Quella
mattina John raggiunse il 221B di Baker Street intorno alle nove. Aveva spento
la sveglia e si era riaddormentato prima di trovare la forza di alzarsi dal
letto, cosa che lo aveva portato a essere in ritardo sulla sua tabella di
marcia immaginaria.
La
sua intenzione di raggiungere il suo ex appartamento era legata principalmente
al giorno precedente, a quello che era avvenuto nell’obitorio e a ciò che ne
era seguito. Dopo che Molly e Lestrade avevano informato i presenti di ciò che
era accaduto al giudice Walker ben poche cose erano rimaste tranquille.
Sherlock si era improvvisamente fatto serio, aveva raccolto quante più
informazioni possibili e si era allontanato da solo, prendendo un taxi e
dirigendosi da qualche parte, probabilmente con l’intenzione di rinchiudersi
nel proprio Palazzo mentale il più a lungo possibile. John aveva quindi
riaccompagnato a casa Emily – anche lei fattasi improvvisamente seria – solo
per appurare che Sherlock non era rientrato nel proprio appartamento. Quando
aveva lasciato il 221B due ore più tardi dell’amico non c’era ancora traccia.
Non era rimasto sorpreso da quell’atteggiamento, conosceva Sherlock, tuttavia
sapeva anche bene che le lunghe assenze dell’uomo erano legate a qualcosa in
grado di tenere impegnata la sua mente e non sempre si trattava di un bene. In
quel caso, poi, non poteva di certo esserlo. Erano trascorsi mesi dall’ultimo
messaggio di Moriarty, dal video che aveva costretto Sherlock a fare ritorno a
Londra meno di cinque minuti dopo il suo esilio, e l’omicidio di Walker poteva
essere ben più serio e importante di quanto già non fosse.
John
superò in fretta la porta d’ingresso, urlò un rapido saluto a Mrs. Hudson,
dopodiché salì di corsa le scale ed entrò nel soggiorno di Sherlock. Trovò il
detective fermo, seduto sulla sua poltrona, le gambe accavallate, le mani
congiunte davanti alle labbra, gli occhi celesti fissi in un punto imprecisato;
non spostò neanche lo sguardo quando sentì John e continuò a rimanere
impassibile anche dopo. Il medico individuò Emily nella stanza, seduta sul
divano con il portatile in grembo, intenta a scrivere qualcosa. Lei salutò
l’ultimo arrivato con la mano, sorridendo. John le si avvicinò, sempre fissando
Sherlock.
«È
così da questa mattina» volle informarlo Emily, guardando il detective. «Quando
mi sono svegliata era lì. Gli ho preparato del tè, del caffè, non ha preso
niente.»
«È
nel suo Palazzo mentale» le rispose John. «Quando avrai imparato a conoscerlo
meglio questo suo atteggiamento non ti sorprenderà più. Piuttosto è strano che
ti consenta di rimanere nella sua stessa stanza» osservò infine, incuriosito.
«Non
gli ho parlato molto, l’ho solo guardato» precisò lei osservando Sherlock con
rinnovato interesse. Il Palazzo mentale? Poteva essere ottimo materiale per il
suo lavoro.
John
acconsentì, perplesso. Trovava Emily sempre più curiosa. Ciò che lo sorprendeva
di più era il fatto che la ragazza non pareva mai stupita o infastidita dagli
atteggiamenti di Sherlock. Viveva sotto il suo stesso tetto da tre giorni,
eppure sembrava già essere completamente assuefatta alle cose che rendevano
Sherlock Holmes, Sherlock Holmes. Sotto molti punti di vista Emily si stava dimostrando
una persona unica – forse addirittura preziosa.
Accanto
a lui la ragazza chiuse il portatile, si voltò verso il medico e chiese: «John
posso parlarti un momento?»
«Sì,
certo» rispose lui.
«Non
qui, però. Possiamo andare in camera mia.»
