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Autore: rossella0806    10/01/2017    3 recensioni
Regno di Sardegna, gennaio 1849.
Costanza Granieri si è svegliata per l'ennesima volta spaesata e affranta: da quando si è trasferita in città, lontano dalle sue abitudini e dai suoi affetti, la notte non riesce a dormire.
L'unica cosa che desidera è ritornare alla vita di prima, nel paese di montagna che l'ha vista crescere: la sua sola consolazione risiede nella corrispondenza epistolare che intesse con la nonna materna, influente donna della comunità che ha dovuto abbandonare.
Sullo sfondo delle vicende della famiglia Granieri e dei Caccia Dominioni, in mezzo a personalità nobili e giovani rivoluzionari, va in scena la battaglia della Bicocca, combattuta nelle campagne novaresi il 23 marzo 1849, tra lo schieramento dei piemontesi e quello degli austriaci, nemici giurati di un intero popolo.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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Io disapprovo profondamente i duelli. Se un uomo dovesse sfidarmi, lo prenderei gentilmente e con aria di perdono per la mano e lo porterei in un posto tranquillo e lo ucciderei.


(Mark Twain, pseudonimo di Samuel L. Clemens, autore e docente americano, 1835-1910)




Mentre la carrozza correva veloce verso la cascina Valstrona –uno stabile decadente in mattoni e calce-, schiantando la terra secca ed arida sotto le ruote inaugurate da poco, il maestro Rossini passava il tempo a controllare il suo orologio da taschino.

“Smettetela, per l’amor del Cielo!” sbraitò all’ennesima occhiata Costanza, irrigidendosi sul sedile color mattone.
“La ragazza ha ragione, Paolo. Non fate altro che innervosirci con questo vostro gesto ripetuto e decisamente stizzoso di guardare ogni secondo quell’affare!”
L’insegnante di musica richiuse con uno scatto l’elegante ingranaggio argentato, facendolo scivolare all’interno della giacca nera.
“Scusatemi, è che mi sembra di andare troppo piano e non sopporterei l’idea di arrivare tardi e trovare Pietro…”
“Non dite altro, vi prego! Noi non arriveremo tardi, non arriveremo tardi, lo so!” disse ad alta voce la giovane, più per persuadere se stessa che per reale convinzione.
Strinse le mani a pugno, accorgendosi che per la fretta si era dimenticata di indossare i guanti cipria in tinta con l’abito turchese, un vezzo che avrebbe abbondantemente barattato con la totale incolumità dell’adorato cugino.
Non avrebbe mai perdonato a Federico la morte di Pietro, gliela avrebbe fatta pagare in qualsiasi modo, lo avrebbe perseguitato fino al suo ultimo respiro, se fosse stato necessario, e gli avrebbe fatto scontare lo scotto davanti alla giustizia.
“Guardate, Costanza! Quella che s’intravede là in fondo è la cascina Valstrona! In un paio di minuti saremo finalmente arrivati!” la riportò alla realtà Maffucci.
Forza, prepariamoci a scendere e, Dio non voglia, teniamoci pronti al peggio.


Pietro si sentiva stremato: si stava arrabattando in quel duello ad armi impari da… quanto? Dieci minuti? Mezz’ora? Un’ora? Aveva completamente perso la concezione del tempo e l’unica cosa che desiderava era che tutto quel supplizio avesse presto fine.
“Allora, fratellino? Tocca a te! Non ti sarai già stancato, spero?!”
Il giovane conte Caccia, in maniche di camicia come lo era lui, gli aveva appena regalato l’ennesimo affondo, colpendolo di striscio su un ginocchio.
Il ragazzo guardò appena la ferita che si intravedeva al di sotto del tessuto scuro dei pantaloni, squarciato dalla lama perfetta del fioretto, per ritornare a concentrarsi sulla figura davanti a lui.
Con la coda dell’occhio, Pietro riusciva a vedere i marchesi Guido e Andrea Tornielli, suoi padrini, che seguivano con apprensione lo scontro, incitandolo a smetterla e a ritirarsi.
Ma non voleva dare alcun pretesto a quel folle del fratello per far del male a loro o a Costanza: sarebbe stato disposto a perdere vita e reputazione pur di salvare i suoi amici, ma non avrebbe rinunciato a portare avanti il duello, di questo ne era sicuro.
