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Autore: Adeia Di Elferas    08/01/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Quanto ne abbiamo oggi?” chiese Lorenzo Medici, mordicchiandosi il pollice.

Giovanni, che stava alla finestra alle sue spalle, si accigliò e rispose: “Quattordici.”

Il maggiore ringraziò a mezza bocca e si segnò sul proprio blocco di appunti la data: 14 febbraio 1495.

Con un sospiro di soddisfazione siglò la bolla di vendita e diede una velocissima rilettura per essere certo che tutto fosse corretto. Mai avrebbe pensato di poter chiudere così rapidamente un affare con la Tigre di Forlì. Certo, suo fratello era stato determinante, perché era stato capace di consigliarlo bene, ma comunque anche lui aveva i suoi meriti.

Se Giovanni aveva saputo trovare le parole giuste per farsi amica la donna, convincendola della loro affidabilità, era stato Lorenzo ad avere l'occhio abbastanza lungo da capire che era meglio accordare alla Contessa Riario uno sconto in vista di un patto commerciale di lunga durata.

“Per richiedere tutto questo grano – commentò a denti stretti il Popolano più vecchio – vuol dire che il passaggio dei napoletani e dei francesi le hanno svuotato le dispense.”

“In Romagna ci sono stati anche mesi difficili, parlando del clima, intendo.” fece notare Giovanni, ancora intento a guardare fuori dalla finestra del palazzo dei Medici.

Entrambi, senza dirselo, si trovarono a pensare a come il loro vecchio tutore nonché cugino Lorenzo il Magnifico avrebbe sfruttato quella condizione a suo vantaggio senza minimamente badare alla moralità. Avrebbe cercato un modo per approfittarsi della Contessa Riario, strappandole un prezzo assurdo e facendole terra bruciata attorno, in modo tale da costringerla a scegliere proprio Firenze come unica fornitrice.

“A tutti capitano momenti difficili.” soffiò Lorenzo il Popolano, dando voce ai suoi pensieri, come a sottolineare il fatto che lui e il cugino, pur avendo lo stesso nome, erano fatti di una pasta molto differente.

Da quando Piero il Fatuo era a Venezia, i due Popolani avevano preso possesso delle sue case e dei suoi terreni. Giovanni non l'aveva trovato giusto, in un primo momento, ma poi Lorenzo gli aveva fatto capire che era l'unica cosa da fare, se volevano riprendersi ciò che era stato loro tolto molti anni addietro.

“Questo palazzo – gli aveva spiegato, indicando con un ampio gesto della mano gli affreschi del soffitto – è nostro quanto lo è di Piero. Lui se l'è goduto fino a ieri, da oggi tocca a noi.”

Lorenzo chiuse l'atto di vendita con precisione e poi chiamò un servo affinché il documento venisse subito recapitato a Forlì.

“E poi chiamatemi il responsabile dei granai. Voglio che il carico parta il prima possibile.” decretò l'uomo, con un sorriso deciso.

Giovanni era felice di vedere come suo fratello stesse dimostrando tutta la sua attitudine per gli affari. Coi numeri e le transazioni se la cavava molto meglio che non con la spada e a Firenze serviva un abile commerciante e banchiere.

“Tutto a posto?” chiese Lorenzo, vedendo Giovanni che si massaggiava distrattamente un ginocchio.

Il più giovane si accorse solo in quel momento del suo gesto quasi automatico. Ritirò la mano e alzò le spalle. Non voleva parlare al fratello dei dolori che di quando in quando lo colpivano. I suoi timori erano sempre più precisi e andavano tutti verso la malattia che da sempre aveva colpito la loro famiglia, tuttavia aveva notato che con il movimento e una dieta leggera, la sua condizione migliorava. Dunque non era il caso di allarmare Lorenzo per così poco.

“Sono solo un po' ammaccato.” si schermì Giovanni: “Mi sono alzato presto per andare a cavalcare in campagna e devo aver preso freddo.”

