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Autore: MadAka    11/01/2017    3 recensioni
«Bisogna avere pazienza quando si svolge un'indagine. Se l'assassino vuole comunicare con me troverà il modo di farlo ancora una volta» disse, lanciando un’ultima occhiata sicura alla ragazza, «Ma non temere, continuerò comunque a indagare su questa faccenda, non mi farei mai scappare un caso invitante quanto questo.»
Si avviò verso la sua stanza, senza aggiungere altro. Emily lo guardò, mille pensieri a riempirle la testa. Alla fine uno fra tutti prese il sopravvento, facendola sentire più preoccupata che mai.
«E se fosse Moriarty?»
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Emily Prince si è sempre sentita diversa. Un ombrello giallo sotto la pioggia di Londra, un puntino rosso nel cuore della notte, una mente affollata, sicura e colorata, e una visione unica del mondo intorno a sé.
La sua ambizione più grande la guiderà lontano dalla sua città, fino al più noto numero civico di Baker Street. Tuttavia, contro ogni previsione, la farà anche sprofondare in qualcosa da cui, sola, la ragazza non potrà uscire.
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La storia è ambientata dopo la fine della terza stagione.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Quella mattina John raggiunse il 221B di Baker Street intorno alle nove. Aveva spento la sveglia e si era riaddormentato prima di trovare la forza di alzarsi dal letto, cosa che lo aveva portato a essere in ritardo sulla sua tabella di marcia immaginaria.

La sua intenzione di raggiungere il suo ex appartamento era legata principalmente al giorno precedente, a quello che era avvenuto nell’obitorio e a ciò che ne era seguito. Dopo che Molly e Lestrade avevano informato i presenti di ciò che era accaduto al giudice Walker ben poche cose erano rimaste tranquille. Sherlock si era improvvisamente fatto serio, aveva raccolto quante più informazioni possibili e si era allontanato da solo, prendendo un taxi e dirigendosi da qualche parte, probabilmente con l’intenzione di rinchiudersi nel proprio Palazzo mentale il più a lungo possibile. John aveva quindi riaccompagnato a casa Emily – anche lei fattasi improvvisamente seria – solo per appurare che Sherlock non era rientrato nel proprio appartamento. Quando aveva lasciato il 221B due ore più tardi dell’amico non c’era ancora traccia. Non era rimasto sorpreso da quell’atteggiamento, conosceva Sherlock, tuttavia sapeva anche bene che le lunghe assenze dell’uomo erano legate a qualcosa in grado di tenere impegnata la sua mente e non sempre si trattava di un bene. In quel caso, poi, non poteva di certo esserlo. Erano trascorsi mesi dall’ultimo messaggio di Moriarty, dal video che aveva costretto Sherlock a fare ritorno a Londra meno di cinque minuti dopo il suo esilio, e l’omicidio di Walker poteva essere ben più serio e importante di quanto già non fosse.

John superò in fretta la porta d’ingresso, urlò un rapido saluto a Mrs. Hudson, dopodiché salì di corsa le scale ed entrò nel soggiorno di Sherlock. Trovò il detective fermo, seduto sulla sua poltrona, le gambe accavallate, le mani congiunte davanti alle labbra, gli occhi celesti fissi in un punto imprecisato; non spostò neanche lo sguardo quando sentì John e continuò a rimanere impassibile anche dopo. Il medico individuò Emily nella stanza, seduta sul divano con il portatile in grembo, intenta a scrivere qualcosa. Lei salutò l’ultimo arrivato con la mano, sorridendo. John le si avvicinò, sempre fissando Sherlock.

«È così da questa mattina» volle informarlo Emily, guardando il detective. «Quando mi sono svegliata era lì. Gli ho preparato del tè, del caffè, non ha preso niente.»

«È nel suo Palazzo mentale» le rispose John. «Quando avrai imparato a conoscerlo meglio questo suo atteggiamento non ti sorprenderà più. Piuttosto è strano che ti consenta di rimanere nella sua stessa stanza» osservò infine, incuriosito.