Si
avviò al piano di sopra seguita dal medico. Lo introdusse in quella che per
tanto tempo era stata la sua stanza e John poté osservare quanto fosse
cambiata. Gli abiti, gli oggetti, la disposizione del mobilio, perfino la luce
erano diversi.
«È
così diversa da come la ricordavo» si lasciò sfuggire l’uomo, sorridendo.
«Devo
ancora finire di sistemarla, ma c’è tempo» rispose lei, strofinandosi le mani
sulle cosce, come imbarazzata. Guardò un momento il medico, dopodiché abbassò
il tono di voce: «Tu sai cosa prende a Sherlock meglio di me, vero?» domandò
dopo aver chiuso la porta della stanza.
«È
più complicato di quanto si possa pensare» le disse lui, pensando si riferisse
al Palazzo mentale del detective.
«Credimi,
so cos’è successo fra lui e Moriarty, lo so molto bene. Ma qui non si tratta di
lui, o sbaglio?»
John
si bloccò a quelle parole. Prese tempo alla ricerca della cosa giusta dire e,
soprattutto, su quanto poter dire.
«Emi
è… è complicato.»
«E
non posso saperlo, immagino.»
«Tu
non sai cos’è successo dopo Magnussen. Dopo quello
che ha fatto Sherlock.»
«So
che potrebbe essere implicato nella sua morte» gli rivelò la ragazza, calma.
Nuovamente
John si zittì, guardando a lungo Emily. Non gli importava sapere di come avesse
fatto quella giovane a scoprire la verità, tuttavia una buona parte di lui si
chiedeva che cosa avrebbe potuto rivelarle. Era pur sempre una sconosciuta, una
ragazza giovane di cui lui sapeva pressappoco nulla. Tuttavia gli tornarono in
mente le parole di Sherlock “È giovane, certo, ma molto intelligente e capace”;
se il detective, che era in grado di conoscere chiunque anche solo
trascorrendovi accanto cinque minuti, si fidava di lei al punto di prenderla
nella proprio casa, perché lui non avrebbe dovuto? In fin dei conti l’ultimo
con cui Sherlock aveva condiviso l’appartamento era stato lui e sapeva
benissimo com’erano finite le cose: per quanto assurda la loro amicizia era
innegabile.
«Ok,
va bene, vuoi sapere come sono andate le cose? Ti accontento. In fin dei conti
lui ha accettato di averti in giro per casa quindi immagino che un po’ di dietro
le quinte sia giusto fartelo avere.»
Respirò
a fondo prima di riprendere a parlare, sperando con tutto se stesso di non
essere in procinto di complicare le cose. «Dopo ciò che è accaduto fra Sherlock
e Magnusses, Mycroft ha pensato fosse una buona idea allontanarlo
per un po’ da Londra. Lo avrebbe spedito nell’est Europa per qualche mese, poi
chissà.»
Fece
un’altra pausa, preparandosi a vuotare definitivamente il sacco: «Fatto sta che
poco dopo la partenza di Sherlock è arrivato un messaggio, da Jim Moriarty.»
«Un
messaggio da Moriarty?»
«Non
lo hai visto? Era su ogni singolo schermo televisivo in tutto il Paese» le
chiese sorpreso.
«Io
ero a Newport1, impossibile che lo abbia visto.»
«Beh,
il messaggio era chiaramente rivolto a Sherlock, per questo lui è tornato
indietro, per cercare di capire cosa potesse significare. Tuttavia per mesi non
ci sono stati altri segnali. Sherlock ha provato a cercarli ma non c’è stato
niente, nessun movimento. Fino a ieri. Quel delitto, l’omicidio di Walker, non
può essere una coincidenza.»
«John,
questo non è possibile. Moriarty è morto» disse lei, fermamente convinta.
«Anche
Sherlock lo era, eppure ora è di sotto in soggiorno» cercò di farla ragionare
lui.
«Ma
Moriarty si è sparato in testa. Ho letto il tuo blog, ho letto i giornali, so
cosa è successo. Ho studiato la cosa a sufficienza per mesi.»