Avanzò a fatica verso Federico, il fiato corto e la testa pulsante, mentre con la mano sinistra impugnava meglio l’elsa.
“Quando ti renderai conto che tutto questo non ha senso? Che sarai tu il primo a pentirti di ciò?”
Pietro lanciò l’affondo che gli spettava, la gamba mancina in avanti a dargli lo slancio e il corrispettivo braccio che sfiorò appena il torace del fratello.
“Ah, molto bene, davvero un’ottima mossa!” si congratulò l’altro, sorridendo sardonico.
“Ma non sono d’accordo sui tuoi consigli: sai, li ho sempre trovati così noiosi, così dannatamente moralisti, così… tipicamente da fratello maggiore!”
Federico approfittò della concentrazione catturata di Pietro per colpirlo nuovamente, questa volta centrandolo sulla spalla destra.
Il tessuto di seta della bella camicia madida di sudore si strappò come fosse una vecchia tenda sotto le forbici di un’abile sarta, lasciando intravedere la carne rossa e dai contorni nettamente tagliati.
“Oh, forse ho esagerato…”
Il giovane conte si lasciò andare ad una risata sguaiata e si asciugò la fronte.
Pietro sentì le forze venirgli meno, la testa farsi pesante e un senso di nausea attanagliargli lo stomaco.
Cadde carponi, la ferita al ginocchio che era nulla in confronto al dolore lancinante che avvertiva premergli la spalla.
Con la mano sinistra cercò a tentoni lo squarcio: avvertì il sangue bagnargli le dita e l’odore ferroso stuzzicargli le narici.
Sta per finire tutto, ora non devo più fingere di essere un bravo spadaccino, riuscì a pensare con un mezzo sorriso, stupendo il fratello, che rimase interdetto davanti a quella reazione.
“Cos’è? La cosa ti diverte?” lo stuzzicò, avvicinandosi.
Non si abbassò per aiutarlo o per cercare di sincerarsi della gravità del taglio, non gli porse una mano per sorreggerlo a rialzarsi: rimase semplicemente in piedi davanti a lui, gli stivali sporchi di terra e di erba a pochi passi dalle ginocchia dell’altro, i capelli scompigliati e la camicia arrotolata sino ai gomiti e lasciata aperta sul petto.
La bocca gli si aprì in una smorfia di trionfo: erano anni che non si sentiva primeggiare, che non aveva coscienza di essere il più forte; era come trovarsi davanti alla sua nuova preda, e questa sensazione gli provocava un’enorme soddisfazione e un senso di pura euforia repressa.
Guardò ancora una volta il fratello, il volto sofferente attraversato da un’ombra tenace, a rappresentare che non voleva dargliela vinta, fino a quando avvertì le ruote di una carrozza farsi largo dietro di loro.


“Pietro!” Eugenio scese per primo dalla vettura, temendo di trovarsi davanti ad una scena raccapricciante.
Gli si avvicinò e gli si inginocchiò, mentre Federico era lì a seguire i suoi movimenti.
“Ah bene, vedo che sono arrivati i rinforzi!” lo schernì, scuotendo il capo e ritornando verso i duchi di Sanseverino e di Martengo, che gli regalarono ampi sorrisi e pacche sulle spalle.
“Dov’è il medico? Dove sono il secondo e l’accompagnatore che spettano in ogni duello degno di tale nome?!”
Il secondogenito dei Caccia aggrottò un sopracciglio, rivolgendosi con aria beffarda.
“Non è un duello all’ultimo sangue, signore, ed inoltre non mi sembra di vedere alcuno in pericolo di vita, o sbaglio? E per quanto riguarda il secondo, nessuno di noi duellanti è così stanco da non riuscire a continuare, allo stesso modo di come non reputo necessaria la presenza di qualcuno che vigili su un banale scontro tra fratelli…”
“Sapete anche voi che, una volta che l’avversario è stato ferito, si deve immediatamente smettere e…”
Rossini e Costanza scesero pressoché insieme, quindi la ragazza raggiunse il cugino e l’avvocato, che si trattenne dal continuare a controbattere la sbruffonaggine di Federico.
“Oh Dio, che cosa vi hanno fatto?” riuscì a dire la ragazza, ipnotizzata dalla ferita alla spalla.