«Non gli ho parlato molto, l’ho solo guardato» precisò lei osservando Sherlock con rinnovato interesse. Il Palazzo mentale? Poteva essere ottimo materiale per il suo lavoro.

John acconsentì, perplesso. Trovava Emily sempre più curiosa. Ciò che lo sorprendeva di più era il fatto che la ragazza non pareva mai stupita o infastidita dagli atteggiamenti di Sherlock. Viveva sotto il suo stesso tetto da tre giorni, eppure sembrava già essere completamente assuefatta alle cose che rendevano Sherlock Holmes, Sherlock Holmes. Sotto molti punti di vista Emily si stava dimostrando una persona unica – forse addirittura preziosa.

Accanto a lui la ragazza chiuse il portatile, si voltò verso il medico e chiese: «John posso parlarti un momento?»

«Sì, certo» rispose lui.

«Non qui, però. Possiamo andare in camera mia.»

Si avviò al piano di sopra seguita dal medico. Lo introdusse in quella che per tanto tempo era stata la sua stanza e John poté osservare quanto fosse cambiata. Gli abiti, gli oggetti, la disposizione del mobilio, perfino la luce erano diversi.

«È così diversa da come la ricordavo» si lasciò sfuggire l’uomo, sorridendo.

«Devo ancora finire di sistemarla, ma c’è tempo» rispose lei, strofinandosi le mani sulle cosce, come imbarazzata. Guardò un momento il medico, dopodiché abbassò il tono di voce: «Tu sai cosa prende a Sherlock meglio di me, vero?» domandò dopo aver chiuso la porta della stanza.

«È più complicato di quanto si possa pensare» le disse lui, pensando si riferisse al Palazzo mentale del detective.

«Credimi, so cos’è successo fra lui e Moriarty, lo so molto bene. Ma qui non si tratta di lui, o sbaglio?»

John si bloccò a quelle parole. Prese tempo alla ricerca della cosa giusta dire e, soprattutto, su quanto poter dire.

«Emi è… è complicato.»

«E non posso saperlo, immagino.»

«Tu non sai cos’è successo dopo Magnussen. Dopo quello che ha fatto Sherlock.»

«So che potrebbe essere implicato nella sua morte» gli rivelò la ragazza, calma.

Nuovamente John si zittì, guardando a lungo Emily. Non gli importava sapere di come avesse fatto quella giovane a scoprire la verità, tuttavia una buona parte di lui si chiedeva che cosa avrebbe potuto rivelarle. Era pur sempre una sconosciuta, una ragazza giovane di cui lui sapeva pressappoco nulla. Tuttavia gli tornarono in mente le parole di Sherlock “È giovane, certo, ma molto intelligente e capace”; se il detective, che era in grado di conoscere chiunque anche solo trascorrendovi accanto cinque minuti, si fidava di lei al punto di prenderla nella proprio casa, perché lui non avrebbe dovuto? In fin dei conti l’ultimo con cui Sherlock aveva condiviso l’appartamento era stato lui e sapeva benissimo com’erano finite le cose: per quanto assurda la loro amicizia era innegabile.

«Ok, va bene, vuoi sapere come sono andate le cose? Ti accontento. In fin dei conti lui ha accettato di averti in giro per casa quindi immagino che un po’ di dietro le quinte sia giusto fartelo avere.»

Respirò a fondo prima di riprendere a parlare, sperando con tutto se stesso di non essere in procinto di complicare le cose. «Dopo ciò che è accaduto fra Sherlock e Magnusses, Mycroft ha pensato fosse una buona idea allontanarlo per un po’ da Londra. Lo avrebbe spedito nell’est Europa per qualche mese, poi chissà.»

Fece un’altra pausa, preparandosi a vuotare definitivamente il sacco: «Fatto sta che poco dopo la partenza di Sherlock è arrivato un messaggio, da Jim Moriarty.»

«Un messaggio da Moriarty?»

«Non lo hai visto? Era su ogni singolo schermo televisivo in tutto il Paese» le chiese sorpreso.

