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Autore: laylabinx    03/01/2017    2 recensioni
Servono solo dieci piccole parole per mandarlo in pezzi.
Studio del personaggio di Bucky Barnes, incentrato sulle parole del codice di attivazione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Steve Rogers
Note: Missing Moments, Movieverse, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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cap 7 finire revisione

NdA

Questo capitolo non ha un vero e proprio senso, ad essere sincera: è solo nato dal mio desiderio di vedere qualcuno comportarsi gentilmente nei confronti di Bucky, dopo tutto quello che è successo in Civil War. Spero che vi piaccia!

 

 

Capitolo 7: Dobrokachestvennyy



«Stai sanguinando,» gli dice una voce.
È sufficiente per distoglierlo dai suoi oscuri e silenziosi pensieri.

Quando alza la testa incontra lo sguardo della donnina ferma in piedi davanti a lui. Sembrerebbe avere almeno ottant'anni e quasi scompare sotto l'ombrello blu che tiene in mano; gli ha parlato con gentilezza, come se tornare a casa e trovarsi davanti un uomo sanguinante, con i vestiti a brandelli, sia la cosa più normale al mondo.

Il temporale si è scatenato all'improvviso e lui ha finito per ritrovarsi rannicchiato sugli scalini di un palazzo. Aveva programmato di fermarsi solo pochi minuti o almeno finché la pioggia si fosse calmata, ma il cielo color ardesia non gli ha lasciato tregua per tutta la giornata. I suoi vestiti sono zuppi, i capelli fradici e il suo aspetto in generale dev'essere poco rassicurante.

Sono passate tre settimane dallo scontro col Capitano e dalla caduta dello S.H.I.E.L.D.
Non poteva restare a Washington, soprattutto a causa di tutte le ripercussioni di quello che i media hanno rinominato
"Hydra-Gate". Il rischio di essere riconosciuto o di essere ricatturato da uno dei suoi guardiani era troppo alto e non gli è rimasta altra scelta che scappare.

Non è riuscito ad andare molto lontano, comunque; non sapere chi sei significa anche non avere alcun documento né soldi. Senza una destinazione precisa in mente è arrivato fino ad Alexandria, ad un tiro di schioppo da Washington - la distanza maggiore che è riuscito a coprire in così breve tempo. Ha continuato a girare per le strade come un'ombra trasportata dal vento, dormendo in edifici abbandonati e frugando tra gli scatoloni della beneficenza per cercare qualche vestito. La città è molto più piccola di Washington ma lo stesso abbastanza grande per permettergli di scomparire. Da qui può iniziare a riprendere il controllo della propria vita.

Ha scoperto che quanto più a lungo rimane lontano dalla capsula di criostasi, più la sua memoria migliora. I ricordi però sono imprevedibili e arrivano con la violenza di una mareggiata che lo schiaffeggia e lo trascina via afferrandolo per i piedi, come la risacca. Le immagini sono confuse, offuscate, spezzoni di pellicola rovinata che scorrono attraverso un proiettore. È sempre difficile metterli in ordine perché non sono lineari. Gli anni '60 si mischiano a memorie degli anni '90 e ci sono ancora troppi spazi vuoti, così la sua vita finisce per assomigliare soltanto ad un distorto puzzle incompleto.

La notte precedente è stata dura. In verità quasi tutte le notti lo sono, anche se l'ultima è stata la peggiore perché la minaccia del temporale aveva reso l'aria umida e fredda. Ormai non riesce più a tollerare il freddo; gli ricorda la criostasi e il gelo che scava nel profondo. Gli ricorda una vallata immersa nella neve, metallo contorto e rocce ghiacciate. Il freddo gli fa pensare ad una morte che rivive ogni volta che ha degli incubi.