Gli sembrava di essere tornata indietro nel tempo, di rivedere la sofferenza del fratello e la sua impotenza nel non poterlo aiutare.
Si fece dare i loro fazzoletti dall’insegnante di musica, da Maffucci e dai marchesi Tornielli –che nel frattempo erano accorsi per valutare le condizioni dell’amico-, in modo da comprimere la ferita sulla spalla, e cominciò a premere con forza, come aveva visto fare anni prima da uno dei contadini di donna Mellerio, quando si era tagliato in uno dei numerosi roveti della villa.
“E’ solo una ferita di striscio…” cercò di minimizzare Pietro, mal sopportando tutte quelle attenzioni e allontanando le bende di fortuna.
Con quel gesto, sfiorò la mano di Costanza, così calda rispetto alla sua, fredda per la tensione e il sudore di quei minuti interminabili.
I loro occhi si accarezzarono e si dissero molte più cose di quanto fosse necessario pronunciare a parole.
“Date retta al povero Pietro, cugina, non c’è nulla di cui preoccuparsi! E’ una semplice sbucciatura che sparirà nel giro di qualche ora, credetemi!”
Federico si avvicinò a lei e ai tre uomini: aveva rindossato la giacca grigio tortora e si era ravvivato i capelli, le guance ancora arrossate dal duello appena trascorso.
“Diglielo anche tu, fratellino, che non è successo nulla! Si è trattato solo di uno screzio senza alcuna importanza. Non è forse così?” continuò imperterrito il giovane.
“Allora? Non vorrai diventare eroe anche agli occhi dei tuoi amici!”
“Smettetela!” sbraitò Costanza, lasciando Eugenio a premere sulla ferita.
Si alzò di scatto, il vestito turchese inzaccherato, e rivolse uno sguardo truce in direzione del cugino.
“Ma non provate un minimo di vergogna per ciò che avete fatto? Non vi sentite sporco dentro? Marcio nell’anima? Avete cercato di uccidere il vostro stesso fratello, lo avete attirato fino a qui con chissà quali inganni! Non provate un briciolo di pietà, di amore, di semplice affetto per lui? Non siete pentito?”
I capelli ricci, raccolti solo da un grosso fermaglio dietro la nuca, le ricadevano ribelli come un ventaglio sulle spalle, conferendole un’aria ancora più battagliera.
Una luce molto simile all’odio aveva preso a brillare negli occhi verdi della ragazza, che ormai non temeva ulteriori e possibili conseguenze.
“Pietro non vi merita, cara cugina, e voi ancora non lo avete capito! E’ l’ennesima dimostrazione di quanto il suo animo sia corrotto, non il mio! E’ sempre stato un ottimo attore, bravissimo nel ricreare la giusta atmosfera di vittima sacrificale: almeno questo, in tutti i mesi di frequentazione, dovreste averlo imparato…”
Un unico e potente schiaffo mise fine ai vaneggiamenti del giovane, che si portò la mano alla guancia colpita, impreparato a quel gesto a dir poco teatrale.
Non ribatté, preferendo scuotere il capo e sorridere come se tutto gli fosse dovuto.
In quel mentre, però, proprio quando Rossini e i fratelli Tornielli cercavano di rialzare il conte, il frastuono degli zoccoli dei cavalli e lo stridio delle ruote di un carro interruppero il breve istante di silenzio che si era creato.
Tutti e nove i presenti si voltarono nella direzione indicata dal rumore, chi volgendo il busto e chi semplicemente sollevando lo sguardo: nemmeno un minuto dopo, infatti, alcuni esponenti della Guardia Civica raggiunsero il luogo dove si era svolto il duello.
Dalle mostrine di cui faceva sfoggio, alla testa del corteo si trovava un tenente, un trentacinquenne allampanato e con i baffi bruni a manubrio; al suo fianco, vi era un sottoufficiale di qualche anno più giovane, i lineamenti scuri, mentre a cassetta della vettura d’ordinanza si stagliavano le figure di due soldati semplici di non oltre vent’anni.
Maffucci, Rossini, i marchesi Tornielli, Pietro e Costanza rimasero interdetti per il favorevole avvento degli uomini di Legge, mentre Federico e i suoi padrini sembravano perfettamente a loro agio, come se si aspettassero una mossa del genere.
