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Autore: Adeia Di Elferas    12/01/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Dov'eri?” chiese Giacomo, guardando con la coda dell'occhio la moglie che, entrando assieme a qualche fiocco leggero di neve, si stava già togliendo il mantello dalle spalle.

Era una serata molto buia e il freddo che ghermiva Forlì non aveva nulla da invidiare a quello degli inverni passati. Marzo camminava a grandi giornate, eppure ancora una volta la primavera si stava facendo aspettare.

Caterina non avrebbe voluto arrivare al Paradiso così tardi, ma si era trattenuta in città per un motivo più che valido.

“Sono stata da Bernardi.” disse solamente, andando verso il camino per scaldarsi un po' le mani.

Giacomo non parve soddisfatto da quella misera frase. Stringendosi nel vestaglione da camera foderato, il Barone si avvicinò alla donna e la guardò interrogativo.

In un primo momento la Contessa finse di non accorgersi di quell'atteggiamento, che reputava per altro molto fastidioso. Se suo marito voleva maggiori spiegazioni, perché non le chiedeva e basta?

Il Paradiso era tiepido e accogliente e Caterina desiderava solo andare sotto le coperte e lasciare i problemi del mondo fuori a gelare sotto la neve. Invece gli occhi scuri di Giacomo continuavano a fissarla e probabilmente non avrebbero smesso fino a che lei non avesse ceduto.

Così, con un soffio di irrequietezza, la donna si sistemò sulla poltrona di solito usata dal marito e disse: “Voleva parlarmi di alcune cose che aveva sentito dire appena fuori dalla sua bottega.”

“Che genere di cose?” chiese Giacomo, accovacciandosi accanto a Caterina.

La Contessa si sfregò le mani l'una nell'altra, per recuperare un po' di sensibilità. Nella barberia faceva davvero troppo freddo. Inoltre si era fermata dopo la chiusura e il Novacula aveva la discutibile abitudine di non rintuzzare più il fuoco dopo aver serrato i battenti per la notte.

Giacomo, irritato dal gesto ripetitivo compiuto dalla moglie nello sfregarsi le mani l'una contro l'altra, le prese tra le sue: “Te le scaldo io.” disse: “Allora? Che genere di cose ha sentito?”

Andrea Bernardi aveva riferito alla Contessa due diversi tipi di chiacchiere.

La prima era simile a quella che la stessa Caterina aveva sentito dalle sue spie, ovvero l'ipotesi che Alessandro VI si stesse muovendo per creare una Lega nuova e da lui diretta che scacciasse i francesi dall'Italia. Era una cosa molto importante e sarebbe stato fondamentale scoprire esattamente chi ne avrebbe fatto parte e chi no, ma non era stato quello l'argomento che più aveva scosso la Tigre.

A tenerla davvero alla barberia fino a quell'ora era stato il secondo pettegolezzo raccolto dal Novacula.

Il barbiere non era riuscito a capire se si trattasse di una semplice voce o se fosse qualcosa di più, ma aveva origliato certi forlivesi parlare di una mobilitazione di nobili decisi a rovesciare, anche con la forza, Giacomo Feo.

Caterina ne era rimasta subito molto colpita e aveva iniziato a pensare a come fare per tenere al sicuro il marito, ma quando Bernardi aveva aggiunto: “Da quel poco che ho udito, gli Orcioli e i Marcobelli sarebbero i capi della rivolta.”, allora la signora di Forlì si era convinta che fosse tutto inventato.

Gli Orcioli e i Marcobelli erano forse le famiglie a lei più fedeli, assieme ai Ghetti. L'avevano protetta e fiancheggiata anche durante la cacciata degli Orsi e non perdevano occasione per appoggiarla in ogni situazione, per quanto grave e spinosa. In nessun modo avrebbero mai potuto ledere lei o qualcuno a lei vicino, dunque era da escludere a priori che quel dettaglio fosse vero.

Però poteva essere che ci fosse qualcuno deciso a levare di torno Giacomo e in tal caso la Contessa voleva scoprirlo in fretta.

Sentendo il calore benefico delle mani di Giacomo sulle sue, la Tigre sospirò e riferì solo: “Il papa vuole fare una Lega tutta sua per mandar via re Carlo.”

Il Barone smise immediatamente di massaggiare le dita ancora un po' fredde della moglie e si irrigidì. Come se si fosse improvvisamente scottato, si rimise dritto in piedi e assunse un'espressione molto contrariata.