«Io ero a Newport1, impossibile che lo abbia visto.»

«Beh, il messaggio era chiaramente rivolto a Sherlock, per questo lui è tornato indietro, per cercare di capire cosa potesse significare. Tuttavia per mesi non ci sono stati altri segnali. Sherlock ha provato a cercarli ma non c’è stato niente, nessun movimento. Fino a ieri. Quel delitto, l’omicidio di Walker, non può essere una coincidenza.»

«John, questo non è possibile. Moriarty è morto» disse lei, fermamente convinta.

«Anche Sherlock lo era, eppure ora è di sotto in soggiorno» cercò di farla ragionare lui.

«Ma Moriarty si è sparato in testa. Ho letto il tuo blog, ho letto i giornali, so cosa è successo. Ho studiato la cosa a sufficienza per mesi.»

«E come puoi spiegare quello che è successo a Walker, allora?»

«Moriarty è morto. Emily ha ragione» intervenne Sherlock, comparso improvvisamente sulla soglia della porta. Sia Emily che John sussultarono al suono della sua voce: nessuno dei due lo aveva sentito avvicinarsi.

«Chiunque abbia ucciso Walker lo ha fatto a quel modo solo per richiamare Moriarty, ma non può essere stato lui» riprese a dire, scandendo accuratamente le ultime sei parole.

«Perché avrebbero dovuto farlo, allora?» chiese con enfasi John.

«Per provocarmi, ovvio. O forse per cercare di spaventarmi in qualche modo. Non so perché lo abbiano fatto, John, ma ho già elaborato qualche teoria.»

Detto ciò fece dietro front e uscì dalla stanza, avviandosi lungo le scale per poter tornare in soggiorno.

«Quando avresti iniziato a formulare queste teorie?» gli urlò dietro il medico, avviandosi seguito da Emily.

«Più o meno un minuto dopo che Molly mi ha detto il modo in cui si erano garantiti che Walker affogasse.»

«E a che conclusioni sei arrivato?» domandò Emily, curiosa come mai.

«Devo ancora affinare le mie ricerche, ma è chiaro che chiunque sia stato è legato sia a me che a Walker. Ho lavorato in più occasioni su casi che sono poi finiti a lui e lui si è sempre premurato di mettere in prigione ognuno di quegli indagati. È possibile che chiunque lo abbia ucciso, lasciando a me quel sottile messaggio, sia qualcuno di vicino a uno dei suddetti criminali.»

«Certo!» esclamò Emily. «Semplice.»

«Eppure così complesso» concluse per lei il detective. Si sistemò la giacca dell’abito e protese una mano verso la coinquilina. «Prestami il tuo portatile, Emi, servirà a John. Sarebbe grandioso se mettessi su anche un po’ di tè.»

Lei eseguì subito, entusiasta. La ricerca del possibile indiziato era appena cominciata e si trattava di un altro passo fondamentale per comprendere il più possibile della mente di Sherlock Holmes. Adorava quella casa.

«Guarda che Emily non è la tua cameriera» gli fece notare John, in piedi al centro del soggiorno, gli occhi fissi su Sherlock, seduto alla scrivania. «E non penso proprio che ti aiuterò questa mattina. Mary e la piccola stanno venendo qui a prendermi.»

Sherlock lo guardò, sollevò le sopracciglia, si esibì in un mezzo sorriso. «Mary potrebbe aiutarci eccome, invece. È intelligente, ne capisce di queste cose.»

Si concentrò poi sul computer, cominciando la sua ricerca. John lo fissò indispettito per un lungo momento, dopodiché, sbuffando, si sedette di fronte a Sherlock e avviò il portatile di Emily.

Appena fu pronto, la ragazza servì il tè ai due uomini e si fermò in piedi alle spalle del detective, a osservare ciò che stava cercando.

«Ricordi tutti quelli che hai mandato a processo da Walker?» gli chiese.

«Sì» rispose monosillabico l’uomo, bevendo un sorso del suo tè.