“E’ quella che qualcuna chiama Provvidenza ad avervi mandato!” si lasciò scappare l’insegnante di musica, gongolante come un bambino.
Il tenente gli lanciò un’occhiata distratta, quindi scese dal destriero bianco e, la divisa di panno blu scuro sui pantaloni immacolati, diede un’approfondita scorsa al gruppo che si stagliava davanti a lui.
“Buonasera, signori. Che cosa sta accadendo qui?”
“Un duello, signor tenente” rispose Eugenio, sperando di mettere nei guai il giovane conte.
“Un duello, dite… E sapete che il Regno di Sardegna non tollera che sul suo territorio vi siano esibizioni guerrigliesche di siffatta risma? Si potrebbe incorrere in sanzioni assai pesanti, pecuniarie e addirittura penali…”
“Non date retta a quest’uomo” s’intromise ossequiosamente Federico “si è trattato di una semplice scaramuccia, un contenzioso tra fratelli. Null’altro, ve lo posso assicurare sul mio onore”
“Onore?!” Costanza non riuscì ad evitare di obiettare l’assurdità di una tale replica, ma venne prontamente bloccata dal trentenne dai baffetti.  
“Comunque sia, chi di voi è il conte Pietro Alberto Ermanno Caccia?”
Il chiamato in causa, che fino a quel momento non si era dato pena di comprendere la situazione, ma desiderava solamente che tutto finisse, sollevò la testa bionda e, con le ultime forze rimaste, tentò di mettersi in piedi.
Una fitta al ginocchio colpito lo costrinse a piegarsi in avanti, mentre con la mano sinistra comprimeva senza troppa importanza la ferita alla spalla.
“Sono io, tenente. Cosa volete?”
L’uomo, fautore dell’Ordine pubblico, gli si avvicinò a passi calibrati e gli si parò davanti, continuando a non degnare il resto dei presenti di nemmeno una misera occhiata.
“Signor conte, in seguito a denuncia anonima giunta presso la nostra sede cittadina nella giornata odierna, 30 aprile 1849, e con i poteri giuridici conferitemi dal mio ruolo di tenente della Guardia Civica del Regno di Sardegna di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, vi dichiaro in arresto per il reato di tradimento ai danni della patria. Verrete tradotto in carcere, presso il castello Sforzesco della città, e ivi rimarrete fino a nuove disposizioni”
“Ma…non potete!” riuscì a controbattere Costanza, sconcertata.
“Non vedete che è ferito?! Dobbiamo farlo visitare da un medico!”
Il tenente si voltò nella sua direzione e s’inchinò leggermente.
“Voi chi sareste, signora?”
“Mi chiamo Costanza Granieri e sono la cugina del conte. Sono convinta ci sia stato un enorme quanto grossolano sbaglio, signor tenente! Pietro non è un traditore, lui ama la nostra patria come pochi, ve lo posso giurare! Ma vi prego, prima di qualsiasi cosa, permettetegli di essere visitato da un medico! E’ stato colpito in un duello da lui non cercato proprio pochi minuti fa, e vedete anche voi che le ferite sono ancora troppo fresche per scongiurare qualsiasi pericolo per l’incolumità della sua salute!”
La giovane si zittì per riprendere aria e riordinare velocemente i pensieri: doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di salvare Pietro ed impedirne l’arresto.
“La ragazza ha ragione, signor tenente” s’intromise Eugenio, aspettando un segnale da parte di Pietro, che tuttavia aveva riabbassato il capo ed era ricaduto carponi, lasciando che fossero i marchesi Tornielli a tamponargli le ferite da taglio.
“Sono l’avvocato Maffucci e rappresenterò legalmente il conte. Ebbene, quando siamo arrivati pocanzi –la signorina Granieri, il maestro Rossini ed io- abbiamo trovato il nostro amico versare in queste condizioni critiche, ed è sotto gli occhi di tutti che urge reperire la presenza di un buon medico per prestargli le cure adatte alla sua condizione. Non siete forse d’accordo anche voi?”
Il tenente contrasse la mascella sbarbata e, le mani dietro la schiena, dedicò uno sguardo ai tre soldati alle sue spalle, due ancora alla testa del carro e l’uno sceso da cavallo.
