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Autore: Adeia Di Elferas    06/01/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Re Carlo si guardava attorno molto compiaciuto. La corte di papa Borja era in fibrillazione per quella visita in pompa magna, soprattutto perché era il segno che Carlo VIII stava per lasciare finalmente la città.

Alessandro VI aveva deciso di lasciare Castel Sant'Angelo per quell'ultimo incontro e aveva spostato la sede delle cerimonie negli appartamenti personali che aveva personalmente fatto restaurare in Vaticano.

Il Cardinale Cesare Borja indossava già abiti da viaggio e tormentava nel pugno chiuso i guanti di pelle foderati di coniglio. I suoi occhi si muovevano agitati dal padre al re di Francia e la sua mente era tanto confusa che non riuscì a seguire nemmeno la metà dei discorsi che vennero fatti.

A un certo punto il papa fece portare alla presenza di re Carlo il suo prigioniero più famoso, se prigioniero lo si poteva chiamare, dato che da quando era a Roma era sempre stato trattato con tutti i riguardi, tanto da diventare amico fraterno dei figli di Rodrigo.

Il principe turco Djem, fratello del sultano Bayezid, si profuse in inchini e salamelecchi e il re di Francia parve apprezzare molto quell'affettazione. Il giovane sorrideva mellifluo, lasciando che le sete preziose del suo abito frusciassero a ogni suo movimento e di quando in quando lanciò uno sguardo d'intesa a Cesare, forse sperando di indurlo alla risata.

Il giovane Borja, invece, non colse l'ilarità di quel momento e lasciò che ogni tentativo di Djem di coinvolgerlo cadesse nel vuoto.

Ricordando le ultime parole che il padre gli aveva detto in privato, Cesare mantenne un'espressione seria, curialmente riservata, fino a quando non venne il momento di partire.

La città si rianimò di colpo nel veder passare tutti quei soldati che avevano invaso Roma solo pochi giorni addietro. Questa volta il panico e la paura erano soppiantati dall'allegria e dal sollievo. La vista dello straniero che se ne andava era molto conciliante per tutti e dalle finestre in molti si affacciavano per salutare con scaramanzia Carlo VIII, augurandogli intimamente di non tornare mai più.

Stando accanto al re e al prezioso turco, il Cardinale Borja sfilò per Roma, alla testa dell'esercito trionfante, chiedendosi come e quando avrebbe potuto mettere in atto il piano di suo padre.

 

La piazza di Forlì era gremita di gente. L'Auditore si era messo su un pianale rialzato e stava aspettando un gesto della Contessa per dare il via al suo annuncio ufficiale.

Era domenica e la Messa era finita da poco quindi tutta la popolazione aveva avuto modo di potersi radunare per sentire che novità ci fossero. Molto raramente la Tigre aveva usato quel metodo per rendere note le notizie, dunque in molti erano corrosi dalla curiosità.

Quando il rumoreggiare del pubblico si fece difficile da contenere, Caterina, da una delle finestre del palazzo, fece il cenno pattuito all'Auditore.

Questi si schiarì la voce più forte e poi, con il suo tono modulato e profondo, annunciò: “Cittadini di Forlì – il silenzio cadde improvvisamente su tutta la città – Sua Signoria la Contessa Caterina Riario dà oggi l'annuncio del prossimo matrimonio tra sua figlia, Bianca Riario e Astorre Manfredi, signore di Faenza.”

Caterina guardò con distacco le dimostrazioni di gioia e le esultanze della popolazione. Sapeva che per loro quell'annuncio significava poco o nulla. Al più si sarebbero aspettati benefici economici o di altro tipo. Era prassi far seguire a un matrimonio del genere festeggiamenti di tutto rispetto. Un taglio delle tasse, una distribuzione di grano o anche solo maggior elasticità nella riscossione dei tributi.

Peccato che i tempi fossero quelli che erano e che certe concessioni non sarebbero state possibili.

