Erano
trascorsi quattro giorni dal primo incontro fra Sherlock ed Emily e due
dall’insediamento di quest’ultima al numero 221B di Baker Street. La ragazza
aveva raggiunto Londra con solo un paio di valigie al seguito, per tale motivo
le era risultato piuttosto semplice abbandonare il dormitorio in cui aveva
temporaneamente prenotato una stanza e trasferirsi nel suo nuovo appartamento.
L’idea di convivere con un uomo non la preoccupava più di tanto, al contrario.
Era eccitata al pensiero di condividere le stesse stanze di Sherlock Holmes,
così come di respirare la sua stessa aria e di averlo sotto gli occhi di
continuo, con l’assoluta libertà di poterlo studiare, vederlo in azione e
carpire il più possibile della sua psiche.
Quel
mattino, intorno alle dieci, la ragazza era accoccolata sul divano, le gambe
incrociate, il portatile in braccio. Teneva sotto controllo la piccola cucina
di tanto in tanto, senza smettere di ascoltare i suoni prodotti da Sherlock
che, con inforcati camice e occhiali, aveva preso dominio della stanza per
effettuare alcuni dei suoi esperimenti.
Era
bastato poco a Emily per capire che l’uomo con cui aveva deciso di convivere
non era quello che si poteva definire esattamente un “tipo convenzionale”. La
casa era indubbiamente sua, lo si capiva dai suoi oggetti sparsi praticamente
ovunque in ogni stanza – fatta eccezione per la camera della ragazza al piano
superiore – così come era evidente che per lui, avere un coinquilino, non
implicasse automaticamente il fatto di dover modificare almeno in parte le
proprie regole e il proprio stile di vita. Aveva dei modi di fare curiosi, notò
fin da subito la ragazza, eppure le piaceva; si poteva dire che fosse unico nel
suo genere, qualcuno che non si può incontrare facilmente in giro e che, e questa
per lei era la parte più interessante, non fosse affatto semplice da
analizzare. In soli due giorni, Emily era riuscita a capire che Sherlock Holmes
non era molto ferrato nei rapporti umani e che preferiva circondarsi
esclusivamente di poche persone che non lo intralciassero più del dovuto. Una
volta capito questo per lei fu facile decidere come comportarsi; era comunque
cresciuta con tre fratelli più grandi che erano stati tre adolescenti
intrattabili e che necessitavano dei propri spazi e di non avere fra i piedi la
sorella piccola, perciò sapeva come stare lontana da qualcuno facendo
ugualmente parte della sua vita. Sherlock era come i suoi irascibili fratelli
in piena pubertà.
Bevve
un sorso di caffè dalla sua tazza – preparato in extremis prima che il
detective monopolizzasse la cucina – e riprese a scrivere qualcosa sul
portatile quando sentì dei passi salire lungo le scale. Sospettò si trattasse
della signora Hudson, ma la velocità con cui stava percorrendo la rampa non era
riconducibile alla donna. Si voltò verso l’ingresso nel momento esatto in cui
questo veniva aperto, introducendo nella stanza John Watson. I secondi che
seguirono quel primo momento furono notevolmente strani, per l’uomo molto più
che per Emily.
«Buongiorno
Dottor Watson» lo salutò infine la ragazza, sorridendo.
John
la guardò basito per un momento, fece scorrere gli occhi sull’abbigliamento di
lei – una normale camicetta da donna e un paio di pantaloni neri – e sollevò
dubbioso la mano destra in un cenno di saluto.
Subito
dopo Sherlock comparve dalla cucina, un vetrino da laboratorio in mano. Sollevò
gli occhiali protettivi e osservò l’amico. «Buongiorno.»
Il
medico lo guardò, mentre il detective scompariva nuovamente in cucina,
dopodiché lo seguì nell’altra stanza. Lo fissò a lungo, in silenzio, indicando
brevemente in direzione del soggiorno, dove Emily aveva ripreso a lavorare al
pc.
«Sherlock,
posso… posso parlarti un momento?» domandò infine John, riacquisendo pieno uso
delle parole.
«Non
ora, sono impegnato. Devo isolare questa particolare spora fungina evitando di
contaminarla» replicò l’uomo, asciutto.