Si è svegliato urlando, in cerca di qualcosa che non era lì. Una mano, forse. Un viso. Un passato che non riesce a ricostruire.
Il palazzo nel quale si era nascosto era vuoto, un complesso di uffici pignorati in attesa di essere riadattato alla fine del mese.
Non ricorda molto del sogno, a parte che era cupo e pieno di sangue. Ha spesso sogni di questo tipo. A volte invece vede un uomo con i capelli neri e i baffi oppure un eroe di guerra vestito di rosso, bianco e blu. Si sveglia sconvolto, la testa sottosopra per i pensieri che corrono ovunque, impazziti. Una parte di lui sa che queste persone sono importanti, che le conosce, sebbene non riesca a ricordare perché.

Appena le urla gli sono morte in gola si è reso conto che la mano sinistra era allungata nel vuoto, il braccio disteso e la cromatura lucente nella pallida luce del mattino. All'improvviso si è sentito furioso, senza sapere bene per quale motivo, e ci si è accanito contro.

L'arto di metallo serve ad impedirgli di dimenticare cosa è diventato, in che cosa l'hanno trasformato. Rappresenta tutte le cose terribili che ha fatto, ogni assassinio, ogni missione, ogni vittima. Con l'altra mano ha afferrato la placca della protesi, dove il bordo irregolare si unisce alla spalla; è fusa alla sua pelle, connessa al suo corpo come se fosse qualcosa che gli appartiene, e per questo sente di odiarla. Ha cercato di strapparla via, lacerando la pelle nel tentativo di rimuoverla. Non ha funzionato, è rimasta saldamente fissata al proprio posto nonostante tutti i suoi sforzi. L'unico risultato che ha ottenuto sono stati pelle strappata e unghie rotte.

Ha sanguinato per un bel po', dopo. Le ferite che si è inferto erano profonde e ben presto sul metallo lucente hanno cominciato a gocciolare rivoli cremisi, serpeggiando lungo l'articolazione. Faceva male ed era come se lo meritasse. Il braccio è un'arma e dev'essere distrutto. Se proprio è impossibile eliminarlo, deve fare in modo che muoverlo diventi una sofferenza.

Non ha dormito per tutto il resto della notte, sfinito da quell'incubo e troppo turbato per dimenticarlo. La spalla faceva male, sanguinante e ferita, eppure ha ignorato il dolore. È rimasto seduto con la schiena appoggiata al muro finché le prime luci del mattino hanno illuminato la città. Non poteva restare lì, lo sapeva, così ha raccolto quel poco che aveva con sé e si è rimesso in cammino.

Adesso si trova sugli scalini dell'appartamento di questa donna, una situazione come minimo inaspettata. Quello che è ancora più inaspettato è che la donna non sembri turbata o spaventata dal sangue che ormai ha inzuppato la manica e tinto il tessuto di rosso scuro - solo incuriosita.
Prova a coprire la macchia e una fitta lancinante gli trapassa il braccio.

«Mi spiace,» mugugna a bassa voce, allontanandosi dagli scalini e tornando sotto la pioggia. «Mi spiace, non volevo…»

La donna gli rivolge un'occhiata perplessa. «Dove pensi di andare?!»

È il suo turno di essere confuso e si stringe nelle spalle. Fa un cenno in una vaga direzione, nessun punto in particolare, e sta per dire che andrà da quella parte ma lei non gli lascia il tempo di parlare.

«Credi davvero che ti lascerei andare via con un tempo del genere?» La domanda suona retorica, come se la risposta fosse del tutto scontata. «Secondo le previsioni migliorerà soltanto durante la notte. Non ho intenzione di mandarti via.»

Gli passa accanto e scuote l'ombrello sul bordo del portico. Scrollata gran parte dell'acqua infila soddisfatta una mano in tasca e prende un mazzo di chiavi, infilandone una nella serratura prima di aprire la porta. «Avanti,» annuisce per invitarlo a seguirla, «vieni con me.»

