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Autore: Adeia Di Elferas    03/01/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Io... Io...” boccheggiò Cesare Borja, guardando il padre senza riuscire a formulare una frase di senso compiuto.

Alessandro VI ricambiò con lo sguardo con quella sorta di distrazione che metteva spesso nel parlare con lui. Il papa aveva in testa grandi piani solo per Juan. Quella decisione era dettata solo dal suo desiderio di allontanare il suo prediletto dal pericolo.

Cesare si sentiva un sacrificabile, niente di più.

“Non ti ho mica chiesto di andare a morire per il re di Francia.” tagliò corto Rodrigo, suonando la campanella in modo tale che arrivasse un servo per prendere ordini: “Dovrai solo far loro da guida fino al confine napoletano. Volevano qualcuno che conoscesse il territorio e qualcuno che facesse da garanzia della mia buona fede.”

Un domestico accorse ai piedi del papa, che gli disse di portare del vino e del formaggio e, mentre il giovane usciva di nuovo dalla sala che Rodrigo aveva eletto come suo appartamento favorito in Castel Sant'Angelo, Cesare si permise di schiarirsi la voce.

“Che c'è?” domandò Alessandro VI, mettendosi a sedere su uno degli sgabelli dalla seduta in pelle pirografata.

Il figlio, che in quei giorni vestiva da civile e non da porporato, abbassò gli occhi, mentre il lungo viso si rabbuiava: “Mi chiedevo solo se non fosse più indicato Juan per...”

“Tuo fratello deve pensare a sua moglie.” tagliò corto il papa: “E poi il suo futuro è in Spagna. Non ha tempo da perdere qui.”

Cesare incassò il colpo e fece un profondo inchino: “Come comandate.”

“Ora puoi ritirarti.” concluse Rodrigo, invitando intanto i servi carichi di cibo a farsi avanti: “Cerca di ristudiarti bene le mappe. Fai in modo che non mi debba vergognare di aver scelto te. Quando re Carlo sarà pronto a partire, sarai il primo a saperlo.”

Il diciannovenne si portò una mano chiusa al petto, aspettando che suo padre venisse servito a puntino e poi, nascondendo ancora una volta il proprio rancore per la freddezza che il genitore non mancava di riservargli, si congedò e raggiunse le sue stanze.

 

“Allora, che notizie ci sono?” la Contessa era arrivata nella sala del Consiglio con un discreto anticipo, tuttavia vi aveva trovato, già ai loro posti, Luffo Numai, Francesco Oliva e Tommaso Feo.

“Bartolomeo d'Alviano si è ripreso del tutto dalla ferita riportata in dicembre – riassunse Numai, ricontrollando le carte che aveva davanti a sé – ed è stato di recente sopraffatto per superiorità numerica a Tagliacozzo da Fabrizio Colonna, Antonello Savelli, Giovanni Cavalli e Giuliano Della Rovere.”

Tutt'altro che sorpresa nel sentire il nome del cugino del suo defunto marito, Caterina si mise a sedere e si tolse il mantello. Quella mattina, sfruttando il bel tempo improvviso, era uscita per una breve battuta di caccia in solitaria. Non aveva chiesto a nessuno di seguirla, nemmeno a Giacomo. Aveva voluto godersi qualche attimo di silenzio e pace immersa nei boschi ghiacciati ed era anche riuscita a prendere qualche piccola preda che avrebbe fatto la sua figura, una volta cucina a puntino dai cuochi della rocca.

“C'è altro?” chiese la donna, visto che Numai sembrava aver concluso il suo aggiornamento.

“Le nostre spie dicono che Virginio Orsini si sia fermato a San Germano per bloccare l'avanzata francese...” continuò l'uomo, ma dall'espressione che fece si intuì che non credeva nella genuinità dell'azione del romano.

“Ci sono più Orsini con re Carlo che con re Alfonso, ormai.” fece l'Oliva, interpretando il pensiero di tutti: “Dubito che messer Virginio sarà da meno, al momento opportuno.”

