perfino
durante le missioni, nel tempo che passava fuori dalla capsula di
criostasi,
non mangiava altro che frutta rubata dalle bancarelle per strada o quel
poco di
cibo che riusciva a recuperare nei cassonetti dell'immondizia.
La
zuppa è
favolosa e vuota la scodella senza bisogno d'incoraggiamento.
Anna siede dall'altra parte del tavolo, finendo la propria porzione in
tutta
calma. Un paio di volte solleva lo sguardo dal proprio piatto e lo
fissa in
silenzio, come se stesse cercando di trovare da sola delle risposte.
Quando si
decide a parlare la sua
voce è calda e affettuosa. «Perdonami se te lo dico…
sembra che tu stia
scappando da qualcosa.»
Lui
rimane
impietrito e la donna solleva una mano in un gesto di scuse.
«Mi spiace se ho
toccato un tasto dolente, non intendevo offenderti. È solo
che dal tuo aspetto
direi che non hai ben chiaro se andartene sul serio o se invece
dovresti
restare.»
Quelle
parole lo lasciano attonito. Anna ha ragione, c'è ancora
qualcosa che lo trattiene: il Capitano,
Steve. Non
riesce a decidersi a scomparire del tutto, non ancora. Sa che Steve
potrebbe avere alcune delle risposte che sta cercando, sul passato che
non
riesce a ricordare, eppure non ha il coraggio di affrontarlo.
Ha
solo
bisogno di stargli lontano per tenere entrambi al sicuro,
perché
non è certo di potersi fidare di se stesso intorno a lui.
L'ha
quasi ucciso alcune
settimane prima e il pensiero che potrebbe fargli di nuovo del male,
intenzionalmente o meno,
lo fa star
male. Dovrebbe andarsene, scappare il più lontano possibile
e
non tornare mai perché solo così Steve sarebbe
fuori
pericolo, ma non riesce a farlo. Non
riesce nemmeno a costringersi a farlo, perché Steve
rappresenta
tutto quello
che ha perso e tutto quello che vorrebbe ritrovare. Non riesce ad
andarsene
perché teme che facendolo finirebbe per perdersi per sempre.
«È
complicato,» ammette scegliendo con cautela cosa rivelare in
proposito, «non
ricordo molto della mia vita.» La mano destra sfiora la
tempia, la sinistra rimane
ben salda sulla gamba. «Ci sono dei vuoti nella mia memoria,
dei buchi neri.
Quello che mi è successo… non ricordo quasi nulla
di chi sono, di chi ero. C'è
qualcuno che potrebbe aiutarmi…»
Scuote
la
testa e lascia che la frase quasi gli muoia sulle labbra.
«Sono ancora troppo
pericoloso per stargli intorno. Al momento andarmene potrebbe essere
l'unica soluzione.»
Anna
non
parla e ascolta in silenzio. La sua espressione è
comprensiva, i suoi
occhi amichevoli. «Immagino ci si senta parecchio
soli.»
«Sentirsi
soli
va bene. Se sono da solo significa che non posso fare male a
nessuno.»
La
donna gli
risponde con un sorriso triste. «Isolarsi dal resto del mondo
non è sempre la
scelta giusta, anche se
potrebbe sembrare così. Però se pensi che sia
quello che ti serve per
riprenderti indietro la tua vita va bene, a volte il passo
più difficile da
fare è confrontarci con noi stessi.»
Lui
annuisce
in assenso. Uno degli aspetti più difficili di non avere
ricordi precedenti alla battaglia del Triskelion
è non sapere chi potrebbe essere, ora. L'uomo che era una
volta - James, Bucky - ormai
non è più la stessa
persona. Non è neanche più il Soldato d'Inverno.
Non sa chi è, chi dovrebbe
essere, e deve cercare di capirlo prima di poter fare qualsiasi altra
cosa.
All'improvviso
il fragore di un tuono risuona sopra le loro teste, abbastanza forte da
scuotere le ante della credenza. Anna sobbalza per un istante, lui
invece impiega
un secondo o due per reprimere l'istinto di scattare in piedi e
raggiungere di
corsa la porta.
«Meglio
avere un paio di torce a portata di mano,» mormora Anna
mentre si alza per
rovistare in un piccolo armadietto accanto al frigorifero. Recupera due
torce
elettriche da uno dei ripiani e torna a sedersi al tavolo, allungandone
una
nella sua direzione. «Questa potrebbe esserti utile nelle
prossime ore.»
Lui
accetta
senza obiettare; non è affatto preoccupato dalla
possibilità di un blackout ma lo
stesso non rifiuta l'offerta.