“Se riuscisse a unire davvero tutti gli Stati italiani, i francesi non avrebbero scampo. Non riuscirebbero mai più a tornare a casa loro, morirebbero tutti qui.” disse Caterina, dando poco peso alla reazione del marito.

L'uomo prese a misurare a lunghi passi la stanza e alla fine chiese: “E tu ti uniresti a questa Lega?”

Avvertendo la nota di nervosismo nelle parole di Giacomo, la Contessa si fece cauta e, ricominciando a sfregare i palmi delle mani l'uno contro l'altro, buttò lì: “Se tutti quanti lo facessero, non farlo sarebbe un suicidio.”

Il Barone non accennava a calmarsi e così Caterina, che pure non aveva voglia di mettersi a rassicurarlo, si alzò e lo intercettò, bloccando il suo andirivieni.

Gli occhi castani di Giacomo si specchiarono in quelli verdi della moglie. La luce fioca delle candele e del camino danzava su di loro, riempiendoli di ombre e chiaroscuri.

Senza riuscire a tenere a freno la lingua, l'uomo sbottò: “Re Carlo mi ha dato un titolo! La mia fortuna dipende da lui e tu vuoi dargli contro!”

Quelle affermazioni risultarono indigeste alla Contessa, che finalmente cedette alla tensione a cui si sentiva sottoposta da troppo tempo: “La tua fortuna dipende da me, non da quel francese!”

Giacomo deglutì, indietreggiando un po'. Non era sua intenzione accendere la suscettibilità della moglie, ma non era riuscito a trattenersi. Aveva parlato a sproposito, come sempre.

“Tra te e Ottaviano non fate altro che darmi problemi!” si sfogò Caterina, sentendosi stanca e abbattuta, ma altrettanto rabbiosa: “Tu sei mio marito e lui è mio figlio! Dovreste essere i miei pilastri, il mio appoggio più importante, e invece mi siete sempre e solo d'intralcio!”

Sull'ultima parola la voce della Contessa si incrinò tanto che per una frazione di secondo Giacomo fu certo che fosse sull'orlo delle lacrime.

Gli occhi della donna, però, rimasero asciutti, anche se il suo viso tradiva tutta la sua solitudine.

Nonostante tutto, il Barone non voleva vederla così. Per nessun motivo avrebbe permesso a sua moglie di essere tanto sconfitta e triste. Se non era in grado di sostenerla come lei si aspettava, almeno le avrebbe offerto quel poco che poteva darle.

Ignorando le piccole proteste che la Tigre bisbigliò cercando di ritrarsi, Giacomo allargò le forti braccia e la strinse a sé, con un nodo alla gola e la paura di perderla che si rifaceva strada tra tutti gli altri sentimenti che lo agitavano.

La donna accettò l'abbraccio e cercò di apprezzarlo, perché sapeva che il marito non sapeva fare più di tanto e non poteva sperare di cambiarlo.

Malgrado lo trovasse manchevole sotto una miriade di aspetti, Caterina sentì prepotente e tremenda la paura di perderlo, alimentata dal tarlo che Bernardi le aveva messo nell'orecchio.

Come a voler dimostrare al destino ancora una volta che Giacomo era il suo uomo e che niente e nessuno avrebbero potuto portarglielo via, la Contessa ricambiò finalmente la stretta del marito e sussurrò: “Qualunque cosa accada, mi basta stare con te.”

 

Napoli parlava francese in quei giorni. Il clima era più mite che nel resto d'Italia e i soldati di re Carlo VIII si stavano perdendo tra i piaceri della baia partenopea.

La distensione apparente mostrata dal re stava inducendo i nobili napoletani a pensare che il nuovo sovrano non fosse, in fondo, peggiore del vecchio. In pochi erano a conoscenza dei piani vanagloriosi di Carlo VIII, che ancora ascoltava le parole sussurrate al suo orecchio dal Duca d'Orléans.

Se quella sosta a Napoli era dettata in parte dalle manie di protagonismo del francese, che voleva godersi il successo, in parte era anche dovuta alla necessità di fare con calma il punto della situazione.

Con pochi passi si sarebbe potuto arrivare a un traguardo ancor più mirabile rispetto a quello che ci si era prefissati all'inizio. Non solo il regno di Napoli, infatti, sarebbe divenuto proprietà francese, ma l'Italia tutta lo sarebbe stata. Una provincia gallica grande e prospera, un granaio quasi inesauribile, una fonte di decime e di soldati. Un polmone accessorio che avrebbe ridato alla Francia l'aria di cui aveva bisogno per diventare un impero.

