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Autore: Adeia Di Elferas    10/01/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il 20 febbraio Ischia era ancora preda degli ultimi scontri tra i soldati francesi e napoletani.

Ferrandino l'aveva scelta come nascondiglio credendo che nessuno si sarebbe preso il disturbo di seguirlo fino a lì.

I pochi irriducibili cercarono di opporsi fino all'ultimo respiro. Ferdinando d'Avalos in persona venne visto dagli ischitani mentre si intratteneva con tre cavalieri nemici, per poi soccombere, trafitto da due lame che lo passarono da parte a parte.

Richiamati infine dai propri comandanti, i soldati d'Oltralpe vennero fatti ritirare, lasciando a Ischia solo qualche napoletano che era riuscito a sopravvivere, e il re, Ferrandino, chiuso in una rocchetta e ben deciso a evitare in tutti i modi uno scontro aperto.

In capo a due giorni, i francesi entrarono trionfalmente a Napoli, senza trovare più nessuna resistenza. La città si era arresa soprattutto per via della defezione del suo giovane re. Per molti la sparizione di Ferrandino era da spiegarsi con la sua morte. Solo in pochi, infatti, credettero davvero di essere stati abbandonati dalla corona per la seconda volta nel giro di poche settimane.

Sentendosi un nuovo Annibale, e non riuscendo a ricordarne gli errori, Carlo VIII prese subito possesso dei palazzi più belli e fece stanziare la gran parte del suo esercito a Capua, altra città che si era lasciata prendere senza nemmeno un colpo di colubrina.

Gli ozi di Capua si stavano ripetendo per la seconda volta nella storia d'Italia e il re di Francia aveva il cuore colmo d'orgoglio nel poter dire di essere lui, il nuovo cartaginese.

 

La notizia della caduta di Napoli rimbalzò da una corte all'altra con una velocità impressionante e quando giunse anche a Faenza parve a tutti il caso di affrettare anche le questioni interne, come se la vittoria ormai palese e innegabile di Carlo VIII stesse dando nuova linfa a tutta la penisola.

La celebrazione delle nozze per procura, durante le quali il Conte Riario rappresentò la sorella Bianca, fu rapida e un po' scialba, sbrigata come una mera formalità da uno dei parroci di Faenza.

Luffo Numai aveva alzato la voce con Ottaviano, quando aveva saputo i termini precisi da lui sottoscritti, ma alla fine aveva dovuto rivedere il suo comportamento, in vista di quello che sarebbe accaduto una volta tornati a Forlì.

In fondo la Contessa aveva mandato lui perché si fidava, mentre Numai si era distratto e aveva lasciato che il giovane Ottaviano sottostesse a una clausola apparentemente innocua, ma dal fine quasi diabolico.

Astorre Manfredi, probabilmente imbeccato dal suo tutore, Niccolò Castagnino, aveva fatto aggiungere al contratto matrimoniale un addendum secondo cui in Giugno sarebbe stato ospite presso la corte dei Riario, in modo tale da poter finalmente incontrare di persona la sua sposa.

Quel dettaglio andava a vanificare pressoché tutti gli sforzi messi in atto dalla Contessa Riario, che aveva fatto del suo meglio per far sì che sua figlia e il signore di Faenza non passassero sotto lo stesso tetto nemmeno mezz'ora, in modo tale da tutelarla fino a quando necessario.

Ottaviano, ai rimproveri di Luffo Numai, aveva alzato le spalle con fare infastidito e aveva detto chiaro e tondo che il Conte era lui, la sorella era la sua e così lo Stato e che quindi un misero Consigliere non aveva alcuna autorità per sgridarlo.

Tuttavia, quando lasciarono Faenza e si incamminarono verso Forlì, Ottaviano cominciò ad avvertire una stretta allo stomaco tremenda. Avrebbe voluto poter tacere alla madre quello che aveva accettato di concedere, ma era ovvio che lei lo avrebbe saputo subito.