«E
come puoi spiegare quello che è successo a Walker, allora?»
«Moriarty
è morto. Emily ha ragione» intervenne Sherlock, comparso improvvisamente sulla
soglia della porta. Sia Emily che John sussultarono al suono della sua voce:
nessuno dei due lo aveva sentito avvicinarsi.
«Chiunque
abbia ucciso Walker lo ha fatto a quel modo solo per richiamare Moriarty, ma non può essere stato lui» riprese a dire,
scandendo accuratamente le ultime sei parole.
«Perché
avrebbero dovuto farlo, allora?» chiese con enfasi John.
«Per
provocarmi, ovvio. O forse per cercare di spaventarmi in qualche modo. Non so
perché lo abbiano fatto, John, ma ho già elaborato qualche teoria.»
Detto
ciò fece dietro front e uscì dalla stanza, avviandosi lungo le scale per poter
tornare in soggiorno.
«Quando
avresti iniziato a formulare queste teorie?» gli urlò dietro il medico,
avviandosi seguito da Emily.
«Più
o meno un minuto dopo che Molly mi ha detto il modo in cui si erano garantiti
che Walker affogasse.»
«E
a che conclusioni sei arrivato?» domandò Emily, curiosa come mai.
«Devo
ancora affinare le mie ricerche, ma è chiaro che chiunque sia stato è legato
sia a me che a Walker. Ho lavorato in più occasioni su casi che sono poi finiti
a lui e lui si è sempre premurato di mettere in prigione ognuno di quegli
indagati. È possibile che chiunque lo abbia ucciso, lasciando a me quel sottile
messaggio, sia qualcuno di vicino a uno dei suddetti criminali.»
«Certo!»
esclamò Emily. «Semplice.»
«Eppure
così complesso» concluse per lei il detective. Si sistemò la giacca dell’abito e
protese una mano verso la coinquilina. «Prestami il tuo portatile, Emi, servirà
a John. Sarebbe grandioso se mettessi su anche un po’ di tè.»
Lei
eseguì subito, entusiasta. La ricerca del possibile indiziato era appena
cominciata e si trattava di un altro passo fondamentale per comprendere il più
possibile della mente di Sherlock Holmes. Adorava quella casa.
«Guarda
che Emily non è la tua cameriera» gli fece notare John, in piedi al centro del
soggiorno, gli occhi fissi su Sherlock, seduto alla scrivania. «E non penso
proprio che ti aiuterò questa mattina. Mary e la piccola stanno venendo qui a
prendermi.»
Sherlock
lo guardò, sollevò le sopracciglia, si esibì in un mezzo sorriso. «Mary
potrebbe aiutarci eccome, invece. È intelligente, ne capisce di queste cose.»
Si
concentrò poi sul computer, cominciando la sua ricerca. John lo fissò
indispettito per un lungo momento, dopodiché, sbuffando, si sedette di fronte a
Sherlock e avviò il portatile di Emily.
Appena
fu pronto, la ragazza servì il tè ai due uomini e si fermò in piedi alle spalle
del detective, a osservare ciò che stava cercando.
«Ricordi
tutti quelli che hai mandato a processo da Walker?» gli chiese.
«Sì»
rispose monosillabico l’uomo, bevendo un sorso del suo tè.
Per
lunghi minuti non disse più nulla nessuno. Nella stanza si sentivano solo le
dita dei due uomini battere sulle tastiere dei portatili in cerca di risposte e
informazioni, mentre Emily, accanto a loro, continuava a fissarli con vivo
interesse, concentrata.
Improvvisamente
qualcuno bussò alla porta.
«Cucù»
disse la signora Hudson, entrando nella stanza. Dietro di lei comparve Mary,
che teneva in braccio un fagottino avvolto di rosa.
«Si
può?» chiese la padrona di casa.
John
si alzò dalla sedia, andò a salutare Mary e diede un bacio sulla fronte al
contenuto del fagotto, sua figlia.