Caterina, che ricordava bene la filosofia mercenaria di quello che un tempo aveva considerato un prezioso amico, si sistemò i capelli e concordò: “Non dobbiamo preoccuparci di lui, né di sua sorella Bartolomea. Al momento giusto, vedrete che lasceranno Napoli come hanno già fatto i loro parenti.”

Tommaso guardava la sua signora con una strana curiosità, che alla Contessa non sfuggì.

In realtà il Governatore stava solo considerando tra sé quanto la Tigre sembrasse selvatica, dopo una battuta di caccia, con i capelli fuori posto, le sottane coi segni della recente cavalcata in mezzo ai boschi e il freddo del mattino ancora addosso.

Caterina, invece, credette che l'uomo non fosse d'accordo con la sua valutazione, perciò chiese: “Non credete che gli Orsini passeranno dalla parte dei francesi?”

Tommaso si affrettò ad assumere un'espressione più neutrale possibile e disse solo: “No, la penso esattamente come voi.”

“E dalle spie di Milano?” continuò la Contessa, pur non molto convinta dalla risposta di Tommaso.

L'Oliva non ebbe bisogno di controllare resoconti per riferire: “Francesco Gonzaga ha accettato la carica di Capitano Generale dell'esercito del Doge. Tuttavia, per il momento non ha lasciato il suo campo.”

“E se lo sappiamo noi, di certo lo sa già anche mio zio.” commentò tra sé Caterina.

L'Oliva fece un cenno con il capo in segno di assenso e continuò: “Infatti il Duca di Milano non ha perso tempo. Ha mandato Giovan Francesco Sanseverino di nuovo dai francesi, impedendogli di seguire suo fratello. Gli ha dato centocinquanta lance e quattrocento cavalleggeri, più alcuni fanti e gli ha ordinato di scendere a Pistoia e poi a Siena, fino a raggiungere re Carlo e dargli manforte con le truppe fresche.”

Caterina si accigliò, chiedendosi a che gioco stesse giocando Ludovico. La sua cancelleria si era quasi ammutolita e di fatto stava fornendo vettovaglie e armamenti ridotti a re Carlo. Eppure ora gli inviava Sanseverino, quasi a bilanciare la prossima perdita del Marchese di Mantova. Comunque la guardasse, alla Contessa parve una strategia molto confusa e poco efficace.

“Un'ultima cosa...” disse l'Oliva, usando improvvisamente un tono molto più confidenziale: “Ecco, mi è giunta una notizia molto delicata...”

“Parlate, non abbiamo molto tempo.” lo incitò Caterina, con impazienza.

“A quanto pare, Isabella d'Aragona ha dato alla luce una figlia.” iniziò a dire il milanese.

La Contessa provò per un attimo pietà per quella creatura nata in una casa tanto sfortunata e dolente, ma nulla di più. L'ultima figlia di suo fratello Gian Galeazzo avrebbe quasi per certo avuto un destino infelice anche se non fosse rimasta orfana di padre ancor prima di venire al mondo, dunque non era il caso di darsi troppa pena.

“Sembra che sia stata incarcerata nella medesima torre in cui prima risiedeva madonna Bona di Savoia...” l'Oliva sospirò, mentre l'attenzione della Contessa si riaccendeva nel sentire quel nome.

Senza aspettare che la sua signora gli chiedesse se fosse successo qualcosa alla donna che considerava alla stregua di una madre, il milanese concluse: “La torre era libera perché madonna Bona è scappata in Francia.”

Caterina ci mise un attimo per afferrare la cosa. Sua madre stava bene, o, per lo meno, per il momento era sfuggita a Ludovico e tanto doveva bastarle. Non la vedeva da troppi anni e anche solo pensare a lei riapriva ferite che la Contessa avrebbe tanto voluto dimenticare. Assecondando un moto d'egoismo scaturito dal desiderio di non soffrire più, Caterina decise di non approfondire la questione.

“Va bene – concluse – aspettiamo gli altri membri del Consiglio. All'ordine del giorno, per prima cosa, dovremo parlare del matrimonio di mia figlia Bianca.”