John
si guardò intorno. Il caos regnava sovrano e si chiese come sarebbe riuscito
l’altro a non contaminare una spora in quel marasma che era la sua cucina. Attese
paziente che Sherlock ultimasse la sua impresa e quando questo ci riuscì,
invece di complimentarsi, John gli si avvicinò ancora, abbassando ulteriormente
il tono di voce.
«Possiamo
parlare, ora?» domandò, lanciando veloci occhiate in direzione del soggiorno.
«Sì,
possiamo» rispose Sherlock, posando occhiali e vetrino sul tavolo.
Senza
troppe cerimonie John afferrò l’altro per il camice, sospingendolo verso la
camera da letto di Sherlock e ignorando completamente le deboli proteste che
l’uomo sollevò in quel breve tratto di strada.
«Non
mi risulta di averti autorizzato a entrare in camera mia» sbottò il detective,
sistemandosi il camice.
«Quanti
anni ha, Sherlock?» domandò John, fissando serio l’altro da sotto in su. C’era
una nota di severo rimprovero nella sua voce, che Sherlock ignorò
completamente.
«Chi?»
chiese in risposta.
John
lo colpì alla spalla. «Non prendermi in giro, hai capito di chi parlo. Ora
dimmi, quanti anni ha?»
Sherlock
alzò gli occhi al cielo, senza preoccuparsi di farsi vedere dal medico. Alle
volte John Watson gli pareva così ottuso da essere irritante.
«Venticinque.»
«Ven…» cominciò l’altro, allontanandosi dal detective e
passandosi rapidamente le mani sul volto. «Venticinque, Sherlock? Fai sul serio?»
esclamò, mantenendo controllato a fatica il tono di voce.
Il
suo interlocutore inarcò un sopracciglio, leggermente infastidito, senza
proferire altra parola. Rimase a guardare John che cercava di ricomporsi in
fretta, andando avanti e indietro per brevissimi tratti nella stanza. Quando questi
parve aver ritrovato una buona parte del suo controllo si stropicciò
rapidamente gli occhi con la mano destra, espirò a pieni polmoni e tornò a
fissare Sherlock negli occhi.
«Senti,
io… posso capire che magari sono successe delle cose che…» esordì, cercando di
collegare correttamente pensieri e parole fra loro. «Dopo Janine,
immagino che, comunque…» si arrestò. Respirò a fondo ancora una volta e si
decise a concludere: «Sei umano, dopotutto, e comprendo perfettamente che tu
abbia degli… stimoli.»
Sherlock
sollevò entrambe le sopracciglia, ora, decidendosi a parlare. Tuttavia John lo
bloccò con una mano.
«Ma
questo è troppo anche per te. Ha venticinque anni, Sherlock, venticinque!» urlò
infine.
Il
detective attese che John smettesse di vaneggiare quell’ultima volta, infine,
con il suo consueto tono di chi è alle prese con qualcuno di veramente stupido
disse: «Immagino che mantenere un basso profilo non fosse nelle tue intenzioni»
gli fece notare, lanciando una rapida occhiata in direzione della porta
socchiusa della sua stanza da letto, per far capire all’altro che la sua ultima
esplosione non poteva certo essere sfuggita a Emily. «Ora, se vuoi calmarti, ti
spiego per quale motivo hai sbagliato ancora una volta.»
«È
una cliente?» chiese John, improvvisamente insicuro.
«Neanche.
Le tue opzioni sono sempre così limitate, John. È una cliente, se non lo è
allora è un’amante.»
«Senti
smettila di girare intorno all’argomento. Vieni al punto. Chi è quella ragazza
è perché è seduta sul nostro divano?»
«Sul nostro divano?» ripeté Sherlock.
Tuttavia appena vide l’espressione dell’amico capì che era meglio arrivare
subito al dunque. «Si chiama Emily ed è la mia nuova coinquilina.»
«Coinquilina?»
esclamò John, più sorpreso di quanto si fosse aspettato da se stesso. Sapere
che Sherlock aveva un nuovo coinquilino, per di più donna e così giovane, lo
sorprese più di immaginare il detective alle prese con una relazione
sentimentale dispari per età.
Sherlock
diede un’ultima, lunga, occhiata a John poi, stancatosi improvvisamente di
quella situazione, si avviò per superarlo e uscire dalla camera. Il medico lo
fermò: «Fermo, pensi di non dovermi delle spiegazioni?»