“Questa notte – proseguì l'Auditore, tendendo davanti a sé la pergamena sulla quale stava leggendo – si terrà una festa alla rocca a cui parteciperà la nobiltà cittadina. Tutti quanti sono invitati a festeggiare per l'intera settimana.”

Altre grida e appalusi seguirono quelle parole, ma con un po' meno foga. Più di un forlivese aveva capito che, a parte qualche giorno in cui sarebbe stato permesso mangiare in grandi tavolate per strada, non ci sarebbero stati altri vantaggi da quello sposalizio.

Quella sera, a Ravaldino, tutti i notabili della città indugiarono in festeggiamenti che si protrassero fino al mattino seguente.

Bianca, in tutta quella confusione, si comportò secondo l'etichetta, mostrandosi lieta, ma non troppo, sfuggendo con pudica gentilezza a quasi ogni richiesta di danzare. Accettò solo quei cavalieri che non avrebbero in alcun modo potuto accendere pettegolezzi su di lei: i suoi fratelli Ottaviano e Cesare, il Governatore Tommaso Feo e l'Oliva.

 

Ludovico il Moro non sapeva più dove stare. Sua moglie era in travaglio da ore e i volti delle levatrici – le migliori di Milano – che entravano e uscivano concitate dalla stanza della Duchessa non lasciavano intravedere nulla di buono.

Per calmarsi un po', il Duca di Milano aveva preteso la compagnia del suo cancelliere, di un paio di servi fidati e del Maestro Leonardo.

Quest'ultimo era stato chiamato con il pretesto di parlare di una delle sue opere che il Moro aveva trovato particolarmente interessante.

In realtà Ludovico, pur parlando a raffica, non sapeva nemmeno più quale fosse il soggetto raffigurato nel dipinto del domine magister. La sua testa era un turbinio di emozioni contrastanti e la sua lucidità lasciava molto a desiderare.

Perciò quando Leonardo disse: “La capigliatura è quella che avevate scelto proprio voi personalmente.” Ludovico lo guardò con tanto d'occhi.

Il domine magister, pur molto infastidito da quella perdita di tempo, cercò di essere comprensivo, visto lo stato in cui si trovava il suo mecenate e specificò: “Per il ritratto che ho quasi ultimato. I capelli li ho aggiustati in modo da accondiscendere alle vostre richieste.”

Ludovico aprì un attimo le labbra e poi, finalmente, si ricordò di tutto, del quadro, della donna che vi era ritratta e della lunga lavorazione di Leonardo affinché Lucrezia Crivelli apparisse ancor più bella di quanto non fosse.

“Giusto, giusto...” sussurrò il Moro, distratto, mentre una delle balie usciva di corsa dalla stanza della Duchessa portando con sé delle lenzuola o forse uno straccio rosso sangue.

Leonardo comprese che in quel momento era inutile discutere d'arte con il Duca, perciò assecondò il suo desiderio di parlare senza ribellarsi. La sua natura insofferente poteva essere mitigata, se si trattava di una breve parentesi.

“A proposito – fece Ludovico, senza un apparente filo logico – ho dato una scorta ai vostri schizzi, l'altro giorno.”

“Avete guardato i miei appunti?” chiese il domine magister, oltraggiato, mentre anche Calco dimostrava di essere stupito da una simile arditezza.

In fondo, però, Ludovico era l'uomo deciso a conquistare l'intera Italia. Che poteva essere, per uno come lui, sbirciare di nascosto le carte di un suo dipendente?

“Ho visto le prove per una Madonna...” continuò il Duca, allacciandosi le mani dietro la schiena mentre la balia appena uscita rientrava nella camera di Beatrice: “Ecco, trovo che la vostra Madonna assomigli in modo inquietante a mia nipote Caterina.”

Leonardo, sentendosi scoperto, appoggiò con disinvoltura una mano sul fianco e chiese: “Ma davvero?”