«È
veramente una meraviglia, caro» osservò Mrs. Hudson, riferendosi alla bambina.
«La
ringrazio.»
Mary
si avvicinò a Sherlock, gli diede un bacio sulla testa appena lo ebbe
raggiunto. «Troppo impegnato per salutarmi, eh?» lo rimproverò.
Lui
sollevò lo sguardo e le sorrise. «Come sta?» chiese, indicando con un cenno la
figlia, fra le braccia di John.
«Fin
troppo bene» rispose ridendo Mary, dopodiché si voltò verso Emily. La guardò
attentamente, mentre tutti i presenti assistevano alla scena. La ragazza si
sentì inevitabilmente sotto esame mentre la donna la osservava. Tuttavia nello
sguardo di Mary c’era un’evidente nota di dolcezza e il modo in cui tutti
l’avevano guardata o le avevano rivolto la parola – Sherlock incluso –
lasciavano perfettamente intuire che i sentimenti che si potevano provare verso
quella donna era solo positivi. Quel primo sguardo che le due si scambiarono fu
benaugurante per entrambe e diede loro modo di avere una buona impressione di
chi avevano di fronte.
«Tu
devi essere Emily. John mi ha parlato di te» disse infine Mary, avvicinandosi
verso la ragazza con la mano tesa.
«Piacere
di conoscerla signora Watson» rispose l’altra, sorridendo e stringendole la
mano.
«Oh,
ti prego, Mary. Chiamarmi “signora” mi fa sentire tremendamente vecchia.»
«D’accordo,
Mary. Lei è la piccola, quindi. Cielo, guarda che piedini.»
Sherlock
staccò solo in quel momento gli occhi da Emily, un leggero sorriso a solcargli
il volto. Tornò a concentrarsi sulla sua ricerca mentre Mrs. Hudson offriva a
Mary il tè appena fatto da Emily e quest’ultima era accanto a John a coccolare
la bambina.
«Allora,
Sherlock, si può sapere in cosa sei invischiato adesso?» chiese infine la
signora Watson, mescolando il suo tè.
«Tuo
marito non ti ha detto niente? Sorprendente» replicò il detective.
«Ha
accennato qualcosa sull’omicidio del giudice Walker, ma ammetto che avevo altro
a cui pensare.»
«Capisco»
disse semplicemente. Inspirò un po’ d’aria e si voltò verso il suo blogger.
«Beh, cosa ne dici di raccontarle bene le cose, allora?» gli chiese, un
sopracciglio alzato.
John
annuì e cominciò a raccontare tutto alla moglie, mentre Sherlock riprendeva a
lavorare al pc. John non omise nulla, né su quello che era accaduto
all’obitorio, né su quella stessa mattina. La cosa permise a Emily di intuire
che, con molta probabilità, Mary era molto più che una moglie che comprendeva
il lavoro del marito a contatto con Sherlock. Così come le permise di capire
che per il detective lei era una persona fidata, una di quelle che non
necessitavano di essere tenute all’oscuro nemmeno del più misero dettaglio.
Quando
John ebbe finito di raccontare tutto, Mary aveva appena ultimato il tè. Non
disse nulla finché non venne incalzata dal marito. A quel punto arricciò le
labbra e si voltò verso il detective. «Penso che la pista di Sherlock sia
quella giusta da seguire» sentenziò.
John
fece per dire qualcosa, ma lei lo bloccò con un gesto. «Saltare a conclusioni
affrettate può essere un grave errore, John. Non pensi che prima sia meglio
accertarsi che nessuno dei vivi abbia ucciso Walker e, solo in un secondo
momento, andare a vedere se la colpa è di un cadavere?» domandò, riferendosi
chiaramente a Moriarty.
L’uomo
replicò, ricordando alla moglie che Moriarty era comunque sufficientemente
intelligente per rendere credibile perfino per Sherlock Holmes la sua ipotetica
morte, eppure nessuno gli diede corda. Il fatto che la nemesi di Sherlock si
fosse sparata in testa proprio sotto agli occhi inorriditi del detective
giocava totalmente a favore di quest’ultimo.