Per lunghi minuti non disse più nulla nessuno. Nella stanza si sentivano solo le dita dei due uomini battere sulle tastiere dei portatili in cerca di risposte e informazioni, mentre Emily, accanto a loro, continuava a fissarli con vivo interesse, concentrata.

Improvvisamente qualcuno bussò alla porta.

«Cucù» disse la signora Hudson, entrando nella stanza. Dietro di lei comparve Mary, che teneva in braccio un fagottino avvolto di rosa.

«Si può?» chiese la padrona di casa.

John si alzò dalla sedia, andò a salutare Mary e diede un bacio sulla fronte al contenuto del fagotto, sua figlia.

«È veramente una meraviglia, caro» osservò Mrs. Hudson, riferendosi alla bambina.

«La ringrazio.»

Mary si avvicinò a Sherlock, gli diede un bacio sulla testa appena lo ebbe raggiunto. «Troppo impegnato per salutarmi, eh?» lo rimproverò.

Lui sollevò lo sguardo e le sorrise. «Come sta?» chiese, indicando con un cenno la figlia, fra le braccia di John.

«Fin troppo bene» rispose ridendo Mary, dopodiché si voltò verso Emily. La guardò attentamente, mentre tutti i presenti assistevano alla scena. La ragazza si sentì inevitabilmente sotto esame mentre la donna la osservava. Tuttavia nello sguardo di Mary c’era un’evidente nota di dolcezza e il modo in cui tutti l’avevano guardata o le avevano rivolto la parola – Sherlock incluso – lasciavano perfettamente intuire che i sentimenti che si potevano provare verso quella donna era solo positivi. Quel primo sguardo che le due si scambiarono fu benaugurante per entrambe e diede loro modo di avere una buona impressione di chi avevano di fronte.

«Tu devi essere Emily. John mi ha parlato di te» disse infine Mary, avvicinandosi verso la ragazza con la mano tesa.

«Piacere di conoscerla signora Watson» rispose l’altra, sorridendo e stringendole la mano.

«Oh, ti prego, Mary. Chiamarmi “signora” mi fa sentire tremendamente vecchia.»

«D’accordo, Mary. Lei è la piccola, quindi. Cielo, guarda che piedini.»

Sherlock staccò solo in quel momento gli occhi da Emily, un leggero sorriso a solcargli il volto. Tornò a concentrarsi sulla sua ricerca mentre Mrs. Hudson offriva a Mary il tè appena fatto da Emily e quest’ultima era accanto a John a coccolare la bambina.

«Allora, Sherlock, si può sapere in cosa sei invischiato adesso?» chiese infine la signora Watson, mescolando il suo tè.

«Tuo marito non ti ha detto niente? Sorprendente» replicò il detective.

«Ha accennato qualcosa sull’omicidio del giudice Walker, ma ammetto che avevo altro a cui pensare.»

«Capisco» disse semplicemente. Inspirò un po’ d’aria e si voltò verso il suo blogger. «Beh, cosa ne dici di raccontarle bene le cose, allora?» gli chiese, un sopracciglio alzato.

John annuì e cominciò a raccontare tutto alla moglie, mentre Sherlock riprendeva a lavorare al pc. John non omise nulla, né su quello che era accaduto all’obitorio, né su quella stessa mattina. La cosa permise a Emily di intuire che, con molta probabilità, Mary era molto più che una moglie che comprendeva il lavoro del marito a contatto con Sherlock. Così come le permise di capire che per il detective lei era una persona fidata, una di quelle che non necessitavano di essere tenute all’oscuro nemmeno del più misero dettaglio.

Quando John ebbe finito di raccontare tutto, Mary aveva appena ultimato il tè. Non disse nulla finché non venne incalzata dal marito. A quel punto arricciò le labbra e si voltò verso il detective. «Penso che la pista di Sherlock sia quella giusta da seguire» sentenziò.