Lorenzo lo guardò un attimo coi suoi occhi tondi e poi, gonfiando le guance piene, concluse: “Non so che voglia tu possa avere di andartene in giro per i campi con questo freddo...”

L'altro fece un sorriso limpido, come quelli che lo illuminavano da piccolo e così il fratello maggiore non se la sentì di sgridarlo ancora.

 

Sua madre glielo aveva ripetuto mille volte. Gli aveva detto di stare attento, di non fare nulla a sproposito e di difendere sempre e comunque gli interessi di sua sorella.

Ottaviano ripassava nella testa quelle parole e sentiva crescere dentro di sé l'inquietudine. Le mura di Faenza erano a pochi metri di distanza, ormai, e il Conte non poteva più sottrarsi. Non aveva mai potuto sottrarsi. Sua madre gli aveva imposto di partire per rappresentare Bianca e tanto doveva fare.

Vestito coi colori dei Riario, con una rosa dorata magnificamente ricamata sul mantello di lana pesante, Ottaviano passò dalla porta della città affiancato dall'Auditore e da Luffo Numai.

La Contessa aveva scelto il fidato Consigliere come accompagnatore per il figlio soprattutto per poi poter avere un resoconto veritiero e dettagliato di quelle giornate.

Dietro di loro c'erano le guardie scelte che facevano loro da scorta e qualche esponente della nobiltà forlivese.

Niccolò Castagnino attendeva nella pubblica piazza gli ospiti, mentre di Astorre Manfredi non c'era traccia. Ottaviano avrebbe preferito confrontarsi con un ragazzino di dieci anni quale era il signore di Faenza, piuttosto che con un uomo fatto come il suo tutore.

Castagnino, comunque, fu molto accomodante e accogliente. Invitò la popolazione assiepata a festeggiare il Conte Riario, chiamandolo 'futuro cognato di Sua Signoria' e infine condusse il drappello di forlivesi fin dentro il palazzo dei Manfredi.

Quel 15 febbraio tutta Faenza era in festa. Si favoleggiava dei grandi vantaggi che la città avrebbe avuto con quelle nozze e in molti erano rimasti colpiti dalla singolare bellezza del fratello della sposa.

“Se lei gli assomiglia – diceva qualcuno – allora il nostro signore avrà figli di un'avvenenza leggendaria!”

Ottaviano dovette aspettare la sera, per vedere Astorre. Lui e Luffo Numai, che stava a un passo di distanza in segno di rispetto, furono condotti alla presenza del signore della città appena prima di cena.

Il bambino, perché tale appariva sotto ogni aspetto, aveva lo sguardo pacifico e il suo volto era estremamente aggraziato e gentile. Malgrado le brutture viste, i suoi occhi erano sereni e, quando parlò, la sua voce era misurata e piena di sincera benevolenza.

“Sono molto lieto di avervi alla mia corte.” disse, invitando il futuro cognato e il suo accompagnatore a sistemarsi sul divanetto imbottito.

Ottaviano preferì non sedersi, mentre Numai dovette cedere al peso degli anni e si sistemò senza fare tanti complimenti.

“Sono ansioso di poter conoscere la mia futura moglie.” proseguì Astorre, dando però l'impressione di essere intento a recitare qualcosa di imparato a memoria.

Ottaviano, che non riusciva in alcun modo a rilassarsi, si schiarì la voce con un colpo di tosse e provò a dire: “Per quello ci sarà tempo più avanti.”

Paradossalmente, Astorre parve molto sollevato da quel commento. Improvvisamente il Conte capì che il signore di Faenza, malgrado i modi misurati e le parole gentili, era terrorizzato.

Riconoscere in qualcuno la paura repressa e messa a tacere, fece sentire Ottaviano meno solo.

Anche lui, da sempre, lottava con l'horror vacui che la sua posizione lo costringeva a fronteggiare.

Colpito da quell'improvviso senso di familiarità, Ottaviano riuscì finalmente a decontrarre i muscoli della mascella e si mise a sedere accanto a Numai. Forse quel soggiorno sarebbe stato meno sgradevole del previsto.