Il
medico non insistette più del dovuto, si arrese e si sedette sul divano,
proprio mentre Mary si alzava dalla poltrona.
«Beh,
avrai modo di rimanere aggiornato su tutta questa faccenda» disse lei,
prendendo la figlia dalle braccia di John.
Sentendo
quelle parole Sherlock si voltò verso di lei. Mary rispose al suo sguardo.
«Scusami,
Sherlock. Ma la domenica mattina io e John siamo soliti andare a spasso insieme
alla bambina. Non ti disturba, vero, se me lo porto via per qualche ora? In fin
dei conti hai la tua nuova assistente che può aiutarti nella tua ricerca» disse
poi, facendogli l’occhiolino.
Sherlock
ed Emily si dipinsero in volto la stessa espressione stupita.
«Assistente?»
dissero all’unisono.
Mary
sorrise vedendo le loro facce e lo prese come il giusto via libera per andare.
Invitò il marito a vestirsi, lanciò un bacio in direzione dei due inquilini di
Baker Street e, appena John fu pronto, uscì dalla casa insieme al medico, alla
bambina e alla signora Hudson, la quale si richiuse la porta alle spalle.
Emily
rimase a osservare la porta dell’appartamento, in silenzio, le braccia conserte
e la mente che lavorava in cerca di quanti più possibili segnali nascosti in
ciò che era appena successo.
«Non
fraintendere» le disse Sherlock di punto in bianco.
Emily
si voltò. L’uomo la stava guardando, serio, i limpidi occhi celesti a scavarla
nel profondo. I suoi occhi azzurri – più scuri di quelli di Sherlock –
risposero allo sguardo, dopodiché lei si strinse nelle spalle. Era indubbio che
quella casa le piacesse, che essere coinquilina del famigerato detective Holmes
la eccitasse, tuttavia quei primi tre giorni le avevano anche fatto capire che
da lì in avanti molte cose le avrebbe dovute scoprire da sola. Mezze parole,
frasi all’apparenza senza senso parevano essere all’ordine del giorno al 221B. Eppure
le importò poco.
«Non
so neanche cosa dovrei fraintendere»
fece infine notare a Sherlock.
Lui
continuò a guardarla. Emily non poté fare a meno di sentirsi leggermente a
disagio davanti a lui in quel momento. C’era una tale intensità nel suo sguardo
che metteva quasi i brividi.
«Non
ti ho accettata come coinquilina perché mi serviva un’assistente» disse lui,
continuando a guardarla.
«No,
lo so. Lo hai fatto perché avevi bisogno di una mano per le spese. Ciò non
significa che non mi stia bene, tranquillo. Sono pur sempre dove volevo essere»
replicò lei, calma.
Sherlock
rimase a studiarla ancora, in silenzio. Emily resistette e analizzò quello
sguardo per un po’, tuttavia alla fine non fu più in grado di reggere oltre.
«Ti
aiuto con la tua ricerca» gli disse infine.
Il
detective parve ridestarsi a quelle parole. La seguì con gli occhi mentre
prendeva posto alla scrivania di fronte a lui, al proprio pc su cui, fino a
pochi minuti prima, stava lavorando John. Oltre il computer, Emily lo guardò.
«Dimmi
qualche nome» lo invitò la ragazza, le dita già pronte sui tasti.
*
Intorno
all’una di pomeriggio dello stesso giorno le ricerche di Sherlock ed Emily
erano ultimate. I due avevano raccolto quante più informazioni possibili sulle
sette persone che, per merito di Sherlock, erano finite sul banco degli indagati
prima e dietro le sbarre dopo a causa del giudice Walker. Secondo le teorie del
detective quasi certamente l’omicida del giudice si trovava fra uno di quei
nomi o in qualcuno a loro vicino.