“Non temete, avvocato. Data la condizione sociale dell’arrestato e l’evidente necessità in cui si trova, sarà mia premura, una volta arrivati al castello, far venire il medico del carcere per visitare il vostro amico”
Eugenio annuì poco convinto e si voltò per scrutare ancora una volta il resto della combriccola: gli unici a loro agio e decisamente fin troppo rilassati erano Federico e i duchi di Sanseverino e di Martengo, l’espressione palesemente irriverente per la notizia dell’arresto.
“Permetterete almeno di scortare il conte a destinazione e di verificarne la sistemazione, signor tenente?” continuò calmo e lucido Maffucci.
“Se insistete, non sarò certo io a negarvelo. Ebbene, è giunto il momento di andare. Ce la fate a sollevarvi, signor conte?”
A quelle parole, Pietro parve risorgere: puntò gli arti buoni sul terriccio e, con l’aiuto dei marchesi Tornielli e di Rossini, si mise finalmente in piedi, la camicia ed i pantaloni sporchi e sudati appiccicati come una seconda pelle.
“Non sei costretto ad andare” cercò nuovamente di farlo ragionare Guido, bloccandogli il braccio sano.
“Eugenio saprà difenderti e tirarti fuori da questo equivoco” rincarò la dose Andrea, preoccupato come il fratello.
Ma l’amico sembrava aver perso l’uso della parola: con i suoi occhi azzurro ghiaccio cercò di rassicurarli e di sorridere, quindi rivolse uno sguardo grato anche al maestro Rossini, in apprensione come non mai, ed infine alla bella quanto disperata Costanza.
Barcollante e zoppicante per il ginocchio ferito, le passò di fianco e le sfiorò una mano, stringendogliela impercettibilmente.
“Oh Pietro, Pietro vi supplico, non cedete, non permettete che vi facciano altro male, vi prego! Non sopporterei nuovo dolore nella nostra famiglia, non riuscirei più a veder soffrire una persona che amo. Per favore, dite qualcosa!”
Il cugino, la spalla da cui non fuoriusciva più sangue, cercò di tranquillizzarla con un’altra carezza, poi la oltrepassò, senza aggiungere altro.
Costanza fece per seguirlo, ma il sottoufficiale che era arrivato a cavallo con il tenente le sbarrò prontamente la strada.
“Andate a casa” le intimò teneramente Maffucci, voltandosi “e aspettate prima di allarmare i genitori di Pietro. Appena saprò qualcosa, sarà mia premura venire da voi a palazzo per riferirvelo, ma fino ad allora non avvertite nessuno. Paolo, siamo nelle vostre mani”
L’avvocato diede una pacca amichevole a Rossini e ai marchesi, quindi salì sul carro della Guardia Civica vicino a Pietro, che si issò lentamente e a fatica.
Poi, i due soldati a cassetta spronarono i cavalli a mettersi in marcia, preceduti dagli eleganti bai del tenente e del suo compare.
Il sole di fine aprile stava calando all’orizzonte, e un freddo improvviso raggiunse chi era rimasto sul luogo del misfatto, un freddo simile all’abbandono e alla tristezza.
Costanza avvertiva che avrebbe ceduto da un momento all’altro, ma non poteva permettere di dargliela vinta a Federico, che insieme ai suoi sgherri aveva preso posto nella carrozza con cui aveva raggiunto la cascina, poco più di un’ora prima.
I loro sguardi si incrociarono per un istante, giusto il tempo perché l’odio della ragazza rimanesse ben impresso nella mente corrotta del cugino.
E Costanza capì: si abbassò, prese una manciata dei numerosi sassolini presenti lì intorno e, con la rabbia in corpo, scagliò quell’arma primordiale contro la carrozza che si stava ormai velocemente allontanando.
“Siete stato voi! Sei stato tu, maledetto! Tu ad aver denunciato Pietro! Torna indietro, torna indietro e abbi il coraggio delle tue azioni!”
Rossini e i marchesi Tornielli le si avvicinarono con aria preoccupata, bloccandole le braccia: i sassolini nel palmo della mano caddero uno dopo l’altro, e lo stesso fece la giovane, che si accasciò senza più forze.
“Suvvia, mia cara, non sprecate il vostro fiato per un essere tanto vile. Vedrete che Eugenio troverà presto una soluzione, abbiate fiducia”
L’insegnante di musica la avvolse in un abbraccio consolatorio, mentre Guido le accarezzava una spalla.