Il
detective aggrottò la fronte. «Senti, se ti preme tanto sapere perché si è
trasferita qui chiedilo a lei. Io ho da fare.»
Conclusa
la frase si liberò dalla presa di John e tornò in cucina. L’amico, invece,
impiegò più tempo per ricomparire e lo fece solo quando la sorpresa iniziale
per quella scoperta – a suo parere assurda – venne metabolizzata a sufficienza
dalla sua mente. Tornato in soggiorno trovò Emily nell’esatta posizione in cui
l’aveva vista la prima volta, con l’unica differenza che la sua tazza era
vuota. La ragazza sollevò gli occhi su di lui e gli sorrise. Anche John le
sorrise e andò a sistemarsi su quella che era sempre stata la sua poltrona,
rimanendo a fissare a lungo Emily. Quest’ultima si grattò leggermente il naso,
infine chiese: «Cosa vuole sapere?»
Lo
domandò con voce calma, dolcemente, perfettamente consapevole che la sua
presenza al 221B di Baker Street era un quesito enorme per coloro che
conoscevano Sherlock Holmes. John si mosse a disagio sulla poltrona,
distogliendo lo sguardo. La prima impressione che ebbe della ragazza fu quella
di una persona tranquilla, perbene, qualcuno che, effettivamente, aveva davvero
poco a che fare con Sherlock. Tornò a domandarsi cosa ci potesse fare lì lei e
mentre continuava a non darsi pace per quella situazione non fu in grado di
notare Emily che lo fissava con intensità, sorrideva divertita e appurava
mentalmente quanto John Watson fosse sorprendentemente simile all’idea che lei
si era fatta dell’uomo.
«Mi
chiamo Emily Price, sono di Newport» esordì infine la ragazza, cercando di
stemperare l’atmosfera. Il medico la guardò, ma ancora non seppe con esattezza
cosa dire e ciò diede modo a Emily di continuare: «So che le può sembrare
strano che sia venuta a vivere qui, ma le garantisco che ha molto più senso di
quanto possa pensare.»
Si
accorse che le sue ultime parole avevano completamente catturato l’attenzione
di John e lo preso come il giusto pretesto per dirgli per quale motivo era
venuta a Londra. Gli disse ciò che aveva già detto a Mrs. Hudson e a Sherlock,
ma la reazione del medico fu la migliore che potesse sperare di ricevere. Si
dipinse in volto un’espressione ammirata, colpita, come se lei gli avesse
appena detto di aver conseguito una laurea in ingegneria aerospaziale. Tuttavia
quando gli spiegò che aveva deciso di scrivere la tesi su Sherlock Holmes –
motivando di conseguenza il suo trasferimento in quell’appartamento –
l’espressione dell’uomo mutò nuovamente, divenendo indecifrabile agli occhi di
Emily.
Alla
fine la ragazza si zittì e quando lo fece non seppe esattamente quale reazione
aspettarsi dall’altro. Rimase in attesa mentre il medico annuiva con la testa,
per poi sospirare.
«Emily…
posso?» cominciò, sottintendendo la sua intenzione di evitare formalità con una
ragazza così giovane. Lei lo autorizzò con tranquillità, esibendo un rapido
gesto.
«Tu
sai, vero, del manicomio in cui hai deciso di infilarti?» le chiese alla fine,
scandendo con cura tutte le parole.
Di
risposta Emily lanciò un’occhiata in direzione di Sherlock, ancora nascosto in
cucina, sorrise e si strinse nelle spalle. «L’ho intuito, sì. Ma non basterà a
fermarmi. Sono cresciuta in mezzo a quattro uomini Dottor Watson.»
«John,
per favore» precisò, ricevendo di rimando un gesto affermativo. «E vorrei
sottolineare che quegli uomini non erano
Sherlock Holmes» concluse, indicando dietro di sé.
Nuovamente
la ragazza non si scompose, ma sorrise al suo interlocutore stringendosi per
l’ennesima volta nelle spalle.
«Mi
fa sentire lusingata il fatto che si stia preoccupando tanto per me, ma non
serve. Posso sopravvivere a questo» replicò, indicando la stanza con un ampio
cenno.
Rendendosi
conto che continuare a insistere non avrebbe portato a niente, John decise di
rinunciarvi, acconsentì, si alzò dalla poltrona e raggiunse Sherlock in cucina.