Luffo Numai parve molto sollevato da quella notizia, mentre Francesco Oliva e Tommaso Feo si scambiarono un'occhiata confusa, senza però avere lo spirito di aprir bocca.

 

Il 23 gennaio, tormentato dalla propria coscienza che lo rimordeva fin nelle viscere, Alfonso d'Aragona abdicò in favore di suo figlio Ferrandino, che prese ufficialmente il nome di Ferdinando II di Napoli.

Quella mossa, fatta troppo tardi e in modo troppo affrettato, ad Alfonso sembrava l'unica fattibile.

Voleva accentrare il potere, unendo quello politico a quello militare e per farlo non vedeva altra soluzione se non dare tutto a suo figlio. Il popolo ancora adorava Ferrandino, benché il giovane fosse da poco rientrato nei confini del regno mortificato e scornato dai francesi.

I nobili restavano il punto dolente per gli Aragona. Erano sempre più numerosi quelli che criticavano Alfonso e un nuovo re, nella persona di Ferrandino, forse li avrebbe convinti a ritrovare l'antica fiducia nella corona.

“Dove andrete?” chiese Ferrandino, quando il padre si apprestò a lasciare Napoli, dopo la cerimonia di incoronazione.

Alfonso si sentì inadeguato e meschino a lasciare un venticinquenne ardito, certo, ma ancora molto inesperto, come suo figlio in quella situazione confusa. Ma non poteva fare altrimenti.

“Il mio corpo mi ha tradito – gli disse, trattenendo a stento le lacrime – a quarantasei anni non sono altro che un vecchio curvo e malfermo...”

Ferrandino ascoltava le parole del padre con un sinistro presentimento. Era come vedere nella fine di un uomo la fine di un'intera stirpe.

“Mi ritirerò in un monastero, in Sicilia. Devo lasciare questa terra e la corte o morirò.” Alfonso stesso, mentre parlava, si rese conto che le sue non erano le parole adatte né a un re né a un padre.

Stava mettendo davanti a tutto sé stesso e la propria sopravvivenza, non curandosi né del proprio popolo, né dei propri figli. Non stava abbandonando solo Ferrandino, che pur stava reagendo con coraggio a quella prova così grande, ma anche Isabella, che tanto aveva creduto in lui.

“Promettimi che combatterai fino all'ultimo fiato.” disse Alfonso, appoggiando una mano nodosa sulla spalla muscolosa e squadrata del figlio: “Promettilo.”

Ferrandino strinse il morso e proprio in quel momento, quando avrebbe voluto essere un uomo forte e deciso, il ragazzo che ancora era in lui riaffiorò con prepotenza, riempiendogli i grandi occhi di lacrime.

Alfonso attese qualche istante, per dargli il tempo di riprendersi, ma alla fine rinunciò, troppo stanco per starsene in piedi ancora a lungo.

“Mi stanno aspettando.” disse solo e, zoppicando verso la porta, salutò il figlio senza più guardarlo: “Che Dio ti assista.”

 

“Dov'è mia figlia?” chiese Caterina, entrando nella stanza dei giochi dei bambini.

Bianca, sua sorella, aveva in braccio Sforzino, a cui stava raccontando una storia, mentre Livio e Galeazzo giocavano con di cavalieri intagliati nel legno.

La Contessa aveva visto Ottaviano uscire dalla rocca qualche tempo prima, ma non gli aveva chiesto dove fosse diretto.

Invece Cesare era in quel momento nel cortile assieme a Tommaso Feo, che gli stava dando una lezione privata di spada. Anche se il ragazzino, vestito in modo modesto e con la tonsura ben in vista, era palesemente negato per tutto ciò che riguardava la guerra, da quando aveva saputo che suo cugino Giuliano Della Rovere era non solo un importante porporato, ma anche un fervente soldato, aveva chiesto di poter ricominciare gli addestramenti. Caterina ne era stata felice e aveva invogliato il figlio a perseguire quella nuova ispirazione. Al Governatore di Forlì era allora parso gentile onorare una vecchia promessa fatta alla sua signora e così si era messo d'impegno per recuperare quel vecchio allievo ormai fuori allenamento.