Entrambi
gli inquilini del 221B di Baker Street stavano pensando reciprocamente a chi
potesse essere il maggior indiziato sulla base degli elementi raccolti.
Sherlock
era concentrato, sovrappensiero; faceva avanti e indietro per il soggiorno
suonando il violino, lo sguardo fisso sempre oltre ciò che aveva davanti.
Emily,
invece, era sdraiata sul divano a pancia in su, le mani intrecciate in grembo,
le gambe distese, i capelli rossi sparsi sul cuscino. Ragionava anche lei su
quello che aveva raccolto, indecisa se esporre o meno al detective la propria
opinione. Da qualche minuto lo stomaco le brontolava per la fame, ma l’idea di
uscire di casa per andare in cerca di cibo non l’aveva ancora minimamente
sfiorata. Ogni tanto lanciava qualche occhiata in direzione di Sherlock e si
fermava a guardarlo per brevi attimi suonare. Le era sempre piaciuto il suono
del violino e il modo in cui il detective lo suonava, seppur concentrato su
altro, rendeva quel momento unico. Guardandolo si fermò a contemplarne i
dettagli, ciò che aveva deciso di tenere sempre sotto controllo a contatto con
l’uomo. Sherlock era in maniche di camicia, aveva arrotolato la stoffa fino ai
gomiti con precisione millimetrica. Le dita della mano destra erano avvolte con
delicata sicurezza intorno all’archetto, mentre quelle della mano sinistra si
muovevano con rapida abilità sulle corde del violino. Emily stava osservando il
modo in cui i tendini si tiravano per dare il compito di formare le note quando
Sherlock si fermò. Fece stridere il suo ultimo sol, come se lo avesse appena
ucciso, dopodiché si voltò rapido verso la ragazza.
La
guardò, risoluto, indicandola con l’archetto del violino. «Secondo te chi può
essere stato?» le chiese.
Emily
fu presa alla sprovvista da quella domanda. Guardò il detective sorpresa, mettendosi
a sedere.
«Vuoi
davvero la mia opinione?» gli chiese, più lusingata che perplessa.
Sherlock
incurvò appena l’angolo sinistro della bocca. «Sì, te l’ho appena chiesta.
Vedi, mi piace sapere bene con chi ho a che fare e, soprattutto, vedere se è
capace o meno di fare un ragionamento che possa essere definito tale.»
Le
diede le spalle. «Hai studiato criminologia dopotutto e la South Wales Police ha
espressamente domandato di te solo a poche settimane dalla tua laurea, perciò
non dovresti sorprenderti se ora chiedo la tua opinione.»
«Beh,
mi sorprende perché ero convinta che Sherlock Holmes fosse sempre piuttosto
certo delle sue deduzioni» si motivò lei con tranquillità.
Il
detective si voltò, lo stesso mezzo sorriso ancora sul volto. «Ti sto solo
mettendo alla prova, Emi. Dimostrami che ciò che immagino tu sia è corretto»
disse, fattosi improvvisamente serio.
Emily
fu attraversata da un brivido a quelle parole; lo ignorò completamente, ma
distolse ugualmente lo sguardo dagli occhi tanto chiari quanto intensi
dell’uomo.
«Io
sono propensa a pensare che chiunque ha ucciso il giudice Walker c’entri con Darrell Scott.»
«Perché?»
la domanda uscì impassibile dalle labbra dell’uomo.
«Perché
è l’unico a essere morto» replicò lei.
Notò
il lieve movimento di sopracciglio di Sherlock e dedusse di aver fatto centro –
o, per lo meno, di essere andata sufficientemente vicina a dare la risposta che
si aspettava. Decise di non attendere che fosse lui a invitarla ad andare
avanti. «Insomma, fra i sette che sono finiti in prigione per colpa di Walker
lui è l’unico a essersi ucciso. La cosa mi lascia pensare che qualcuno a lui
vicino, come la compagna o possibili figli, possano volerlo vendicare facendo
fuori chi lo ha fatto rinchiudere, vale a dire il giudice, che lo ha fatto
finire dentro e..»