Il detective lo guardò un momento. «Sei soddisfatto, ora?» domandò.
John
annuì con il capo senza aggiungere altro.
«Come
mai qui?» lo incalzò Sherlock poco dopo. John continuava a raggiungere Baker
Street abbastanza spesso anche in seguito al suo matrimonio e alla nascita
della sua primogenita, ma quella domanda se la sentiva dire ogni volta che
rivedeva l’amico, come se Sherlock temesse di sentirsi dare improvvisamente una
risposta inattesa.
«Ero
di passaggio» rispose il medico, come ogni altra volta.
«Dovresti
smetterla di lasciare Mary e la piccola da sole» lo rimbeccò subito l’altro.
«Oh
è Mary che mi ha costretto a uscire. Dice che in casa sono insopportabile.»
Sherlock
si esibì in un mezzo sorriso sentendo le sue parole e pensando alla donna che
le aveva pronunciate.
«Congratulazioni
Dottor Watson. Non sapevo fosse diventato padre» giunse dal soggiorno, con la
voce femminile di Emily. John si sporse verso di lei, comparendo da dietro la
parete.
«John»
la corresse. «E grazie.»
L’uomo
tornò a rivolgersi verso Sherlock. Era in procinto di dire qualcosa quando sentirono
la porta aprirsi e la voce della signora Hudson introdurla nel soggiorno. «Si
può, ragazzi?»
John
ricomparve nuovamente nella stanza, salutò la signora e subito dopo l’uomo che
era insieme a lei: Greg Lestrade.
«Dov’è
Sherlock?» domandò Mrs. Hudson, mentre Emily prese a osservare con interesse
quella situazione.
Sentendosi
chiamato in causa anche l’uomo fece la sua comparsa nel soggiorno, guardò
annoiato tutti i presenti, infine sentenziò: «Comincia a essere un po’ troppo
affollata questa casa.»
Lestrade
non si scompose. Si sistemò meglio il cappotto e chiese: «Sei impegnato ora o
possiamo parlare?»
Gli
occhi di tutti si spostarono su Emily, che per Lestrade altro non poteva essere
se non una nuova cliente del detective; Sherlock, invece, posò i suoi sul
becher che teneva in mano. «Possiamo parlare.»
Mrs.
Hudson uscì dalla stanza sentendo quelle parole e tornò al piano di sotto,
Emily, invece, chiuse il portatile, lo posò sul tavolino che aveva davanti e si
mise più comoda sul divano. Né Sherlock, né Lestrade, né Watson si misero a
sedere, ma rimasero tutti e tre fra soggiorno e cucina a guardarsi in un
triangolo mal organizzato.
«Vorrei
che venissi con me. Mi serve la tua opinione per un cadavere» cominciò
l’ispettore.
«Se
è come quello dell’altra volta risparmiamelo. Ci ho messo due minuti e
trentotto secondi a capire come avevano fatto a provocargli quell’emorragia
interna» replicò Sherlock.
«Questa
volta è diverso.»
«Ogni
volta è diverso, Glen» gli fece notare il detective con voce piatta.
Lestrade
non si prese neanche la briga di correggere Sherlock per aver sbagliato il suo
nome l’ennesima volta. Pensò che una volta terminati tutti i nomi che
iniziavano per G avrebbe certo azzeccato il suo. Respirò a fondo e si decise a
lasciar perdere, probabilmente non lo aveva trovato in un buon momento. Sollevò
le mani in segno di resa e si apprestò a salutare tutti quando lanciò una
rapida occhiata in direzione di Emily. Sherlock notò il suo gesto, osservò
nuovamente il becher che teneva in mano e qualcosa nella sua mente scattò.
«A
ripensarci potrebbe essere interessante» disse infine, posando il becher in
cucina e togliendosi il camice. Prese il cappotto dall’attaccapanni e lo
infilò, afferrando poi anche quello della ragazza.
Lestrade
lo guardò sorpreso. Ormai conosceva Sherlock a sufficienza, eppure i suoi
repentini cambi di idea no, quelli ancora non riusciva a spiegarseli.
«Forza,
Emi, è ora» continuò Sherlock, lanciando il cappotto in direzione della ragazza
e colpendola giusto in faccia. «Questo potrebbe rivelarsi molto importante per
il tuo lavoro: la prima uscita sul campo.»