“Non lo so...” disse Bianca, rivolgendosi poi ai due nipoti: “Sapete dov'è vostra sorella?”

Galeazzo fece subito di no con la testa e altrettanto fece Sforzino, mentre Livio, in un eccesso di fiduciosa ingenuità, rispose: “È coi soldati.”

Caterina si accigliò, ma ringraziò il figlio e fece per andarsene. Bianca si alzò, sistemando Sforzino sulla sedia che lei aveva appena lasciato e seguì la sorella in corridoio.

“Io e Tommaso stiamo ancora aspettando.” le disse, prendendola per la mano in modo che si fermasse.

La Contessa evitò lo sguardo severo di sua sorella e si scusò: “Dopo il matrimonio di mia figlia sarete liberi di andare a Imola.”

La più giovane parve soddisfatta da quella promessa, tuttavia aggiunse, con quella punta di veleno che ormai inquinava quasi ogni sua parola: “Sperando che dopo il matrimonio non ti inventi un'altra scusa.”

Caterina finse di non aver sentito e affrettò il passo. Voleva trovare Bianca per spiegarle quello che era stato deciso per lei. C'erano volute tre sedute di Consiglio, ma alla fine il messaggio ufficiale era stato recapitato a Faenza e di certo ci sarebbe stata a breve una risposta da parte del tutore legale di Astorre Manfredi. Bianca doveva essere pronta.

Seguendo la soffiata ricevuta da Livio, la Contessa vagò per quasi tutta la rocca, ovunque si trovassero dei soldati, per cercare la figlia. Quando la trovò, restò molto stupita nel vederla intenta a giocare ai dadi nei baraccamenti delle guardie assieme a una mezza dozzina di uomini.

I presenti non accorsero della presenza della Tigre per qualche minuto e così Caterina osservò attentamente la figlia e si rivide in lei, ricordando quando, più o meno alla sua età, si intratteneva allo stesso modo con i soldati.

Bianca non parlava a sproposito, non civettava, giocava in modo corretto e assecondava gli scherzi degli uomini senza mai oltrepassare il limite della decenza. Anche se un paio di volte le uscì dalle labbra una mezza bestemmia, la Contessa vi riconobbe lo schietto sapore per la risata grassa che serpeggiava dall'alba dei tempi tra gli uomini d'arme.

“Mia signora.” disse a un certo punto uno dei soldati, vedendola con la coda dell'occhio.

Di colpo tutti quanti – perfino quello che stava per lanciare – smisero di agitarsi e di giocare e fecero sparire in tasche e bisacce soldi e dadi.

Bianca, arrossendo violentemente, scattò in piedi, le mani dietro la schiena e gli occhi al pavimento, come un ladro colto sul fatto.

Senza esternare nessuna emozione particolare, Caterina disse: “Dovrei parlare un attimo con mia figlia. Potete privarvi della sua compagnia per qualche tempo?”

I soldati, imbarazzati e in parte sollevati dal tono pacato usato dalla loro signora, permisero senza indugio alla loro giovane compagna di dadi di lasciare i baraccamenti e così Bianca dovette seguire la madre fino allo studiolo del castellano.

“Lasciateci.” ordinò la Contessa e così Cesare Feo raccattò in fretta i libri contabili su cui era chinato e si richiuse la porta alle spalle.

“Stavi giocando ai dadi.” constatò Caterina, sedendosi alla scrivania e facendo segno alla figlia di sistemarsi di fronte a lei.

La ragazzina annuì, senza dire nulla. Sembrava molto tesa e la Contessa si domandò perché mai avesse tanta paura di lei. Era palese che fosse terrorizzata, eppure Caterina non aveva mai fatto nulla contro di lei. Non poteva ricordare una punizione o un caso in cui le avesse arrecato in qualche modo del dolore volontariamente. Non voleva che sua figlia avesse paura di lei.