 

Il messo veneziano si sporgeva di continuo sopra la spalla di Francesco Gonzaga, come se volesse essere certo che non vi fosse la minima irregolarità.

Il Marchese di Mantova era oltremodo infastidito da quell'invadenza, ma la lunga esperienza con gli uomini del Doge gli aveva insegnato a sopportare in silenzio.

Una condotta di cinque anni non era uno scherzo nemmeno per il committente, questo doveva ammetterlo. Se per un condottiero si trattava di un impegno serio, era così anche per chi sborsava i quattrini.

Quarantaquattromila ducati in tempo di pace e sessantaseimila in tempo di guerra non erano pochi, anche se si trattava della cifra lorda. In più il Doge aveva accettato di far rientrare nella trattativa anche Rodolfo, lo zio di Francesco e ciò stava a significare che Venezia aveva deciso di fidarsi non solo del Marchese, ma della famiglia Gonzaga in generale.

“A posto?” chiese Francesco, mostrando la pergamena firmata dalla quale pendevano i pesanti sigilli del Doge.

Il messo veneziano controllò una decina di volte, con il naso aquilino che fendeva l'aria come il becco di un uccelletto nervoso. Alla fine fece un cenno con il capo e si fece consegnare il documento con solerzia.

“Il Doge si aspetta grandi cose.” concluse l'uomo, mentre metteva il documento al sicuro dentro il giubbone di lana cruda.

“Anche io.” fece eco il Marchese di Mantova, già pensando a cosa scrivere a sua moglie Isabella.

Avevano un codice segreto con cui comunicare via lettera. Era semplice, ma efficace. Isabella gli aveva spiegato che era suo padre Ercole ad aver ideato quel metodo e che anche suo fratello Alfonso ne faceva grande uso.

Si trattava di un codice fatto di frase comuni, riguardanti la famiglia, la casa, il clima, ma tanto lui quanto la moglie avevano una chiave di lettura. A ogni formula apparentemente banale corrispondeva un significato del tutto diverso.

Gonzaga attese di essere di nuovo solo, prima di prendere dalla bisaccia che teneva sempre a tracolla il foglio su cui Isabella in persona gli aveva annotato la legenda che usavano nelle lettere a rischio intercettazione. Cercò quello che faceva a caso suo e si lambiccò per trovare un modo per comunicarle anche le cifre della sua condotta.

Dopo almeno mezz'ora, il messaggio era pronto. In chiusura, senza più badare al linguaggio in codice, Francesco aggiunse: 'Muoio dal desiderio di riaverti tra le mie braccia', e firmò in modo informale.

 

“Noi abbiamo un salvacondotto francese!” gridò Niccolò Orsini, cercando di divincolarsi dalla stretta delle guardie dei Colonna.

“Ci siamo arresi!” tentò Virginio, appena più accomodante, cominciando a rimpiangere la mossa strategica che si era rivelata fallimentare tanto quanto una sconfitta in campo aperto.

Avevano quattrocento soldati ai loro ordini, avrebbero ben potuto avere ragione dei duecento cavalleggeri di Luigi D'Ars, e invece lui aveva preferito dichiarare la resa, sperando di poter poi parlamentare con Fabrizio Colonna, spiegandogli coma stavano davvero le cose. Alla peggio, si era detto, avrebbe detto di essere sotto un salvacondotto francese.

E invece, dopo aver deposto le armi, lui e Niccolò erano stati presi con la forza, i loro uomini messi in qualche cella chissà dove, e il loro salvacondotto strappato a mani nude da Luigi D'Ars in persona.

Fabrizio Colonna guardava i due Orsini con una sorta di compassione che innervosiva molto i due prigionieri. Si passò una mano sulla barba ispida, con lentezza, come se stesse ragionando a fondo su come agire.