Per organizzare quell'impresa, però, ci volevano molti ingredienti indispensabili. Prima di tutto era fondamentale che gli Stati italiani non ricordassero le loro origini comuni e continuassero a ostacolarsi a vicenda. Dopodiché bisognava sperare nel clima mite, nella disponibilità di nuove reclute sul territorio e di fortuna in battaglia.

La cosa più importante, comunque, restava la disunione degli italiani. Come dicevano gli antichi romani, l'unico modo realmente efficace per imporsi sulle popolazioni straniere era quello del divide et impera.

Quando arrivò Luigi d'Ars con due prigionieri di peso – Virginio e Niccolò Orsini – re Carlo diede a Don Giuliano di Ligny il compito di occuparsene.

Sui due romani era stata imposta una taglia di cinquantamila ducati l'uno e una parte del riscatto era stata pagata da Don Giuliano direttamente a Luigi. Anche se Prospero Colonna si era offerto di pagare il resto per poter disporre come preferiva dei due uomini, Ligny fu inflessibile e li tenne presso di sé, come sorvegliati speciali.

Non aveva nulla di personale contro di loro, anzi, era convinto che potessero passare dal lato francese con grande guadagno per le forze d'Oltralpe, ma non poteva fidarsi a lasciarli liberi. Li mise sotto stretta sorveglianza, guardati a vista giorno e notte.

Le voci che volevano vicina una Lega che riunisse sotto un'unica bandiera tutta l'Italia erano troppo insistenti per essere infondate e Don Giuliano era convinto che la fuga di Cesare Borja mentre scendevano verso Napoli non fosse stata solo una casualità legata alla pavidità del Cardinale.

Anche Giuliano Della Rovere non ostentava più tutta la sicurezza di prima, quando parlava delle 'deboli e frammentarie difese dei principi italici' e al Ligny tanto bastava.

Re Carlo faceva orecchie da marcante, ma, secondo Don Giuliano, avrebbe fatto meglio a preoccuparsi di più di quelle voci e lasciar perdere la conquista della penisola, tornando in Francia fintanto che gli era possibile.

 

“Ma credete che glielo dovremmo dire, con lui?” chiese Bartolomeo Orcioli, indicando con un cenno discreto del capo la porta ancora chiusa della barberia del Novacula.

Gian Antonio Ghetti incrociò le braccia sul petto e disse: “Se volete davvero la certezza che la Contessa è d'accordo, allora sì. Lui è il suo amico più fidato, ormai lo hanno capito anche i sassi.”

“Infatti – fece eco con decisione Bernardino Ghetti – se ancora avete dei dubbi e non credete alle parole del Conte, vedrete che il Novacula ve lo spiega che è la Contessa che vuole liberarsi del suo mantenuto!”

Orcioli era titubante e non sapeva se dar retta ai due Ghetti o lasciar perdere e tirarsi indietro.

Il Conte Ottaviano Riario li stava convincendo sempre di più del fatto che non fosse più possibile attendere. Aveva fatto loro notare come il Barone Feo andasse in giro sempre più spesso con una scorta armata e come avesse quasi del tutto abbandonato il lavoro al fossato, lasciando che fosse la Contessa a sovrintendere il cantiere al suo posto. Quelle due novità assieme a tutto il resto stavano rendendo Giacomo Feo insopportabile anche a chi prima riusciva a ignorarlo.

A peggiorare ulteriormente la situazione c'era stato l'annuncio della prossima partenza del Governatore Tommaso Feo, che sarebbe tornato a Imola a breve, lasciando il suo posto al fratello.

In quel modo Giacomo Feo sarebbe stato Governatore di Forlì, oltre che capo figurativo delle truppe, Barone, cavaliere e un sacco di titoli che ormai i forlivesi non ricordavano nemmeno più.

Ottaviano aveva invocato l'aiuto di alcuni nobili di Forlì particolarmente vicini alla madre, tra cui i Ghetti, gli Orcioli e i Marcobelli e aveva spiegato loro come la Contessa temesse sempre di più il Feo, tanto da cedere a ogni sua richiesta.

“Si tratta pur sempre di una donna – aveva detto Ottaviano, una volta, mentre il conciliabolo dei suoi adepti ascoltava con grevità – non ha il coraggio necessario per liberarsene da sola e quindi invoca il vostro aiuto, a patto che non ne parliate mai con lei. Ha paura che il suo mantenuto senta qualcosa o sospetti che lei se ne voglia liberare e a quel punto non sarebbe più al sicuro.”