John fece per dire qualcosa, ma lei lo bloccò con un gesto. «Saltare a conclusioni affrettate può essere un grave errore, John. Non pensi che prima sia meglio accertarsi che nessuno dei vivi abbia ucciso Walker e, solo in un secondo momento, andare a vedere se la colpa è di un cadavere?» domandò, riferendosi chiaramente a Moriarty.

L’uomo replicò, ricordando alla moglie che Moriarty era comunque sufficientemente intelligente per rendere credibile perfino per Sherlock Holmes la sua ipotetica morte, eppure nessuno gli diede corda. Il fatto che la nemesi di Sherlock si fosse sparata in testa proprio sotto agli occhi inorriditi del detective giocava totalmente a favore di quest’ultimo.

Il medico non insistette più del dovuto, si arrese e si sedette sul divano, proprio mentre Mary si alzava dalla poltrona.

«Beh, avrai modo di rimanere aggiornato su tutta questa faccenda» disse lei, prendendo la figlia dalle braccia di John.

Sentendo quelle parole Sherlock si voltò verso di lei. Mary rispose al suo sguardo.

«Scusami, Sherlock. Ma la domenica mattina io e John siamo soliti andare a spasso insieme alla bambina. Non ti disturba, vero, se me lo porto via per qualche ora? In fin dei conti hai la tua nuova assistente che può aiutarti nella tua ricerca» disse poi, facendogli l’occhiolino.

Sherlock ed Emily si dipinsero in volto la stessa espressione stupita.

«Assistente?» dissero all’unisono.

Mary sorrise vedendo le loro facce e lo prese come il giusto via libera per andare. Invitò il marito a vestirsi, lanciò un bacio in direzione dei due inquilini di Baker Street e, appena John fu pronto, uscì dalla casa insieme al medico, alla bambina e alla signora Hudson, la quale si richiuse la porta alle spalle.

Emily rimase a osservare la porta dell’appartamento, in silenzio, le braccia conserte e la mente che lavorava in cerca di quanti più possibili segnali nascosti in ciò che era appena successo.

«Non fraintendere» le disse Sherlock di punto in bianco.

Emily si voltò. L’uomo la stava guardando, serio, i limpidi occhi celesti a scavarla nel profondo. I suoi occhi azzurri – più scuri di quelli di Sherlock – risposero allo sguardo, dopodiché lei si strinse nelle spalle. Era indubbio che quella casa le piacesse, che essere coinquilina del famigerato detective Holmes la eccitasse, tuttavia quei primi tre giorni le avevano anche fatto capire che da lì in avanti molte cose le avrebbe dovute scoprire da sola. Mezze parole, frasi all’apparenza senza senso parevano essere all’ordine del giorno al 221B. Eppure le importò poco.

«Non so neanche cosa dovrei fraintendere» fece infine notare a Sherlock.

Lui continuò a guardarla. Emily non poté fare a meno di sentirsi leggermente a disagio davanti a lui in quel momento. C’era una tale intensità nel suo sguardo che metteva quasi i brividi.

«Non ti ho accettata come coinquilina perché mi serviva un’assistente» disse lui, continuando a guardarla.

«No, lo so. Lo hai fatto perché avevi bisogno di una mano per le spese. Ciò non significa che non mi stia bene, tranquillo. Sono pur sempre dove volevo essere» replicò lei, calma.

Sherlock rimase a studiarla ancora, in silenzio. Emily resistette e analizzò quello sguardo per un po’, tuttavia alla fine non fu più in grado di reggere oltre.

«Ti aiuto con la tua ricerca» gli disse infine.

Il detective parve ridestarsi a quelle parole. La seguì con gli occhi mentre prendeva posto alla scrivania di fronte a lui, al proprio pc su cui, fino a pochi minuti prima, stava lavorando John. Oltre il computer, Emily lo guardò.

«Dimmi qualche nome» lo invitò la ragazza, le dita già pronte sui tasti.