Virginio era certo che il Colonna sapesse benissimo quale fosse la vera posizione degli Orsini in quella guerra. Inoltre, non poteva certo rimproverare loro l'ambiguità in cui si muovevano, dato che lui stesso, come il cugino Prospero, altro non aveva fatto, dall'inizio della guerra, se non continuare a cambiare fronte.

Quando parlò, però, fu chiaro che Fabrizio aveva in mente solo una cosa: guadagnare il più possibile da quella fortuita casualità.

“Voi Orsini siete finiti. È ora che pieghiate le ginocchia davanti a noi Colonna.” disse, con voce bassa e minacciosa, senza che il suo viso si scomponesse più di tanto: “Alba e Tagliacozzo saranno mie e voi marcirete in galera e presto verrete raggiunti da tutti gli Orsini che hanno infettato questa terra.”

Virginio non reagì, convinto di poter, in un secondo momento, trattare se non con Fabrizio, almeno con Prospero. Niccolò, invece, perse la testa e sputò in terra, a pochi centimetri dai piedi del Colonna e cominciò a sciorinare minacce e bestemmie, invocando tutti i diavoli dell'inferno e scagliando sugli antichi rivali della sua famiglia tutte le maledizioni che conosceva.

“Portateli alle carceri di Castellamare di Stabbia.” ordinò Prospero alle guardie: “In un secondo momento li porteremo nella rocca di Mondragone.”

Prima di lasciarli andare, Colonna prese per la gorgiera di ferro Virginio Orsini e lo guardò a lungo negli occhi.

Con un ghigno beffardo gli sussurrò: “Com'è dolce la vendetta.”

I baffi sottili di Virginio vibrarono come quelli di un gatto, mentre l'uomo, un po' piegato su stesso per via della morsa in cui le sue braccia erano costrette dalle guardie, mostrava i denti e sibilava: “Ma quanto lo sarà per me.”

 

Giuliano Della Rovere si sentiva accaldato, malgrado le temperature glaciali. Da tutto il giorno non faceva altro che placare francesi su tutte le furie e non si sentiva fatto per un simile compito.

“Il sacco di Roma sarebbe un errore imperdonabile!” aveva ribadito, tanto in italiano tanto in francese, al re e a tutti i suoi generali e comandanti: “Cesare Borja è solo un codardo, non vale la pena prendersela tanto!”

Ma c'era voluto parecchio per convincere Carlo VIII a lasciar perdere e andare avanti comunque.

La fuga del Cardinale Borja aveva lasciato tutti di stucco, soprattutto per la capacità di dissimulazione che il giovanissimo porporato aveva saputo dimostrare.

Una volta a Velletri, infatti, calata la notte, Cesare aveva lasciato la città, sfruttando con ogni probabilità qualche passaggio segreto. Al mattino ci si era subito accorti della sua assenza e in un primo momento qualcuno si era anche preoccupato per la sua incolumità. La sera prima aveva riso e scherzato con tutti e a nessuno era passato per la mente che stesse per fuggire.

Messaggeri con le ali ai piedi partirono subito per Roma, ma tornarono solo con una lettera molto secca del papa, dove veniva detto solo: 'Il Cardinale ha fatto male, molto male', e così venne avvalorata l'ipotesi della fuga volontaria.

Per rifarsi dell'onta subita, Carlo VIII aveva subito ordinato ai suoi di saccheggiare il voluminoso bagaglio del Cardinale, ma sotto le coperture dei cavalli vennero trovati solo stracci.

Oltraggiato oltre ogni dire, il giovane re aveva cominciato a parlare di sacco di Roma come vendetta per tanta arroganza e maleducazione, ed era lì che Giuliano Della Rovere era intervenuto.

Per quanto lo riguardava, ne sarebbe stato contento. Non chiedeva di meglio che vedere i Borja bruciare o finire su una forca, ma voleva anche che i francesi vincessero la guerra e conquistassero Napoli e fermarsi a saccheggiare Roma sarebbe stata solo una perdita di tempo e forze.