Infatti, quando ancora stavano sistemando i cavalli, Caterina, che non era andata all'ingresso della rocca ad attendere il figlio, fece convocare Ottaviano alla sua presenza.

Il Conte, passando di malagrazia le redini a uno degli stallieri, si tolse un po' di neve dalle spalle e si incamminò, con la medesima mestizia di un condannato, verso lo studiolo del castellano, dove la madre lo stava aspettando.

“Perché gli hai permesso una visita a Giugno?” chiese la Contessa, senza riuscire a guardare il figlio.

Ottaviano, in piedi davanti alla scrivania, mise le mani dietro la schiena e, lo sguardo basso, ma la voce bella ferma, controbatté: “Se a voi non sta bene, vietaglielo.”

“Come se potessi.” disse Caterina, stringendo i denti e passandosi i palmi delle mani sulle cosce, nel tentativo di calmarsi.

Il Conte inspirò con forza e non riuscì a tenere a freno la lingua: “Vi credete tanto potente e poi si scopre che non potete nemmeno dare ordini a un bambino di dieci anni.”

Caterina si alzò di scatto, piantando le mani sulla scrivania che cigolò sinistramente: “Astorre è l'ultimo dei miei problemi! Non capisci che dietro a lui c'è gente pronta a spazzarci via?!”

Ottaviano alzò gli occhi e vide la madre furente come non la era da tempo. La collera e la paura che covavano dentro di lui da che aveva memoria premevano per uscire dalle sue labbra come una colata di lava, ma sua madre non gli diede il tempo di esplodere.

“Adesso vattene nella tua stanza. Hai fatto già abbastanza danni. Avrei dovuto mandare tuo fratello Cesare. Lui non si sarebbe lasciato comprare con qualche banchetto e qualche donnaccia.” disse la Contessa, lapidaria.

Ottaviano si chiese per un fugace istante quanto di quello che sua madre aveva appena detto fosse dovuto alle spiate di Luffo Numai e quanto al suo intuito. In ogni caso, quella donna non aveva capito quale fosse stato davvero il motivo che aveva spinto il Conte a ritenere Astorre Manfredi un amico.

Senza provare a scagionarsi in alcun modo, Ottaviano girò sui tacchi e uscì dallo studiolo, togliendosi la soddisfazione di sbattersi la porta alle spalle.

 

“Come sarebbe a dire che il principe Djem è morto?!” esclamò Giuliano Della Rovere, afferrando il bavero del giubbone del cerusico.

“Siamo convinti che avesse una polmonite da tempo...” si difese l'uomo, alzando le braccia in segno di resa.

Il Cardinale lo lasciò di scatto. Non bastava aver perso il figlio del papa, che si era cacciato chissà dove. Adesso si erano giocati anche il principe turco, il fratello del Sultano...!

Erano entrati a Napoli da soli tre giorni eppure Giuliano già era stufo della baia e del vulcano che si intravedeva oltre ai fumi che si levavano dal campo dei soldati.

“Bayezid vorrà il corpo...” borbottò tra sé il Cardinale, ricordando come i maomettani usassero seppellire i propri morti entro massimo un giorno: “Ma come diamine facciamo...”

Poi i suoi occhi imperiosi si posarono sul cerusico, che se stava con le mani in mano a guardarlo, incapace di prendere in iniziative per timore di urtarlo in qualche modo e prendersi un'altra lavata di capo.

Quell'atteggiamento fu sufficiente al Della Rovere per esplodere: “Andate a dirlo a re! Che avete da guardare me?! Correte! Ah, avrete una bella punizione!” continuò a gridargli dietro, mentre il cerusico si allontanava di corsa: “Vi si affida un uomo e voi lo fate morire dopo una manciata di giorni! Vedrete, che punizione!”

 

Rodrigo Borja accartocciò il messaggio con una sola mano e lo gettò nel fuoco. Non voleva lasciare tracce di nessun tipo.