Il
resto
della serata passa accompagnato dal picchiettare della pioggia sui
vetri e dal
brontolio dei tuoni. Anna gli parla del marito, di come l'ha
conosciuto, e l'espressione
sul suo viso al ricordo gli riscalda il cuore. Parla dei figli e dei
nipoti, del suo lavoro di insegnante e del volontariato presso numerose
chiese e rifugi
in tutta la città; gli racconta la propria vita e lui
vorrebbe
essere in grado
di raccontarle qualcosa della sua.
È in
quel
momento che decide quale tipo di uomo vuole essere - degno
dell'accoglienza e
della gentilezza di Anna, degno delle sue parole gentili. Non sa se
sarà mai in
grado di redimersi per tutte le azioni disumane che ha compiuto ma lei
e la sua
famiglia sono le persone che vuole difendere, proteggere dall'orrore
che c'è nel mondo. Per
conto dell'Hydra si è macchiato di crimini
atroci e gli è venuto quasi naturale dimenticarsi che
potessero esistere
persone buone e altruiste.
La
pioggia
continua a scrosciare, intervallando violenti nubifragi a volte e
leggeri rovesci altre;
Anna insiste perché rimanga per la notte, facendogli notare
che il temporale
dovrebbe allentare la presa solo intorno alle cinque del mattino.
Nonostante la
conosca da poche ore, lui sa che è meglio non contraddirla.
Il
divano
nel soggiorno si apre e si trasforma in un letto e Anna gli porta un
buon numero
di lenzuola, cuscini e trapunte che sembrano avere quasi più
anni di lei. Lo
aiuta a sistemarsi per la notte seguitando a chiedere scusa per il
fantomatico disordine.
Lui le assicura che non c'è alcun problema, anche se
è come parlare al muro.
Una
volta
che il letto è pronto Anna fa un passo indietro e controlla
il
risultato. Non sembra esserne soddisfatta e per l'ennesima volta lui le
assicura che è perfetto. Non ha idea di come potrebbe mai
ripagarla per la sua
generosità e offrirgli un posto per la notte è
un'altra voce da aggiungere alla
lista.
«Fammi
sapere se ti serve qualcos'altro, la mia stanza è in fondo
al corridoio,» dice
la donna, poi gli stringe la mano destra con dolcezza. «Qui
sei al sicuro.»
È una
strana affermazione, che gli provoca una reazione perfino
più
strana: non si è mai sentito al sicuro in nessun posto e non
è
affatto abituato a sentirsi rassicurare, così annuisce e
cerca
di
sorridere.
«Grazie,»
risponde semplicemente, perché non riesce a pensare a niente
di diverso. «Di tutto.»
«Non
c'è di che, tesoro.»
Anna gli volta le spalle e si allontana lungo il corridoio fino a
raggiungere la
propria stanza. La porta si chiude con un debole scatto e lui si trova
da solo.
Quella
notte
non dorme per paura di disturbarla gridando a causa degli incubi che
potrebbe
avere, piuttosto preferisce rimanere sveglio e sorvegliare la
casa. È l'unica cosa che può fare per lei ed
è
più che felice di farlo.
Il
picchettio
della pioggia si interrompe poco dopo le cinque. Si alza in silenzio e rimette
il divano a
posto, piega
le coperte e le lenzuola e le appoggia sui cuscini. Lascia tutto il
più in
ordine possibile, in modo che Anna non debba perdere troppo tempo a
sistemare.
L'appartamento
è avvolto nel buio e Anna sta ancora dormendo,
così scivola fuori dalla porta d'ingresso
e la richiude con cautela dietro di sé. Può
sentire la serratura scattare e il
pomello gira a vuoto una volta che il blocco è inserito;
soddisfatto si
incammina per strada. Sa di non essere
una bella persona e sa che non potrà mai sdebitarsi con Anna
per la sua gentilezza.
Promette a se stesso che si impegnerà per diventare almeno
la metà dell'uomo
che lei pensa che sia.
Torna
da
quelle parti qualche giorno più tardi, con un mazzo di fiori
recuperato dagli
scarti sul retro di un negozio. Alcuni dei petali sono appassiti e
flosci ma non poteva fare di meglio e spera sia abbastanza; lascia il
regalo sui
gradini e se ne va senza neanche fermarsi a controllare che lei vada ad
aprire
la porta.
Quando
passa
di lì per l'ultima volta, il giorno dopo, vede i fiori
infilati in un vaso e
sistemati sul davanzale della finestra che si affaccia sulla via. Per
la prima
volta in anni riesce a sorridere davvero.
Capitolo originale dell'autrice
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