“Raderemo al suolo Monte San Giovanni.” annunciò il Duca D'Aubigny, quella sera: “E poi marceremo su Capua e fino a Napoli. Re Carlo sfogherà così la sua ira.”

Giuliano ne fu molto soddisfatto, ma affettò ancora molto dolore per il mezzo tradimento di Cesare Borja, scusandolo una volta di più con le stesse parole trite e ritrite: “Il Cardinal Borja è solo un ragazzino impaurito, un povero vigliacco...”

 

Ottaviano era coricato mollemente su uno dei divani del salotto e guardava con interesse Astorre che dava ordine ai suoi domestici affinché portassero loro qualcosa da mangiare.

La cena, in realtà, si sarebbe tenuta a breve e in grande stile, ma il signore di Faenza aveva espresso il desiderio di parlare da solo per qualche minuto con il futuro cognato. Fino a quel momento, infatti, i due non erano stati lasciati soli nemmeno un attimo. Anche se Ottaviano aveva potuto godere di feste e generose offerte – ovvero abiti pregiati, oggetti di pregio in memoria di quell'evento, compagnia di giovani e disponibili cortigiane e cibi prelibati – del padrone di casa, non era ancora riuscito a parlare con lui a quattr'occhi di nulla.

Dunque quella sera rappresentava un'ottima occasione per conoscere meglio il giovane Manfredi.

Niccolò Castagnino aveva permesso l'incontro, pur storcendo il naso e tanto aveva dovuto fare anche Luffo Numai, anche se, prima di lasciar solo Ottaviano, gli aveva ripetuto una volta di più le stesse raccomandazioni fatte anche dalla Contessa: “Curate sempre e solo gli interessi di vostra sorella!”

“Vi piace il vino?” chiese Astorre, con la sua voce ancora infantile, prima di permettere all'ultimo servo di lasciare la sala.

Ottaviano fece un cenno con il capo. In realtà non amava molto il vino, anche se da anni lo beveva come un adulto, durante le feste e le cerimonie. Lo trovava aspro e non gli piaceva nemmeno la sensazione che gli dava alla testa. Se sua madre era capace di berne da sola una caraffa nel giro di una sera, lui di solito si fermava a un bicchiere scarso.

Quando finalmente il tavolino basso davanti a loro venne riempito con cibi vari e calici di vino speziato, Astorre congedò il servidorame e si concentrò sul Conte Riario: “Sono felice di avervi alla mia corte.” disse.

Ottaviano trovò quella disponibilità quasi irritante. Da quando era arrivato a Faenza Manfredi gli aveva ripetuto quella frase di rito almeno cento volte.

“Volevate parlarmi di qualcosa?” chiese il Conte, sentendosi un po' stupido a dare del voi a un bambino di dieci anni.

Astorre parve non notare il disagio di Ottaviano, anzi, il sorriso che gli increspò le labbra fece intendere quanto fosse sinceramente lieto di averlo alla sua presenza.

Bevendo un sorso molto generoso di vino caldo, Manfredi prese fiato e poi chiese: “Le nostre madri si conoscono, lo sapete?”

Ottaviano annuì appena, chiedendosi dove il bambino volesse andare a parare.

“Lei si è risposata, adesso.” proseguì Astorre: “Mio padre quasi non lo ricordo, ma ricordo di quando lei mi ha preso tra le sue braccia, sporca del suo sangue, dopo averlo ucciso.”

Il tono calmo con cui il signore di Faenza stava parlando fece venire i brividi al Conte Riario, che non sapeva come gestire quella conversazione. Così fece solo un silenzioso cenno con la testa, sperando che bastasse come interazione.

“È stata vostra madre a uccidere vostro padre?” chiese il bambino, guardando con occhi innocenti e luminosi il suo ospite.

“No.” rispose subito Ottaviano, poi, vedendo come la fronte di Manfredi si stava aggrottando, ricordò le parole di Numai e credette che per farselo amico tanto valeva parlare con franchezza: “Non l'ha ucciso lei, ma sono certo che sia stata lei a farlo impazzire.”

 
   
 
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