Suo figlio Cesare era arrivato a Spoleto, come lui stesso gli aveva detto di fare alla prima occasione.

Presto, o così almeno pensava il papa, Milano o Venezia o chi per loro avrebbe capito che avere in casa i francesi non si sarebbe mai tramutato in un vantaggio, ma sempre e solo in un impiccio di proporzioni colossali, e allora qualcosa si sarebbe mosso.

Anzi, a quanto ne dicevano le sue spie migliori, qualcosa si era già mosso eccome e le continue visite di veneziani al padiglione del Marchese di Mantova ne erano una prova.

Il papa non aspettava altro per dare il via alla rete di messaggi e insinuazioni a cui pensava ormai da tempo. Avrebbe scomodato perfino il re d'Inghilterra e l'Imperatore, se fosse stato il caso di farlo, pur di scacciare Carlo VIII.

E poi c'era la questione della fuga di Ferrandino. Tutti quanti a dire che se n'era andato da vigliacco, ma Rodrigo avrebbe fatto altrettanto e non per salvarsi la pelle, ma per aver modo di organizzare una controffensiva degna di tal nome.

Mentre ragionava sull'avvenire, Alessandro VI sentì la porta alle sue spalle aprirsi con un cigolio. Tenendo le mani allacciate dietro la schiena, il papa voltò un po' la testa e il suo naso aquilino avvertì subito il sentore delle erbe aromatiche con cui il Cardinale Sansoni Riario era solito profumare i propri abiti.

Quell'uomo era una vera e propria spina nel fianco. Come un serpente d'acqua dolce, era rimasto in un rigagnolo a strisciare per mesi e mesi e adesso, che si sentiva più forte, tornava a farsi vedere. Era cugino di Giuliano Della Rovere e della Tigre di Forlì, o almeno, queste erano le parentele che millantava. Che poi con entrambi fosse parente solo in modo acquisito era un dettaglio che sembrava non sfiorarlo più di tanto.

Rodrigo era stato in quei giorni inizialmente molto insofferente nei suoi confronti e lo aveva rispedito più di una volta fuori dal Vaticano, obbligandolo a parole a starsene nel palazzo romano che era in realtà di Ottaviano Riario. Poi, però, il papa ci aveva ragionato e si era reso conto che, per quanto sembrasse incredibile, Raffaele era tra i pochissimi parenti a cui la Contessa Riario pareva desse un qualche ascolto. E lo stesso si poteva dire del Cardinale Della Rovere.

Dunque era fondamentale, per il bene di Roma, del Vaticano e dei Borja, tenersi amico quel pretucolo spaurito che se ne stava tutto gobbo, quasi volesse sparire.

“Vi aspettiamo per la Santa Messa.” disse Raffaele, con un ossequioso inchino.

“È già l'ora della Messa?” chiese Rodrigo, con uno sbuffo.

Il Cardinale annuì servile e attese che il Santo Padre aggiungesse qualcosa.

“Ah! Questa Italia...!” prese a dire Alessandro VI, non dando segno di voler seguire il Cardinale, muovendosi con ampi gesti per tutto il salone, mettendo in mostra un amore per la scenicità impressa a fuoco nel suo sangue spagnolo: “Un calderone ribollente pieno fino all'orlo in egual misura di talenti e teste calde!”

Raffaele si sentì in parte offeso e in parte confuso da quella dichiarazione. Se c'era una testa più calda delle altre era proprio quella di Rodrigo Borja, quindi era quantomeno irrispettoso da parte sua dare quell'appellativo agli italiani. Tuttavia aveva parlato anche di talenti.

Ma a chi si riferiva e, soprattutto, si chiese il Cardinale Sansoni Riario, perché ne stava parlando proprio con lui?

“Io proprio non vi capisco...” soffiò alla fine Rodrigo, scuotendo il capo e lasciandosi cadere a peso morto sulla sedia dorata con imbottitura foderata di rosso.