Lui non si muove. È un gesto davvero generoso ma non è il caso; non potrebbe sopportare l'idea di perdere il controllo e fare del male a qualcuno per sbaglio, per questo è stato ben attento a tenere le distanze da chiunque incontrasse. Adesso questa anziana signora lo sta letteralmente invitando nella propria casa e tutto nella sua testa urla "pessima idea". In più non conosce per nulla questa donna, non ha idea di chi sia o di quali siano le sue intenzioni, perché stia facendo una cosa del genere…

«Non costringermi a trascinarti di peso,» dice ancora lei, un filo di esasperazione nella voce. Non che lo stia minacciando (probabilmente pesa quaranta chili vestita e non costituisce affatto un pericolo) eppure è determinata a non accettare un no come risposta. Anche se va contro tutto quello che si è imposto di non fare, alla fine si decide a muovere un paio di passi attraverso la soglia.

Una volta che entrambi si trovano oltre l'ingresso la donna chiude la porta e ci appende l'ombrello per il manico. «Le strade si allagheranno se questa pioggia continuerà così,» mormora tra sé prima di fargli strada verso la sala. «Andiamo, da questa parte.»

Lui la segue senza una parola, osservando le fotografie e i dipinti affissi alle pareti. L'appartamento è modesto, ha una singola camera da letto e le altre stanze sono visibili dalla sala; a dispetto delle dimensioni ha un'aria accogliente, un piccolo nido confortevole più che un mero edificio. È passato parecchio tempo da quando si è trovato in un posto che potesse dargli l'impressione di trovarsi a casa.

«Scusa il disordine,» dice la donna dalla cucina e lui si guarda intorno, senza trovarne traccia. «Non aspettavo compagnia. Dovevamo essere soltanto il temporale ed io, stasera.»

La testa della sua ospite fa capolino da un angolo mentre lui rimane immobile in sala. «Ho dei vestiti che puoi prendere in prestito. Erano di mio marito e non ho ancora trovato il coraggio di liberarmene. Sai, mi aiutano a ricordare.»

Si sente il clangore attutito di una pentola appoggiata sui fornelli e la donna ricompare nel corridoio. «Se non vuoi dei vestiti posso buttare i tuoi nell'asciugatrice. Sempre meglio che tenerli addosso tutti bagnati.» Lo guarda, in attesa di una risposta che tarda ad arrivare. «Beh, ti decidi a raggiungermi o no?» chiede alla fine indicandogli la cucina con una mano.

Lui non è in grado di replicare e si limita a trascinare i piedi lungo il corridoio. La cucina, come il resto dell'appartamento, è piccola ma funzionale ed è dipinta di un leggero grigio che ricorda il colore della lana filata. C'è un tavolino spinto contro un muro, sopra al quale si trova una mensola riempita di libri di ricette, e il resto dello spazio è occupato da quadretti di etichette vintage. Si lascia cadere su una delle sedie a disposizione, cullato dall'intimità e dal calore dell'ambiente.

Soddisfatta di questo piccolo progresso, la donna si toglie l'impermeabile e lo appende ad un gancio accanto al frigorifero. È davvero minuta, forse qualche centimetro più alta di un metro e mezzo, e pare così leggera che un minimo colpo di vento potrebbe farla volar via. I suoi capelli sono di un bianco lucente, in netto contrasto con la pelle scura. Spazza via un residuo di pioggia che inizia a scivolarle giù per la fronte, poi si gira per guardarlo ed è come se riuscisse a scuoterlo fin dentro l'anima. «Dolcezza, hai l'aspetto di qualcuno che non se la sta passando bene.»

L'eufemismo del secolo: è sudicio e lo sa bene, i capelli sono più lunghi di quanto siano mai stati, sporchi e gocciolanti acqua sul pavimento di linoleum. Ha la barba lunga, può sentirla grattare anche attraverso il bavero della giacca; considerato il suo aspetto e la manica imbrattata di sangue, questa dolce, anziana signora non avrebbe mai dovuto fidarsi tanto da invitarlo ad entrare. «Perché lo sta facendo?»

«Cosa?»

«Aiutarmi,» spiega lui stringendosi nelle spalle. «Non mi conosce, potrei essere pericoloso.» 