Il Moro annuì con forza: “Sì, che diamine. E vi proibisco di farne un dipinto. Passi uno schizzo, ma mia nipote Caterina non la voglio vedere nemmeno in ritratto in questo palazzo. Sarebbe capace di mettermi i bastoni tra le ruote anche se fosse fatta solo di tempere e olii!”

Leonardo trovò quella sfuriata del tutto assurda, ma ancora una volta obbligò il lato più impaziente del suo animo a tacere.

Ludovico stava per aggiungere ancora qualcosa, quando due balie aprirono la porta della stanza della Duchessa e una delle due annunciò: “È nato un maschio, robusto e in salute, mio signore.”

Il Moro quasi si sentì male dalla felicità, ma subito si rabbuiò di nuovo: “Mia moglie...?”

La donna fece un sorriso stentato: “Sta bene, anche se è molto provata. È stato un parto difficile.”

“Posso vederla? Posso vederli entrambi?” domandò il Duca, già sulla porta.

“Non agitatela, però.” concesse la balia, mentre l'uomo già forzava il suo debole blocco e raggiungeva la moglie, stesa in un lago di sudore, i capelli incollati alla fronte e il viso sofferente.

“Ludovico...” sussurrò Beatrice, alzando con fatica una mano per poggiarla sulla grande guancia del marito: “Lo chiameremo Francesco.”

Il Duca annuì subito e, mentre le balie preparavano il piccolo affinché potesse essere presentato al padre, sorrise: “Lui e Massimiliano faranno di nuovo grande Milano come fece mio padre a suo tempo.”

Noi stiamo facendo grande Milano.” lo corresse Beatrice che aveva scelto il nome Francesco non in riguardo al defunto suocero, ma solo per mettere in chiaro che l'unico misero figlio maschio di sua cugina Isabella veniva quel giorno completamente eclissato nella Storia di Milano e nella memoria dei milanesi.

Ci sarebbe stato un solo nuovo Francesco Sforza: il bambino nato da lei e Ludovico.

 

L'8 febbraio, la domenica seguente a quella dell'annuncio ufficiale del fidanzamento di Bianca, arrivarono a Forlì i cavalieri di Astorre, per portare i doni di rito alla futura sposa.

Caterina li accolse affiancata dal figlio Ottaviano, mentre Giacomo restava impegnato con i lavori al nuovo fossato. Anche se quello era un giorno di festa, la Contessa aveva invitato il marito a non lasciare il suo posto e così lui aveva fatto, ben felice di potersi sottrarre a quella girandola di incontri ai quali si sarebbe di certo sentito di troppo.

Alcuni dei cavalieri mandati da Castagnino, tutore di Astorre, si avvicinarono alla Contessa con un'indefinibile filo di paura. La fama di quella donna la precedeva e certi ancora non erano persuasi della sua buonafede.

Quello che era successo al suo vecchio Governatore, il Bergamino, riecheggiava ancora a Faenza e non sembrava assurdo pensare che la Tigre nutrisse ancora un mai sopito desiderio di vendetta nei confronti dell'intera popolazione faentina, ritenendo tutti quanti complici di un unico assassino che aveva agito per stupidità e avventatezza.

Caterina, in effetti, faticò parecchio ad accogliere con il sorriso sulle labbra tutti quei messi e a ringraziarli pure per i munifici doni che portavano con loro. Fu solo per interesse che riuscì a non farsi sopraffare dai motivi dell'anima.

La processione di regali durò quasi fino a sera e, come forse unica nota di freddezza nei confronti dei faentini, la Contessa non si prese il disturbo di invitarli a cena.

Così i cavalieri, capendo l'antifona, lasciarono Forlì con il buio, sfidando il vento freddo e qualche fiocco di neve, tutti concordi nel non volersi fermare nelle terre della Tigre nemmeno un minuto più dello stretto necessario.