Emily
riemerse da sotto il suo cappotto, alzandosi in piedi davanti a un confuso
ispettore di polizia. Lui, infatti, la indicò. «Che significa?» chiese, rivolto
a Sherlock.
«Significa
che ho deciso di venire. Anche John, naturalmente. Noi prendiamo un taxi, lei
sale in macchina con te» tagliò corto. Superò Lestrade e scese lungo le scale,
lasciando questi visibilmente basito. Emily gli si avvicinò e gli tese la mano:
«Emily Price, ispettore. Molto piacere» si presentò sorridendo.
Lestrade
le diede la mano e rimase a guardarla mentre seguiva Sherlock lungo le scale.
Infine fissò John, nella speranza di ricevere da lui qualche risposta utile.
«Sì,
la situazione lascia tutti così» gli disse quest’ultimo, indicando poi la porta
e invitandolo ad avviarsi, cosa che l’ispettore fece in modo decisamente
incerto.
In
strada i quattro si separarono come aveva stabilito Sherlock. Emily salì
sull’auto della polizia insieme all’ispettore Lestrade, Sherlock e John,
invece, fermarono il primo taxi che passò loro davanti. Una volta montati
sull’auto nera dissero al conducente dove andare e si accomodarono per bene nei
seggiolini. Per un po’ nessuno dei due parlò, tuttavia, alla fine, John non fu
più in grado di trattenersi e decise che quella poteva essere una buona
occasione per incalzare Sherlock e costringerlo a dargli qualche informazione
aggiuntiva.
«Sii
sincero» esordì, senza guardare l’altro. Il detective si voltò appena verso di
lui.
«Davvero
hai preso quella ragazza a vivere con te solo per via della sua tesi?»
«Dovrebbe
esserci dell’altro?» domandò in risposta.
«Oh
sì, potrebbe eccome» esclamò il medico.
Sherlock
sospirò, rassegnato; alla fine si decise a dare qualche informazione aggiuntiva
al suo amico, dopotutto si parlava di John Watson e, come se non bastasse, una
parte di sé si sentiva ancora in colpa ripensando a quello che aveva dovuto
passare il medico negli anni della sua presunta morte – anche se, dopotutto, in
quel lasso di tempo aveva pur sempre conosciuto Mary. Costrinse la sua mente ad
arrestarsi e diede finalmente qualche delucidazione aggiuntiva.
«Mycroft
l’ha contattata appena ha messo piede a Londra. Inutile dire che sapeva già che
lei era intenzionata a scrivere di me e l’ha informata del fatto che a Baker
Street c’era una stanza libera. Sono certo che abbia rigirato l’argomento a
sufficienza per far credere a Emi che sia stata una sua idea fin dal
principio.»
«Emi?»
chiese perplesso l’altro.
«Si
chiama Emily, no? Lei mi ha detto di chiamarla così. Ti sorprende più questo
della storia di Mycroft? Il tuo cervello è davvero un’oasi felice.»
John
lo guardò di sbieco. «Mycroft perché lo avrebbe fatto?» chiese, fingendo di non
aver sentito la provocazione che gli aveva rivolto Sherlock.
«Per
lo stesso motivo per cui ti aveva offerto dei soldi appena saputo che eri
diventato mio coinquilino» replicò con ovvietà l’altro.
«Ma
Emily è solo una ragazza» esclamò sorpreso.
Sherlock
si voltò verso di lui, guardandolo con intensità. «È qui che sbagli. È giovane,
certo, ma molto intelligente e capace. È anche per questo che ho accettato di
averla per casa: mi ha incuriosito. Sai che appena si è laureata è stata subito
contattata dalla South Wales Police? Per via delle sue conoscenze, del suo
lavoro di tesi. Voglio davvero vedere che cosa è in grado di mettere insieme su
di me, sulla mia mente. Può essere la mia miglior sfida, vedere se esiste
qualcuno in grado di decifrarmi nello stesso modo in cui faceva Moriarty.»
John
rimase a fissare il detective senza dire nulla, mentre quest’ultimo tornava a
rivolgere il suo sguardo sulla strada. Per un lungo istante parve completamente
assorbito da qualcosa di invisibile agli occhi e tremendamente pesante.