Lei non dice nulla e si limita a fissarlo. Il che lo costringe ad incurvarsi sulla sedia, simile ad un bambino messo in punizione. «Senta… non posso pagare per…»

«Ah, finiscila,» dice lei, una mano sollevata nell'universale gesto che sta per "non aggiungere altro". «Non pensarci neanche, non voglio che tu mi dia dei soldi.»

«Allora perché mi sta aiutando?»

La donna ride, stupefatta. «Tesoro, lo sai che a volte le persone aiutano gli altri e basta, vero?»

Alla sua espressione persa nel vuoto sospira e sorride con fare gentile e benigno. «Dopo aver lavorato per anni in molti centri di accoglienza so capire quando mi trovo davanti qualcuno che ha bisogno di un pasto caldo e di un letto dove dormire. Stavi sui gradini di casa mia, bagnato fradicio e con l'aspetto di un cucciolo abbandonato… come potevo buttarti fuori?»

Accompagna il tutto con un'alzata di spalle, a sottolineare che non c'è bisogno di aggiungere altro. «Ora,» continua indicando il corridoio, «io inizio a preparare la cena. Tu vai a farti una doccia e a cambiarti, rischi di prendere una polmonite. È la seconda porta sulla destra, gli asciugamani sono sotto il lavandino. Lascia la tua roba nella cesta della biancheria, metterò tutto nell'asciugatrice quando avrai finito.»

Lui lancia un'occhiata in fondo alla sala ed esita. Nessuno è mai stato così gentile con lui, almeno non che lui ricordi. I suoi guardiani e committenti non hanno mai fatto niente per lui - o perlomeno, quando è successo era sempre perché si aspettavano qualcosa da lui. Qualcosa che in genere finiva con spargimenti di sangue. Ha ancora le cicatrici e alcune ossa rotte come ricordo della loro gentilezza; secondo la sua esperienza niente viene mai guadagnato senza sacrificare qualcosa in cambio.

«Però una cosa da te la voglio,» dice la donna mentre lui fa per alzarsi.

Quasi sobbalza a questa richiesta. «Che cosa?»

«Sapere il tuo nome.»

Rimane spiazzato, perché non è di certo quello che si aspettava ma non per questo è meno difficile darle una risposta. Non è sicuro di quale sia il suo nome: il Capitano l'ha chiamato "Bucky" eppure non sente alcuna connessione con quella precedente identità. Le targhe commemorative che ha visto al museo, con la sua faccia e le sue foto, riportavano la scritta "James". È la cosa più simile ad un vero nome, piuttosto che un soprannome usato da un amico del quale non ha memoria.

«James,» dice alla fine. Quel nome lo fa sentire vuoto e completo allo stesso tempo.

La donna gli sorride, gentile e cordiale. «James,» ripete a bassa voce ed è come se acquistasse importanza detto da lei. «Proprio come mio figlio. Beh, James… puoi chiamarmi Anna.»

Lui si sforza di sorridere. Si tratta di un'espressione sconosciuta, poco familiare, e si chiede se lo stia facendo nel modo giusto. «Piacere di conoscerla.»

«È un piacere conoscere te, James,» ribatte Anna. Fa un cenno con la testa in direzione del corridoio. «Vai, adesso. Datti una ripulita e poi torna qui, più tardi penserò ai tuoi vestiti

Lui annuisce e si incammina in fondo al corridoio, in direzione del bagno. La luce si accende in uno sfarfallio quando trova l'interruttore sul muro e la stanza viene illuminata da un bagliore fluorescente. I muri sono di colore beige chiaro e c'è appesa la fotografia incorniciata di una barca a vela. La stanza è piccola e un tantino angusta, ma non si lamenta; in confronto alla capsula di criostasi sembra un castello.

Toglie i vestiti strato per strato e li lascia cadere nel lavandino, trattenendo una smorfia quando deve utilizzare la spalla sinistra. La carne è lacerata ed esposta, i solchi profondi intorno al metallo sono in parte coperti da crostema ci sono ancora rivoli di sangue che trasudano dalle ferite e colano giù per il braccio di metallo, insinuandosi tra le placche di metallo e le articolazioni. La stella è scomparsa, raschiata via con un pezzo di vetro due giorni dopo la battaglia nel cielo sopra il Potomac. Rappresentava soltanto un promemoria del periodo trascorso in cattività, un altro dettaglio che non sarebbe mai riuscito a dimenticare. Era stato comunque più facile eliminare la stella che l'intero braccio e se n'era liberato con piacere.