“Il maestro Rossini ha ragione. Permettetemi di darvi un consiglio: Federico e quelli come lui godono nel vedere la disperazione della gente, e non saranno certo le vostre comprensibili imprecazioni a mettere la parola fine su questa sorta di faida famigliare. Vi giuro che domattina andrò di persona ad interessarmi sullo stato di salute e giuridico del nostro amico, sempre che Maffucci non sia già riuscito a farlo scagionare!” cercò di farla sorridere il ragazzo, alto e moro.
“Apprezzo il vostro ottimismo, ma voi non conoscete la bassezza e i modi infingardi che contraddistinguono mio cugino. Se non troviamo un modo per provare l’innocenza di Pietro, temo che verrà esiliato o, peggio ancora, condannato a morte! E questo non sarebbe giusto, non è giusto!”
Costanza, ancora avviluppata a Rossini, avvertì un tuffo al cuore al solo pronunciare quell’infausto presagio.
“Federico sa che sta mentendo” s’inserì nella conversazione Andrea, il più piccolo dei Tornielli “lo sa perfettamente. Anzi, sono convinto che la sua sia solamente una mossa per prendere tempo e fuggire verso il Lombardo Veneto, dove di sicuro potrà contare su degli appoggi altrettanto depravati quali sono i duchi di Sanseverino e di Martengo. Il nostro compito è sostenere Pietro in ogni maniera, anche avendo fiducia in lui e nella sua intelligenza. E poi, non dimenticate che Eugenio è tra i migliori avvocati della città e dell’intera provincia: i suoi studi lo hanno portato in giro per l’Italia, e di certo saprà come tirare fuori dai guai Pietro!”
Guido e il maestro di musica annuirono alle parole del ragazzo, mentre Costanza pregava che tutto ciò che avevano detto si avverasse presto.
“E’ ora di andare” dichiarò Rossini, ringraziando con un cenno del capo ed una stretta di mano i marchesini.
La giovane salutò assorta nei suoi pensieri, quindi si lasciò trascinare fino alla carrozza di Maffucci, abbandonata a pochi metri di distanza.
Il cocchiere –un uomo sui trent’anni, il viso butterato ma ben proporzionato come il resto del corpo e gli occhi chiari- era favorevole alla causa di Liberazione, per cui non fece domande riguardo la scena che aveva assistito: era il tuttofare del gruppo di affiliati e di lui ci si poteva fidare ciecamente.
Quando Rossini e Costanza presero posto sulla vettura, ella domandò se fosse possibile non andare subito a palazzo.
“Non me la sento di farmi vedere in queste condizioni: temo di non riuscire a starmene zitta e a rivelare ogni cosa ai miei genitori, talmente grandi sono l’angoscia e la disperazione che provo. Inoltre, non ho alcuna intenzione di far soffrire inutilmente zia Rosa e lo zio Aldo, proprio loro che sono stati così buoni ed ospitali nei nostri confronti”
L’insegnante rifletté per qualche secondo sulle parole della sua interlocutrice, poi il volto gli si illuminò soddisfatto.
“Che ne dite, mia cara, se vi porto a conoscere la nobildonna che in questo periodo ha avuto la gentilezza di aprirmi le porte della sua dimora? E’ assai affabile e di ottime maniere, una signora d’altri tempi, credetemi!”
“No, maestro, non ho voglia di vedere nuove persone. Piuttosto, portatemi a fare un giro per la città, un giro senza meta, in modo da rischiararmi le idee e riflettere meglio. Approvate?”
L’altro fece spallucce e sorrise bonariamente, annunciando al vetturino di partire per il centro di Novara.
“Se non fosse per ciò che è appena accaduto, questa sarebbe una serata perfetta per passeggiare con voi”
Scostò le tendine bordeaux per permettere al chiaro di luna e al cielo stellato di penetrare nella carrozza, buia e cupa fino a quel momento.
Costanza sospirò speranzosa e rincuorata: lo spettacolo della natura era il miglior balsamo alle sofferenze umane, e adesso sapeva che ce l’avrebbero fatta a dimostrare l’innocenza di Pietro.
Avrebbe lottato con le unghie e con i denti pur di scagionarlo, lo giurava e lo doveva a se stessa e a tutti coloro che credevano nella Giustizia.
   
 
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