«E
poi avevo bisogno di qualcuno che pagasse per me parte dell’affitto, è questo
che Mycroft si è offerto di fare per Emily. Probabilmente lui sapeva che la
ragazza mi avrebbe incuriosito al punto di accoglierla in casa mia, per tale
motivo ha orchestrato tutto questo teatrino. Anzi, lo conosco, posso affermare
con certezza che le cose sono andate così.»
«E
non ti disturba?» chiese con curiosità John, perfettamente conscio dei rapporti
spesso tesi fra i due fratelli Holmes.
«Assolutamente
no. Quella ragazza prepara il tè, non parla troppo e paga metà dell’affitto.
Sotto certi punti di vista è una coinquilina migliore di quanto lo sia stato
tu» concluse, strizzando l’occhio all’amico, il quale si limitò a sbuffare un
po’ d’aria, per poi tornare a ignorare Sherlock, concentrando la sua attenzione
fuori dal finestrino.
Quando
giunsero a destinazione si ricongiunsero all’ispettore, intento a conversare
amichevolmente con Emily. Sherlock li guardò di traverso, soffermando la sua
attenzione sull’uomo.
«Vedo
che non hai perso tempo» disse, sarcastico.
Lestrade
non replicò, ma si zittì di colpo.
«Da
questa parte» disse poi, facendo strada agli altri.
Emily
si introdusse per la prima volta nel St. Bartholomew's
Hospital, in cui Sherlock si recava più spesso. Si guardò intorno lungo i
corridoi, memorizzò la strada, osservò attentamente la sicurezza con cui sia
Sherlock sia John compivano i propri passi lì dentro, a dimostrazione che in
quel posto erano soliti venirci di frequente. Al termine dell’ennesimo
corridoio imboccato, mentre Lestrade varcava la porta, Sherlock si fermò, si
voltò verso Emily e venne imitato da un confuso John.
«Come
te la cavi a contatto con dei cadaveri?» chiese il detective alla ragazza,
senza notevole curiosità o preoccupazione.
«Se
sei preoccupato possa svenire o cose simili puoi stare tranquillo. Ho studiato
alcuni degli omicidi più efferati della storia, posso garantirti di aver visto
dei corpi ridotti in maniera a dir poco irriconoscibile» replicò lei, ferma.
«Le
immagini di rado sono impressionanti quanto la realtà. Non credo tu possa
capire se non hai mai respirato la loro stessa aria.»
«Non
mi risulta che i morti siano in grado di respirare.»
Le
labbra di Sherlock si incurvarono in un mezzo sorriso, dopodiché, senza dire
nulla, tornò a rivolgersi alla porta e introdusse gli altri nella stanza.
All’interno
dell’obitorio Lestrade era fermo accanto a Molly, gli occhi fissi sulla soglia
da cui i tre avevano appena fatto il loro ingresso. John e Sherlock salutarono
Molly, che dopo aver risposto di rimando finì anche lei con l’osservare
incuriosita Emily. Sherlock e John si avvicinarono al lettino accanto a cui
Lestrade e l’anatomopatologa erano fermi e su cui, al di sotto di un telo nero,
era perfettamente percepibile la sagoma del corpo di un uomo.
L’ispettore
non attese alcuna parola; sollevò il telo nero e rimase in silenzio a guardare
Sherlock che faceva scorrere rapido lo sguardo sul volto del cadavere. Il
detective lo analizzò in fretta in un primo momento, come era solito fare, ma
poi i suoi occhi si spostarono involontariamente sul viso di Molly, ancora
intenta a scrutare dubbiosa Emily.
«Molly,
ti presento Emi» disse infine, pensando fosse meglio fare le presentazioni. Si
rivolse a Emily: «Lei è Molly Hooper» concluse,
tornando poi a dedicare la sua attenzione al cadavere.
Emily
strinse la mano a Molly, scandendo silenziosamente il proprio nome per far
capire alla donna che lei non era solo “Emi”. Nessuno ebbe tempo di dire altro,
Sherlock parlò nuovamente: «Qualsiasi cosa vogliate chiederle, per favore,
fatelo quando io non ci sono. Non voglio sentire per l’ennesima volta la storia
sul perché lei si è trasferita qui» disse, senza guardare o rivolgersi a
qualcuno in particolare.
Nell’obitorio
non parlò più nessuno, ma Emily, Lestrade e Molly si scambiarono un’occhiata.