«E
me» concluse Sherlock per lei. Subito dopo fece un rapido movimento con
l’archetto, annuendo con la testa. «Ottimo, i miei complimenti.»
«Era
semplice» gli fece notare Emily.
Sherlock
posò lo strumento musicale e la guardò. «Il fatto che per noi sia semplice non
significa che lo sia per altri. Non dare mai le tue capacità per scontate.»
Lei
lo fissò, perplessa. Non aveva capito bene se Sherlock le aveva appena fatto un
complimento o l’aveva rimproverata, a ogni modo la cosa era stimolante.
«Quindi
anche tu sei dell’idea di cominciare da Scott?» domandò infine la ragazza,
seguendo con gli occhi il detective, che aveva cominciato a muoversi nella
stanza in cerca di qualcosa.
«Naturalmente»
rispose secco lui. «Lo hai detto tu, era una deduzione semplice da fare. So
anche dove posso andare» disse poi. Scostò la tenda della finestra e guardò
fuori, su Londra. Oltre i vetri, sulla città, nubi scure stavano scaricando
grosse masse d’acqua. Il ticchettio delle gocce accompagnò i secondi di
silenzio che si formarono fra i due. Sherlock guardò Emily di sottecchi; la
ragazza era distratta, guardava il soffitto, sovrappensiero. L’uomo impiegò
qualche altro secondo a decidere che cosa fare. Alla fine optò per portarla con
sé. Non si trattava della tesi che lei stava scrivendo, ma del motivo
principale che l’aveva spinto ad accettarla al 221B nonostante lei avesse
contatti con Mycroft. Emily lo incuriosiva, notevolmente. Nei modi di fare
tranquilli e rilassati della ragazza c’era sempre molta attenzione e la sua
mente, quella, indubbiamente lavorava a pieno regime, proprio come la sua.
«Fuori
piove parecchio, Emi. Faresti meglio a prendere l’ombrello» le disse infine,
tornando a sistemare le tende e voltandosi verso di lei.
«Aspetta,
cosa?» chiese la ragazza, sorpresa.
«Ho
detto che fuori piove. Andiamo a fare un po’ di ricerca sul campo per vedere se
la nostra idea è corretta, che ne dici?»
«Posso
venire?»
Era
davvero stupita dall’invito che aveva appena ricevuto. Di certo non aveva messo
in conto di aiutare Sherlock anche nelle indagini sul campo, era sempre stata
convinta che fosse John la sua spalla. A lei bastava poter raccogliere
informazioni sul detective vivendo sotto il suo stesso tetto, ma addirittura
accompagnarlo sul campo, quello era a dir poco pazzesco.
«Sì
che puoi venire» rispose lui asciutto, come se non si spiegasse il quesito. «Ma
vorrei che cominciassi a porre meno domande se ti fosse possibile. Delle volte
sei irritante.»
Andò
ad afferrare il cappotto e lo infilò, sempre sotto agli occhi di una stupita ed
emozionata Emily.
«Non
stare lì impalata, vestiti» la incalzò.
La
ragazza si ridestò. Si alzò di gran fretta dal divano, si sistemò al meglio i
vestiti, dopodiché andò a prendere il suo cappotto e lo mise rapidamente.
Sherlock era già sulla porta.
«Muoviti,
Emi, dobbiamo andare. Il gioco è iniziato» disse e si avviò lungo le scale.
Note:
1
Newport: ci tengo a fare una piccola
precisazione. Nella serie tv, quando il video di Moriarty appare, dicono che si
trovi su ogni schermo televisivo del Paese. Quando però Sherlock chiede a
Mycroft chi ha bisogno di lui, questi gli risponde “L’Inghilterra”. Dato che
per la Gran Bretagna Inghilterra e Galles sono come due nazioni a parte ho
voluto circoscrivere il ritorno di Moriarty alla sola Inghilterra ed è per
questo che Emily non sa nulla di quel video.