 

*

 

Intorno all’una di pomeriggio dello stesso giorno le ricerche di Sherlock ed Emily erano ultimate. I due avevano raccolto quante più informazioni possibili sulle sette persone che, per merito di Sherlock, erano finite sul banco degli indagati prima e dietro le sbarre dopo a causa del giudice Walker. Secondo le teorie del detective quasi certamente l’omicida del giudice si trovava fra uno di quei nomi o in qualcuno a loro vicino.

Entrambi gli inquilini del 221B di Baker Street stavano pensando reciprocamente a chi potesse essere il maggior indiziato sulla base degli elementi raccolti.

Sherlock era concentrato, sovrappensiero; faceva avanti e indietro per il soggiorno suonando il violino, lo sguardo fisso sempre oltre ciò che aveva davanti.

Emily, invece, era sdraiata sul divano a pancia in su, le mani intrecciate in grembo, le gambe distese, i capelli rossi sparsi sul cuscino. Ragionava anche lei su quello che aveva raccolto, indecisa se esporre o meno al detective la propria opinione. Da qualche minuto lo stomaco le brontolava per la fame, ma l’idea di uscire di casa per andare in cerca di cibo non l’aveva ancora minimamente sfiorata. Ogni tanto lanciava qualche occhiata in direzione di Sherlock e si fermava a guardarlo per brevi attimi suonare. Le era sempre piaciuto il suono del violino e il modo in cui il detective lo suonava, seppur concentrato su altro, rendeva quel momento unico. Guardandolo si fermò a contemplarne i dettagli, ciò che aveva deciso di tenere sempre sotto controllo a contatto con l’uomo. Sherlock era in maniche di camicia, aveva arrotolato la stoffa fino ai gomiti con precisione millimetrica. Le dita della mano destra erano avvolte con delicata sicurezza intorno all’archetto, mentre quelle della mano sinistra si muovevano con rapida abilità sulle corde del violino. Emily stava osservando il modo in cui i tendini si tiravano per dare il compito di formare le note quando Sherlock si fermò. Fece stridere il suo ultimo sol, come se lo avesse appena ucciso, dopodiché si voltò rapido verso la ragazza.

La guardò, risoluto, indicandola con l’archetto del violino. «Secondo te chi può essere stato?» le chiese.

Emily fu presa alla sprovvista da quella domanda. Guardò il detective sorpresa, mettendosi a sedere.

«Vuoi davvero la mia opinione?» gli chiese, più lusingata che perplessa.

Sherlock incurvò appena l’angolo sinistro della bocca. «Sì, te l’ho appena chiesta. Vedi, mi piace sapere bene con chi ho a che fare e, soprattutto, vedere se è capace o meno di fare un ragionamento che possa essere definito tale.»

Le diede le spalle. «Hai studiato criminologia dopotutto e la South Wales Police ha espressamente domandato di te solo a poche settimane dalla tua laurea, perciò non dovresti sorprenderti se ora chiedo la tua opinione.»

«Beh, mi sorprende perché ero convinta che Sherlock Holmes fosse sempre piuttosto certo delle sue deduzioni» si motivò lei con tranquillità.

Il detective si voltò, lo stesso mezzo sorriso ancora sul volto. «Ti sto solo mettendo alla prova, Emi. Dimostrami che ciò che immagino tu sia è corretto» disse, fattosi improvvisamente serio.

Emily fu attraversata da un brivido a quelle parole; lo ignorò completamente, ma distolse ugualmente lo sguardo dagli occhi tanto chiari quanto intensi dell’uomo.

«Io sono propensa a pensare che chiunque ha ucciso il giudice Walker c’entri con Darrell Scott.»

«Perché?» la domanda uscì impassibile dalle labbra dell’uomo.

«Perché è l’unico a essere morto» replicò lei.

Notò il lieve movimento di sopracciglio di Sherlock e dedusse di aver fatto centro – o, per lo meno, di essere andata sufficientemente vicina a dare la risposta che si aspettava. Decise di non attendere che fosse lui a invitarla ad andare avanti. «Insomma, fra i sette che sono finiti in prigione per colpa di Walker lui è l’unico a essersi ucciso. La cosa mi lascia pensare che qualcuno a lui vicino, come la compagna o possibili figli, possano volerlo vendicare facendo fuori chi lo ha fatto rinchiudere, vale a dire il giudice, che lo ha fatto finire dentro e..»