La doccia sputacchia per un istante, poi il getto si stabilizza nel giro di alcuni secondi. Entra nella cabina e ci rimane per due minuti circa, abbastanza per ripulirsi; non vuole approfittare della cortesia di Anna più di quanto non abbia già fatto e usare tutta la sua acqua calda è fuori discussione.

Chiude il rubinetto e rimane avvolto dal vapore, taciturno. Non riesce a ricordare l'ultima volta che è stato invitato ad entrare in casa di qualcuno o l'ultima volta che è stato considerato un essere umano piuttosto che un'arma. Non lo merita, non si merita tanta compassione. Ha fatto cose terribili, indicibili, e chiunque pensi che lui sia diverso da un mostro dev'essere fuori di testa.

Con un sospiro sommesso esce dalla doccia. Sul ripiano vicino al lavandino trova una piccola quantità di abiti ripiegati e impilati uno sull'altro. I suoi indumenti bagnati sono spariti, rimpiazzati con dei ricambi asciutti; non ha neanche sentito la porta aprirsi e si chiede come sia possibile che i suoi riflessi si siano arrugginiti nel giro di poche settimane. I pantaloni sono quasi della misura giusta però la camicia è troppo stretta e non può chiuderla del tutto senza rischiare di strapparla. Meglio così, dato che apparteneva al marito di Anna e non vuole rovinarla macchiandola di sangue.

Il riflesso che lo osserva dallo specchio è quello di un uomo che non aveva mai visto, scarmigliato e smunto, con borse scure sotto agli occhi. È solo un guscio vuoto, il fantasma di qualcuno che una volta era umano. C'è anche un pettine di plastica sul ripiano e decide di fare un tentativo di rendersi presentabile. Anna è stata gentile con lui, è stata dolce e premurosa, le deve almeno lo sforzo di cercare di apparire in ordine. Fa scorrere con cura il pettine fra i capelli, sciogliendo i nodi che si sono formati per settimane e lasciando che le ciocche bagnate gli ricadano sul viso, come una coltre scura e umida.

Raggiunto un risultato soddisfacente rimette a posto il pettine e piega alla perfezione la camicia del marito di Anna. Finché i suoi vestiti non usciranno dall'asciugatrice non potrà rivestirsi del tutto. In un'altra situazione non sarebbe un problema ma in questo caso sa che Anna vedrebbe il suo braccio e non vuole spaventarla. Non sa come potrebbe nasconderle l'arto di metallo, anche se è intenzionato a provarci.

Anna è in cucina quando lui esce dal bagno, la schiena rivolta verso la porta mentre è intenta a cucinare. Non deve riuscire a vedere il suo braccio; è orrendo e brutale, uno strumento di morte fuso al suo stesso corpo, ed è meglio che lei non ci si avvicini nemmeno.

In quel momento però si gira, lo vede e scuote la testa. «Continui a sanguinare,» dice prima di chinarsi a rovistare nella credenza sotto il lavello. Estrae una scatola di plastica e la appoggia sul bancone vicino ai fornelli, poi recupera alcune garze contenute all'interno.

«Vieni a sederti,» aggiunge indicando la sedia più vicina. Non è tanto una richiesta quanto un ordine, benché cortese. Lui è così abituato agli ordini da obbedire in silenzio e mettersi seduto senza discutere.

Per un momento Anna sembra esitare, si limita ad osservare a lungo il braccio metallico. I suoi occhi scuri non tradiscono alcun pensiero ma la smorfia che le arriccia le labbra vale più di mille parole. Ancora una volta, comunque, non è sconvolta o disgustata - solo preoccupata. Facendo attenzione allunga la mano e tocca una delle placche, dove si connette alla spalla. Lui trattiene un sussulto; non è il dolore a infastidirlo, più che altro la preoccupazione che lei si trovi a poca distanza da un'arma tanto pericolosa. «Ferita di guerra?»