Dal canto suo, Caterina non vedeva l'ora di farli partire. Aveva parecchie cose ancora da sistemare e certe erano anche molto urgenti. Innanzitutto doveva far fronte alla penuria di grano che stava affliggendo le sue terre.

Se prima dell'arrivo dei francesi era riuscita ad arginare il disastro, ora che si prospettavano lunghi mesi di relativa pace, ma di forte incertezza politica e sociale, era necessario dare alla popolazione almeno l'illusione che tutto fosse a posto e far mancare il pane in tavola di certo non sarebbe stato un buon metodo.

Quella sera, tormentata dai dubbi, la Tigre stava per mettere nero su bianco una richiesta di acquisto di una buona quantità di grano, ma non era del tutto sicura di quello che stava facendo.

Così, pur con poca convinzione, chiese consiglio al marito: “Se chiedessi alla Signoria – gli disse, mentre l'uomo si levava la camicia da lavoro e si buttava sul letto – di certo i suoi membri perderebbero tempo e noi non l'abbiamo.”

Giacomo sbuffò, come a dire che a lui quelle cose non importavano, ma provò a fingersi interessato, commentando: “Se il grano è della città di Firenze, è alla città che devi chiedere.”

“Ma i Medici hanno il monopolio di quasi tutti i traffici commerciali e quindi salterei lunghe trattative tra i membri della Signoria, se scrivessi a loro direttamente.” si ostinò Caterina.

“Se hai già deciso che fare, perché chiedi a me?” fece Giacomo, mettendosi a sedere.

I suoi capelli scompigliati lo facevano sembrare non solo assonnato, ma anche trascurato, cosa che non era affatto. Col passare dei giorni al cantiere, infatti, il Barone aveva cominciato a lasciar perdere i vestiti troppo ordinari, ritrovando il gusto per quelli di classe e ciò gli aveva dato la scusa, per quanto di scarso valore, per sottrarsi ai lati più pesanti del suo lavoro.

Oltre a quello, Giacomo aveva ricominciato a dimostrarsi scostante e inadatto alle cariche che ricopriva. Il suo nuovo titolo, poi, gli aveva messo addosso una boria che fino a quel momento era rimasta più nascosta.

Si era insuperbito velocemente, dopo aver saputo della trionfale avventura di Carlo VIII a Roma, e nella vita pubblica non risparmiava più nessuno, trattando tutti quanti come fossero suoi sottoposti.

Tutta la dolcezza che sapeva ancora dimostrare alla moglie come amante, nel privato del loro Paradiso, era sempre più difficile da intravedere tra le parole sprezzanti e i gesti stizziti che riservava perfino a lei nel pubblico della loro vita politica.

Caterina cercava di sopportare quel suo modo di comportarsi, anche se a volte, quando restavano soli dopo una riunione o un Consiglio, lo rimetteva in riga, ottenendo da lui qualche richiesta di perdono, ma nessun effettivo risultato. Per come la vedeva lei, quella di Giacomo era solo una reazione di paura, dovuta al grande potere che aveva tra le mani e che non sapeva gestire, tuttavia a parte questa valutazione, la Tigre non sapeva che altro fare.

“È vero, ho già deciso – ribatté la Contessa, intingendo la punta della penna nell'inchiostro – ma tu sei mio marito e volevo anche un tuo parere.”

“Te l'ho detto, il mio parere.” fece Giacomo, ravviandosi i capelli e guardando il fuoco che scoppiettava nel camino: “E tu hai subito detto che sbagliavo, quindi non vedo perché dovrei insistere.”

A quelle parole, Caterina perse la pazienza e, per non mettersi a discutere con Giacomo anche di sera, cominciò a scrivere la missiva, indirizzandola ai fratelli Lorenzo e Giovanni Medici.

Mentre la moglie vergava con precisione una richiesta di acquisto che non tradisse la disperazione della sua situazione reale, Giacomo finì di spogliarsi e indossò il camicione da notte, per poi mettersi sulla poltrona davanti al caminetto.