«E me» concluse Sherlock per lei. Subito dopo fece un rapido movimento con l’archetto, annuendo con la testa. «Ottimo, i miei complimenti.»

«Era semplice» gli fece notare Emily.

Sherlock posò lo strumento musicale e la guardò. «Il fatto che per noi sia semplice non significa che lo sia per altri. Non dare mai le tue capacità per scontate.»

Lei lo fissò, perplessa. Non aveva capito bene se Sherlock le aveva appena fatto un complimento o l’aveva rimproverata, a ogni modo la cosa era stimolante.

«Quindi anche tu sei dell’idea di cominciare da Scott?» domandò infine la ragazza, seguendo con gli occhi il detective, che aveva cominciato a muoversi nella stanza in cerca di qualcosa.

«Naturalmente» rispose secco lui. «Lo hai detto tu, era una deduzione semplice da fare. So anche dove posso andare» disse poi. Scostò la tenda della finestra e guardò fuori, su Londra. Oltre i vetri, sulla città, nubi scure stavano scaricando grosse masse d’acqua. Il ticchettio delle gocce accompagnò i secondi di silenzio che si formarono fra i due. Sherlock guardò Emily di sottecchi; la ragazza era distratta, guardava il soffitto, sovrappensiero. L’uomo impiegò qualche altro secondo a decidere che cosa fare. Alla fine optò per portarla con sé. Non si trattava della tesi che lei stava scrivendo, ma del motivo principale che l’aveva spinto ad accettarla al 221B nonostante lei avesse contatti con Mycroft. Emily lo incuriosiva, notevolmente. Nei modi di fare tranquilli e rilassati della ragazza c’era sempre molta attenzione e la sua mente, quella, indubbiamente lavorava a pieno regime, proprio come la sua.

«Fuori piove parecchio, Emi. Faresti meglio a prendere l’ombrello» le disse infine, tornando a sistemare le tende e voltandosi verso di lei.

«Aspetta, cosa?» chiese la ragazza, sorpresa.

«Ho detto che fuori piove. Andiamo a fare un po’ di ricerca sul campo per vedere se la nostra idea è corretta, che ne dici?»

«Posso venire?»

Era davvero stupita dall’invito che aveva appena ricevuto. Di certo non aveva messo in conto di aiutare Sherlock anche nelle indagini sul campo, era sempre stata convinta che fosse John la sua spalla. A lei bastava poter raccogliere informazioni sul detective vivendo sotto il suo stesso tetto, ma addirittura accompagnarlo sul campo, quello era a dir poco pazzesco.

«Sì che puoi venire» rispose lui asciutto, come se non si spiegasse il quesito. «Ma vorrei che cominciassi a porre meno domande se ti fosse possibile. Delle volte sei irritante.»

Andò ad afferrare il cappotto e lo infilò, sempre sotto agli occhi di una stupita ed emozionata Emily.

«Non stare lì impalata, vestiti» la incalzò.

La ragazza si ridestò. Si alzò di gran fretta dal divano, si sistemò al meglio i vestiti, dopodiché andò a prendere il suo cappotto e lo mise rapidamente. Sherlock era già sulla porta.

«Muoviti, Emi, dobbiamo andare. Il gioco è iniziato» disse e si avviò lungo le scale.

 

 

 

 

 

Note:

1 Newport: ci tengo a fare una piccola precisazione. Nella serie tv, quando il video di Moriarty appare, dicono che si trovi su ogni schermo televisivo del Paese. Quando però Sherlock chiede a Mycroft chi ha bisogno di lui, questi gli risponde “L’Inghilterra”. Dato che per la Gran Bretagna Inghilterra e Galles sono come due nazioni a parte ho voluto circoscrivere il ritorno di Moriarty alla sola Inghilterra ed è per questo che Emily non sa nulla di quel video.

  
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