«Qualcosa del genere,» risponde lui. Un muscolo della mascella si contrae quando Anna comincia a tamponare i solchi più profondi con uno straccio imbevuto di acqua ossigenata. «Come fa a saperlo?»

«Mio nipote è stato ferito in Afghanistan,» spiega Anna intanto che srotola una benda sottile e la avvolge intorno ai graffi superficiali. «Ha perso la gamba al di sotto del ginocchio. Gli è servito parecchio tempo per abituarsi alla protesi, anche lui si riduceva così a forza di grattarsi.»

Lavora in silenzio per un po', pulendo il sangue e bendando le ferite. Lui rimane rigido e immobile per lo sforzo di non muoversi troppo. È strano quanto quei gesti amorevoli facciano quasi più male delle ferite stesse; le mani di Anna sono delicate, una sensazione che gli toglie il fiato. Nessuno l'ha mai trattato con tanta gentilezza. «Quando hai prestato servizio?»

«1945,» dice lui in automatico, le parole gli escono di bocca prima che possa fermarle. Si morde una guancia, irritato da quella perdita di autocontrollo.

Anna sembra sorpresa, lo guarda incredula e poi ride di gusto. «Beh, caro, se eri sotto le armi nel '45 hai davvero un bell'aspetto per uno della tua età! Mio marito ha partecipato alla Guerra di Corea, se ne è andato da quasi tre anni. Durante la Seconda Guerra Mondiale eravamo bambini.»

Assicura le bende con del cerotto a nastro e scuote la testa. «Non sei costretto a parlarmene se non vuoi. A Robert non è mai piaciuto parlarne e neppure mio nipote Marcus ne parla volentieri.»

Rimette le garze nella scatola di plastica, poi si allontana per riporla sotto il lavello. «Ho sempre vissuto in mezzo a dei soldati. So che la guerra è un argomento difficile, la maggior parte delle persone preferisce evitarlo.»

Lui le offre un debole sorriso in risposta, grato per quell'attimo di tregua. Non è sicuro di cosa sarebbe riuscito ad inventarsi se Anna avesse insistito; non ricorda nulla della guerra o della sua vita prima di essa e parlare di sé finirebbe solo per far nascere altre domande in proposito.

Prova a far ruotare la spalla con cautela. Fa ancora male ma può sopportarlo, gli è capitato di stare molto peggio. Se non altro ha smesso di sanguinare. Sposta lo sguardo verso Anna, che con l'aiuto di un mestolo sta rimestando la cena che ha appena tolto dal fuoco. «Posso dare una mano?»

«Puoi aiutarmi standotene tranquillo, così quelle bende resteranno al loro posto,» ribatte lei. Si china sul tavolo e gli posa di fronte una scodella di zuppa. «E puoi aiutarmi anche finendo tutto quello che ti piazzerò sotto il naso. Direi che è da un pezzo che non mangi qualcosa di decente.»

Lui si sofferma a pensarci per un attimo: quando è stata l'ultima volta in cui può dire di aver fatto un pasto completo o di aver mangiato del cibo preparato con tanta cura? I suoi guardiani e committenti in genere gli fornivano vitamine e barrette proteiche. Perfino durante le missioni, nel tempo che passava fuori dalla capsula di criostasi, non mangiava altro che frutta rubata dalle bancarelle per strada o quel poco di cibo che riusciva a recuperare nei cassonetti dell'immondizia.

La zuppa è favolosa e vuota la scodella senza bisogno d'incoraggiamento. Anna siede dall'altra parte del tavolo, finendo la propria porzione in tutta calma. Un paio di volte solleva lo sguardo dal proprio piatto e lo fissa in silenzio, come se stesse cercando di trovare da sola delle risposte. Quando si decide a parlare la sua voce è calda e affettuosa. «Perdonami se te lo dico sembra che tu stia scappando da qualcosa.»