Raffaele fece per dire qualcosa, per ricordare al papa che stavano tutti aspettando lui per la Messa, ma Rodrigo non aveva finito il suo soliloquio.

Sollevando una mano e agitandola stancamente in aria disse: “Per fortuna la mia adorata Lucrecia è sposata a uno che non è né un talento né una testa calda. È maritata con l'unico Sforza che abbia un minimo di prudenza e di senso di autoconservazione.” sospirò, apparentemente affranto e la voce gli si spense sul finire: “Comunque, appena le acque si saranno calmate...”

Raffaele avrebbe tanto voluto chiedere: 'Appena le acque si saranno calmate che succederà?', ma non ne ebbe la faccia.

Rodrigo diede un colpetto alla scrivania e si rimise in piedi. Passò accanto al Cardinale e gli diede una sonora pacca sulla schiena, con la quale, in parte, sfogò la propria frustrazione.

“Su, adesso, andiamo! Non avete detto che mi aspettano per la Messa? Volete farmi far tardi?!” inveì il papa, guardando storto il Cardinale.

Raffaele boccheggiò un momento, sconvolto da quel cambio di tono e dall'ingiusta accusa, ma, come aveva sempre fatto nel corso della sua vita, assecondò colui che era più potente di lui. Si scusò e seguì a ruota Sua Santità, pregustandosi una lunga Messa durante la quale, con un po' di fortuna, avrebbe anche potuto schiacciare un sonnellino.

 

“Suvvia, per noi non sarà certo un problema...” minimizzò Ludovico il Moro, che, da quando era divenuto padre per la seconda volta, tendeva a vedere tutto troppo roseo: “Stiamo parlando di un cane randagio, di un mezzo esiliato... Chi volete che lo segua?”

Bartolomeo Calco si passò un dito sul dorso del naso, poi si grattò il mento, indeciso su quali parole usare. La notizia appena arrivata a Milano era come acqua gelata buttata sul fuoco.

Se il Duca di Milano stava pianificando con attenzione il proprio futuro in Romagna, sfruttando la povera figlia della nipote come tramite, era legittimo preoccuparsi per certe novità. E invece Ludovico pareva non darvi alcun peso.

“Questo... Come avete detto che si chiama...?” fece il Duca, sbrigativo, come a dare volutamente poco importanza alla cosa.

“Ottaviano Manfredi, cugino di Astorre, lo sapete benissimo.” rispose Calco, appena più duro del solito.

Ludovico notò il suono spezzato delle sue parole, ma proseguì nella sua recita: “Ebbene, se l'avevano lasciato scappare a Pisa, significa che non ne sono impensieriti. Non riuscirà mai a radunare un esercito e prendersi Faenza. Non dobbiamo sopravvalutare nessuno, Calco.”

“Ma nemmeno sottovalutare nessuno, mio signore.” gli fece notare il cancelliere.

Il Moro fece un gesto di impazienza, muovendo a destra e a sinistra un'ala del mantello pesante in cui era intabarrato.

“Fatto resta che si è liberato dal controllo dei fiorentini approfittando dell'arrivo di Carlo VIII e al momento nessuno sa dire dove sia!” perse la pazienza Bartolomeo Calco, dando per la prima volta in anni di fedele servizio, seri segni di contrarietà: “In Romagna va fatto qualcosa ora, subito, prima che sia troppo tardi! Se continuerete a ignorare tutto quello che non vi piace, finiremo per rovinare il lavoro dei vostri genitori!”

Ludovico lo guardò in cagnesco e, alzando minacciosamente il grosso indice davanti al suo viso, gli intimò: “Ricordatevi che siete pagato per fare il cancelliere, niente di più.”

Calco comprese all'istante di aver passato il segno. Con un certo contegno, raggruppò i documenti che doveva ancora analizzare a fondo e fece un rigido inchino al suo signore.