John, invece, aveva raggiunto l’amico accanto al lettino e, insieme a lui,
stava analizzando il corpo dell’uomo.
«È
il giudice Walker» osservò John, appena gli fu accanto.
«Sì,
esatto. Mi risulta avesse uno stile di vita sano, dubito abbia avuto un
infarto» rispose Sherlock.
«Cosa
pensi possa essergli successo?» gli chiese poi il medico.
Il
detective si avvicinò ulteriormente al viso del morto, scrutandone il colorito
della pelle. «Non è detto che io debba saperlo.»
«Allora
perché ti avrebbero chiamato qui?»
Sherlock
guardò l’altro, sollevò un sopracciglio, ironico e lievemente lusingato. Alle
sue spalle Emily continuava a osservarlo attentamente, catturata; ne studiava i
movimenti, la gestualità, il modo in cui sfiorava i particolari, perfino le
oscillazioni del suo cappotto. Dentro di lei c’era un’emozione crescente,
inestinguibile. Voleva registrare ogni possibile cosa riguardasse il detective
per essere certa di non tralasciare neanche la più misera delle informazioni
che le sarebbero potute servire per portare a buon fine il suo lavoro. Era
convinta – fermamente convinta – che i segreti per riuscire ad afferrare
veramente Sherlock Holmes fossero racchiusi nei dettagli, quelli più insignificanti
per chi non era in grado di interpretarli.
«È
morto affogato» informò improvvisamente Molly.
Sherlock
si voltò a guardarla, tornando a erigersi in tutta la sua statura. «Affogato?
Quando è successo?»
«Ieri.
Il giudice era solito andare a nuotare in una piscina privata prima di recarsi
a lavoro» disse Lestrade. «Ha fatto due vasche, alla terza è affogato.»
«Ha
avuto un arresto cardiaco per caso?» volle sapere John.
Molly
annuì: «Proprio così. L’annegamento ne è stata la conseguenza.»
«Com’è
possibile? Avevo incontrato quest’uomo e sono certo che non corresse il rischio
di avere infarti» precisò Sherlock, dubbioso ma serio.
«È
per questo che ti ho fatto venire qui, Sherlock. Non chiedermi perché ho avuto
questa idea, potrei non volerti rispondere, ma ho chiesto a Molly di svolgere
specifiche analisi» riprese Lestrade.
«A
che pro?»
«Per
capire se c’era qualcosa di sospetto oppure no. È comunque un giudice, non
godono di buona fama fra molte persone. A ogni modo, gli esami che Molly mi ha consegnato
prima che venissi da te confermano che Walker è stato avvelenato.»
«Avvelenato?»
domandò John.
L’anatomopatologa
acconsentì. «Botulino. È stata la causa del suo arresto cardiaco.»
Sherlock
spalancò improvvisamente gli occhi, mentre gli altri, consapevoli, lo
guardarono. Quello che il detective si trovava davanti era un omicidio, puro e
semplice, eppure in quel delitto era racchiuso interamente il suo più recente
passato. A Sherlock parve di essere riportato indietro a solo pochi anni prima,
a quando i pezzi di un puzzle complicato avevano cominciato a incastrarsi fra
loro con perfezione millimetrica, a quando la sua mente, la sua psiche, erano
state spinte talmente al limite da aver sfiorato spazi per lui ancora
inesplorati.
«Il
grande gioco» mormorò Emily. Lo disse piano, fissando oltre il detective, sul
lettino. Tuttavia la sua voce fu sufficientemente chiara da essere percepita
alla perfezione da tutti. Sherlock la guardò, serio.
«Lo
hai capito» disse piano.
Emily
annuì con il capo, mentre il silenzio si era ormai impadronito in modo tetro
dell’intera stanza. Fra i presenti aleggiava una consapevolezza impossibile da
ignorare, poiché aveva toccato tutti quanti almeno una volta, Emily esclusa.
Eppure anche lei lo sapeva, anche lei lo aveva capito. Le era bastato poco per
intuire che il decesso di Walker non poteva essere solo una sorprendente
coincidenza, ma che racchiudeva dentro di sé qualcosa di ben più grande e
tetro. Vi era un legame fra quel nuovo omicidio e uno passato, un legame che
tuttora era in grado di azionare ogni ricettore nella mente sempre reattiva di
Sherlock Holmes. Quel legame era Jim Moriarty.