Lui rimane impietrito e la donna solleva una mano in un gesto di scuse. «Mi spiace se ho toccato un tasto dolente, non intendevo offenderti. È solo che dal tuo aspetto direi che non hai ben chiaro se andartene sul serio o se invece dovresti restare.»

Quelle parole lo lasciano attonito. Anna ha ragione, c'è ancora qualcosa che lo trattiene: il Capitano, Steve. Non riesce a decidersi a scomparire del tutto, non ancora. Sa che Steve potrebbe avere alcune delle risposte che sta cercando, sul passato che non riesce a ricordare, eppure non ha il coraggio di affrontarlo.

Ha solo bisogno di stargli lontano per tenere entrambi al sicuro, perché non è certo di potersi fidare di se stesso intorno a lui. L'ha quasi ucciso alcune settimane prima e il pensiero che potrebbe fargli di nuovo del male, intenzionalmente o meno, lo fa star male. Dovrebbe andarsene, scappare il più lontano possibile e non tornare mai perché solo così Steve sarebbe fuori pericolo, ma non riesce a farlo. Non riesce nemmeno a costringersi a farlo, perché Steve rappresenta tutto quello che ha perso e tutto quello che vorrebbe ritrovare. Non riesce ad andarsene perché teme che facendolo finirebbe per perdersi per sempre.

«È complicato,» ammette scegliendo con cautela cosa rivelare in proposito, «non ricordo molto della mia vita.» La mano destra sfiora la tempia, la sinistra rimane ben salda sulla gamba. «Ci sono dei vuoti nella mia memoria, dei buchi neri. Quello che mi è successo… non ricordo quasi nulla di chi sono, di chi ero. C'è qualcuno che potrebbe aiutarmi»

Scuote la testa e lascia che la frase quasi gli muoia sulle labbra. «Sono ancora troppo pericoloso per stargli intorno. Al momento andarmene potrebbe essere l'unica soluzione.»

Anna non parla e ascolta in silenzio. La sua espressione è comprensiva, i suoi occhi amichevoli. «Immagino ci si senta parecchio soli.»

«Sentirsi soli va bene. Se sono da solo significa che non posso fare male a nessuno.»

La donna gli risponde con un sorriso triste. «Isolarsi dal resto del mondo non è sempre la scelta giusta, anche se potrebbe sembrare così. Però se pensi che sia quello che ti serve per riprenderti indietro la tua vita va bene, a volte il passo più difficile da fare è confrontarci con noi stessi.»

Lui annuisce in assenso. Uno degli aspetti più difficili di non avere ricordi precedenti alla battaglia del Triskelion è non sapere chi potrebbe essere, ora. L'uomo che era una volta - James, Bucky - ormai non è più la stessa persona. Non è neanche più il Soldato d'Inverno. Non sa chi è, chi dovrebbe essere, e deve cercare di capirlo prima di poter fare qualsiasi altra cosa.

All'improvviso il fragore di un tuono risuona sopra le loro teste, abbastanza forte da scuotere le ante della credenza. Anna sobbalza per un istante, lui invece impiega un secondo o due per reprimere l'istinto di scattare in piedi e raggiungere di corsa la porta.

«Meglio avere un paio di torce a portata di mano,» mormora Anna mentre si alza per rovistare in un piccolo armadietto accanto al frigorifero. Recupera due torce elettriche da uno dei ripiani e torna a sedersi al tavolo, allungandone una nella sua direzione. «Questa potrebbe esserti utile nelle prossime ore.»

Lui accetta senza obiettare; non è affatto preoccupato dalla possibilità di un blackout ma lo stesso non rifiuta l'offerta.

Il resto della serata passa accompagnato dal picchiettare della pioggia sui vetri e dal brontolio dei tuoni. Anna gli parla del marito, di come l'ha conosciuto, e l'espressione sul suo viso al ricordo gli riscalda il cuore. Parla dei figli e dei nipoti, del suo lavoro di insegnante e del volontariato presso numerose chiese e rifugi in tutta la città; gli racconta la propria vita e lui vorrebbe essere in grado di raccontarle qualcosa della sua.