“Chi ti ha insegnato?” chiese, senza riuscire ad abbandonare il tono inquisitorio che aveva assunto nel momento stesso in cui erano entrate nello studiolo del castellano.

Bianca azzardò una risposta appena sussurrata: “Ho imparato da voi. Vi ho vista spesso giocare coi soldati e loro mi hanno spiegato le regole che non capivo.”

Caterina si appoggiò le mani sul grembo, sorpresa da quella rivelazione e domandò: “È da molto che giochi coi soldati?”

“Da un po'.” fece con vaghezza la ragazzina, cominciando a stringersi una mano nell'altra, in segno di grande agitazione.

La Contessa decise di chiudere lì quella questione. Lei stessa amava certi passatempi, dunque non poteva rimproverare la figlia se le assomigliava almeno in quello.

Con un sospirò profondo, Caterina affrontò finalmente il discorso che l'aveva portata a cercare sua figlia: “Abbiamo mandato a Faenza la risposta ufficiale alla richiesta di matrimonio di Astorre Manfredi.”

Attese un momento per vedere la reazione dei Bianca, ma questa restò ferma, come in attesa di maggiori spiegazioni, così la Tigre riprese: “Aspettiamo una loro conferma, ma credo che a breve verranno celebrate le nozze.”

Il collo sottile della ragazzina venne scosso da un tremito, ma i suoi occhi limpidi non vacillarono nemmeno un secondo.

La Contessa spiegò: “Non voglio mandarti a Faenza. Non mi interessa se tanto Manfredi è troppo giovane, io non voglio rischiare.” a quelle parole Bianca parve un po' rincuorata, e quindi Caterina trovò più coraggio per proseguire: “Manderò tuo fratello per rappresentarti e si terranno nozze per procura. Dobbiamo farlo, figlia mia, altrimenti la nostra condizione politica si farà troppo incerta, puoi capirlo?”

La giovane annuì un paio di volte, anche se con scarsa convinzione.

“In questo modo, quando e se sarà necessario, potremo far annullare tutto quanto. Però – la Contessa si schiarì la voce, decisa comunque a continuare, soprattutto dopo le recenti scoperte circa i passatempi della figlia – voglio che ti sia chiaro che se un giorno volessimo sciogliere il matrimonio, ci servirebbe la prova inconfutabile del fatto che il matrimonio non è mai stato consumato.”

Le guance di Bianca si infiammarono, mentre le sue labbra persero colore, trasformando il suo volto aggraziato in una sorta di maschera dai colori invertiti.

“Nemmeno a me piace fare certi discorsi – mise in chiaro la Contessa – ma voglio che tu sappia quello che rischi e mi aspetto che tu agisca con coscienza.”

“La vita privata di ciascuno dovrebbe poter restare tale, però.” si ribellò debolmente la ragazzina.

Per la seconda volta nell'arco di un sol giorno Caterina restò colpita dalla figlia, vedendola sotto una nuova luce: “Hai ragione – concordò, ma aggiunse – ma noi non siamo gente comune. Non abbiamo una vita privata. E se proviamo ad averla, prima o poi la paghiamo cara.”

Quell'ultima frase sottintendeva molte cose e Bianca colse appieno l'allusione quasi involontaria che la madre aveva fatto a Giacomo Feo. La Contessa, per quanto apparisse padrona della situazione, stava passando un periodo difficile e in parte la colpa era della sua vita privata.

Bianca schiuse appena le labbra, quasi decisa, a quel punto, ad accennare qualcosa alla madre circa i piani di Ottaviano e Cesare, di cui lei in effetti non sapeva più nulla, ma che di certo non erano stati accantonati.

Quando però parlò, non riuscì a dire altro che: “Farò tesoro delle vostre parole, madre.”

Caterina lasciò la scrivania, accompagnò la figlia alla porta e, poggiandole una mano sulla spalla, la rassicurò: “Vedrai che andrà tutto per il meglio.”

 
   
 
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