“Perdonatemi – si scusò – è solo che sono molto stanco.”

Il Moro gli permise di ritirarsi, congedandolo con estremo distacco: “Riposatevi, dunque.”

 

Bianca Landriani guardava da lontano la sorella parlare con Tommaso. Dall'espressione contrariata dell'uomo, comprese che il discorso non stava andando come sperato.

La Contessa e il Governatore erano nel mezzo del cortile d'addestramento della rocca e stava calando rapidamente la sera. Qualche timido fiocco di neve cadeva dal cielo, ma, come accadeva da giorni, quell'avvisaglia non sembrava voler portare una vera e propria nevicata.

Caterina non si era accorta che dalle balconate gli occhi chiari della sorella la stavano osservando con attenzione e così Bianca non badava troppo a nascondersi.

La moglie del Governatore sapeva che Tommaso stava chiedendo per l'ennesima volta quando sarebbero potuti tornare a Imola. Ormai il matrimonio tra la figlia della Contessa e il signore di Faenza si erano tenute, seppur per procura, quindi quell'ostacolo non era più credibile.

“Vi chiederei di restare fino a giugno, ma temo di domandarvi troppo.” stava dicendo Caterina, le mani strette l'una nell'altra per far fronte al freddo.

“Di fatti.” ribatté Tommaso, senza possibilità d'appello.

“Vedrò di scrivere a Imola già domattina, allora. Date qualche giorno all'attuale Governatore per organizzarsi, poi potrete tornare là.” cedette la Contessa.

L'uomo, però, malgrado quella promessa, non sembrava rasserenarsi. Caterina sapeva qual era il vero motivo. Tommaso, per quanto continuasse a chiedere di essere trasferito, non voleva lasciare la rocca di Ravaldino. Se insisteva tanto, lo faceva solo per far felice la moglie.

“Non abbiate paura, andrà tutto per il meglio – lo salutò Caterina, appoggiandogli leggermente la mano sulla spalla – ci riaggiorniamo domani.”

Il Governatore chinò il capo e lasciò che la Contessa gli passasse accanto. La seguì con gli occhi finché non la vide sparire verso la sala delle armi e poi, come colto da un'improvvisa ispirazione, puntò lo sguardo verso l'alto.

Bianca lo stava fissando con un'espressione addolorata impresso in viso. Ormai la gelosia non la rendeva più furiosa, ma solo mesta e scura.

Tommaso avrebbe voluto scusarsi per il modo in cui aveva seguito con lo sguardo la Contessa, per come non si era sottratto al tocco della sua mano, ma sapeva che sarebbero state solo parole vuote.

Così tornò a guardare fisso davanti a sé e prese a camminare con passo marziale, sperando che la sua signora esaudisse presto la sua richiesta di lasciarlo partire.

 

'Ormai la sua vanagloria è palese e insopportabile e dunque non solo le due famiglie che vi dicevo, ma anche quella degli armigere fedeli a lei sono pronti a passare alle vie di fatto. Nessuno, però, per il momento vuole essere la mano e chiedere a terzi si fa ancora troppo pericoloso. Il nostro pupillo sta facendo un lavoro eccellente e sta persuadendo tutti che sia lei stessa a volerlo morto. Tutti i suoi fedeli, però, la conoscono e ancora non credono appieno che lei davvero lo tema tanto da non voler parlare per paura di essere scoperta. In ogni caso anche oggi lo si è visto passare in mezzo alla città con cento cavalieri di scorta e ci scommetto che l'idea potrebbe essere di lei, più che di lui, che si crede ancora un intoccabile. Vi terremo informato il più possibile, usando ancora questa medesima cifra, ma contattateci solo se necessario, per ridurre il rischio. Quando saranno tutti convinti, allora colpiremo, ma andrà fatto in un momento particolare, quando lei, più che lui, avrà la guardia bassa o se no sarà la fine per tutti. Vostro fedele B. S.'

 
   
 
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