È in quel momento che decide quale tipo di uomo vuole essere - degno dell'accoglienza e della gentilezza di Anna, degno delle sue parole gentili. Non sa se sarà mai in grado di redimersi per tutte le azioni disumane che ha compiuto ma lei e la sua famiglia sono le persone che vuole difendere, proteggere dall'orrore che c'è nel mondo. Per conto dell'Hydra si è macchiato di crimini atroci e gli è venuto quasi naturale dimenticarsi che potessero esistere persone buone e altruiste.

La pioggia continua a scrosciare, intervallando violenti nubifragi a volte e leggeri rovesci altre; Anna insiste perché rimanga per la notte, facendogli notare che il temporale dovrebbe allentare la presa solo intorno alle cinque del mattino. Nonostante la conosca da poche ore, lui sa che è meglio non contraddirla.

Il divano nel soggiorno si apre e si trasforma in un letto e Anna gli porta un buon numero di lenzuola, cuscini e trapunte che sembrano avere quasi più anni di lei. Lo aiuta a sistemarsi per la notte seguitando a chiedere scusa per il fantomatico disordine. Lui le assicura che non c'è alcun problema, anche se è come parlare al muro.

Una volta che il letto è pronto Anna fa un passo indietro e controlla il risultato. Non sembra esserne soddisfatta e per l'ennesima volta lui le assicura che è perfetto. Non ha idea di come potrebbe mai ripagarla per la sua generosità e offrirgli un posto per la notte è un'altra voce da aggiungere alla lista.

«Fammi sapere se ti serve qualcos'altro, la mia stanza è in fondo al corridoio,» dice la donna, poi gli stringe la mano destra con dolcezza. «Qui sei al sicuro.»

È una strana affermazione, che gli provoca una reazione perfino più strana: non si è mai sentito al sicuro in nessun posto e non è affatto abituato a sentirsi rassicurare, così annuisce e cerca di sorridere.

«Grazie,» risponde semplicemente, perché non riesce a pensare a niente di diverso. «Di tutto.»

«Non c'è di che, tesoro.» Anna gli volta le spalle e si allontana lungo il corridoio fino a raggiungere la propria stanza. La porta si chiude con un debole scatto e lui si trova da solo.

Quella notte non dorme per paura di disturbarla gridando a causa degli incubi che potrebbe avere, piuttosto preferisce rimanere sveglio e sorvegliare la casa. È l'unica cosa che può fare per lei ed è più che felice di farlo.

Il picchettio della pioggia si interrompe poco dopo le cinque. Si alza in silenzio e rimette il divano a posto, piega le coperte e le lenzuola e le appoggia sui cuscini. Lascia tutto il più in ordine possibile, in modo che Anna non debba perdere troppo tempo a sistemare.

L'appartamento è avvolto nel buio e Anna sta ancora dormendo, così scivola fuori dalla porta d'ingresso e la richiude con cautela dietro di sé. Può sentire la serratura scattare e il pomello gira a vuoto una volta che il blocco è inserito; soddisfatto si incammina per strada. Sa di non essere una bella persona e sa che non potrà mai sdebitarsi con Anna per la sua gentilezza. Promette a se stesso che si impegnerà per diventare almeno la metà dell'uomo che lei pensa che sia.

Torna da quelle parti qualche giorno più tardi, con un mazzo di fiori recuperato dagli scarti sul retro di un negozio. Alcuni dei petali sono appassiti e flosci ma non poteva fare di meglio e spera sia abbastanza; lascia il regalo sui gradini e se ne va senza neanche fermarsi a controllare che lei vada ad aprire la porta.

Quando passa di lì per l'ultima volta, il giorno dopo, vede i fiori infilati in un vaso e sistemati sul davanzale della finestra che si affaccia sulla via. Per la prima volta in anni riesce a sorridere davvero.

 

 

 

Capitolo originale dell'autrice

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