“Vuoi sapere una cosa?” chiese l'uomo, con un filo di voce, immerso nei suoi pensieri.

La Tigre finì la frase e, tenendo la penna a mezz'aria si voltò appena verso di lui e disse: “Cosa?”

Ci fu un lunghissimo momento di silenzio durante il quale Giacomo sembrò indeciso se continuare il discorso appena iniziato oppure no.

Dopo un po' il Barone si mosse sulla poltrona, come a disagio, e rivelò: “Quando sei tornata da Mordano e abbiamo litigato – la Contessa appoggiò la penna alla scrivania, mentre i ricordi di quello scontro terribile le tornavano alla mente – mi ero convinto che saresti andata da uno dei preti giubilari per sciogliere il nostro matrimonio.”

Caterina non disse nulla. Guardò un attimo la lettera che stava preparando e si rese conto che era completa. Firmò in calce e piegò il foglio. L'avrebbe chiusa il mattino dopo, a mente fresca, così prima avrebbe potuto rileggerla e trovare eventuali errori o imprecisioni.

Giacomo prese quella reazione silenziosa della moglie come un brutto presagio. Era come ammettere che in effetti lei ci aveva pensato, ma che poi, chissà perché, era tornata sui suoi passi e si era fermata in tempo.

Accantonato il messaggio per i Popolani, Caterina lasciò la scrivania e andò a sedersi sulle ginocchia del marito: “Nessun prete potrebbe mai sciogliere il nostro matrimonio.”

Il Barone parve confuso da quella dichiarazione, così la Tigre spiegò: “Io, la notte in cui ti ho sposato, il giuramento l'ho fatto a te e a me stessa. Non a un prete e nemmeno a Dio. Quindi nessun uomo di Chiesa potrebbe scioglierlo.”

Indeciso se arrabbiarsi o meno per l'ennesima dimostrazione di miscredenza da parte della moglie, Giacomo sentì con piacere, come un'acqua ristoratrice, la fresca superficie delle dita di Caterina sulla pelle arroventata della sua fronte.

La donna gli accarezzò la testa e poi si chinò su di lui per dargli un profondo bacio e tanto bastò a Giacomo per dimenticare di nuovo ogni rancore.

Trascinato dal desiderio, il Barone afferrò la Tigre per i fianchi e la tenne stretta a sé, alzandosi dalla poltrona e andando verso il letto. Caterina lasciò che fosse lui a dirigere i giochi, quella notte.

Voleva che fosse chiaro che, malgrado tutte le incomprensioni e i motivi d'attrito, lei ancora lo voleva tanto quanto lui voleva lei.

Quando si strinsero l'uno all'altra per trovare finalmente riposo nel sonno, Caterina si trovò a cedere su una questione che da giorni la tormentava.

Giacomo aveva annunciato che Bernardino – anzi, Carlo, come ormai aveva imposto a tutti di chiamarlo – in autunno sarebbe tornato a vivere alla rocca per attendere alla sua istruzione come futuro cavaliere. Caterina si era mostrata furiosa, quando ne era stata informata e aveva accusato il marito di aver preso una decisione troppo importante tutto da solo. Così la cosa era rimasta a metà, senza che nessuno dei due sapesse cosa avrebbe fatto o permesso l'altro.

“Il prossimo autunno Bernardino potrà tornare alla rocca – sussurrò la Tigre, passando con lentezza una mano sul petto ampio del Barone – se proprio lo desideri.”

Giacomo le prese la mano con cui lo stava accarezzando e se la portò alle labbra per baciarla.

Solleticandole il palmo, bisbigliò: “Sapevo che dopo tutto eri d'accordo anche tu.”

La Contessa sospirò, avvertendo per la prima volta la profonda consapevolezza della propria debolezza di fronte alle richieste del marito. Aveva provato in mille modi a trovare scusanti, ma la realtà era che Giacomo sapeva farle fare tutto ciò che voleva.

 

 
   
 
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