Bartolo Marcobelli vide Gian Antonio e Bernardino Ghetti parlare con l'Orcioli poco distanti dalla barberia del Novacula e così si avvicinò, salutando: “Signori...”

Quando notò le espressioni truci dei suoi amici, chiese: “Di che stavate parlando?”

“Il nostro Bartolomeo – rispose Bernardino – si chiede se sia il caso di chiedere conferma al Bernardi delle vere intenzioni di Sua Signoria.”

Bartolo fissò l'Orcioli con tanto d'occhi ed esclamò: “Ma siete pazzo?!”

I Ghetti e Bartolomeo saltarono sul posto alla voce tonante del Marcobelli, ma nessuno ne comprese lo scatto.

Così Bartolo riprese: “Dal Novacula ci va sempre anche il Governatore Tommaso Feo! Lo sanno tutti che sono grandi amici...! Se si va a chiedere al barbiere, anche se lui è fedele alla Contessa, finisce che prima o poi lo dice per paura anche al fratello del Barone e quello ci fa ammazzare tutti!”

Quella nuova visione della situazione fece ricredere subito tutti quanti, tanto che i due Ghetti cominciarono a borbottare tra loro su quanto fosse assurdo parlarne con Bernardi, benché fossero prima del tutto convinti della validità di quell'idea.

“La Contessa, messa alle strette, dirà di non saperne nulla e ci giustizierà.” concluse Bartolo, con sicurezza: “È una donna giusta e di valore, ma sapete che sa essere spietata se si tratta di salvare se stessa o il suo Stato.”

Mentre i quattro uomini rivalutavano la loro posizione, Andrea Bernardi aprì finalmente i battenti della sua barberia.

Vedendoli dall'altro lato della strada, intenti in una chiacchierata molto serrata, il Novacula osservò per qualche istante gli uomini, chiedendosi che avessero da dirsi tanto concitatamente.

Notando l'interesse del barbiere, Marcobelli si passò una mano sulla guancia. La trovò abbastanza ispida da poter scusare una rasatura e così fece cenno agli altri di seguirlo.

Arrivato a tiro d'orecchio di Bernardi, Bartolo esclamò: “Era ora che apriste bottega, Novacula! È da un pezzo che siamo qui fuori ad aspettare per farci sistemare la barba...”

 

Alfonso Este era arrivato a Milano con la guarnigione di cinquecento soldati affidatagli da suo padre Ercole per dare man forte al Duca Ludovico.

Il diciottenne vestiva un'armatura rifinita con oro e argento e la sua barba, da qualche tempo portata lunga, incorniciava il suo viso allungato come una cornice fa con un dipinto.

Beatrice riabbracciò con piacere il fratello, forse l'unico familiare verso cui non provasse troppo rancore, e gli mostrò i due figli, Massimiliano e Francesco.

Il Moro lascò che i due Este parlassero per quasi tutto il tempo, ma, nel pomeriggio, fu costretto a richiamare a sé Alfonso, per discutere di quello che si era deciso proprio quel giorno, il 31 marzo 1495.

“La nascita di questa Lega – spiegò il Duca, parlando a voce alta a beneficio di tutti i nobili e i comandanti riuniti al palazzo di Porta Giovia – segnerà la fine di re Carlo e del suo ignobile tentativo di sottometterci.”

Qualcuno tossicchiò e non furono poche le occhiate significative tra un membro e l'altro della riunione. Tutti quanti ricordavano bene come il Moro avesse fino al giorno prima osannato l'arrivo del re francese, quindi sentirlo parlare a quel modo aveva un'ironia tragica non da poco.

“Questa santa Lega – continuò Ludovico, incurante del clima che si era creato nel salone – è patrocinata dal papa in persona, dunque è Dio a chiederla, prima di tutto. Ogni nasce la santa Lega italica, sotto la protezione e il volere di papa Alessandro VI, Vicario del Signore e nostra guida nella vera cristianità!”

Calco, seduto accanto al suo padrone, alzò involontariamente lo sguardo verso Alfonso Este, che ricambiò con un'alzata di sopracciglia. Il Moro era disinvoltamente passato dal voler la deposizione di Alessandro VI, a vederlo come paladino della giustizia divina.

“Parliamo di numeri.” il tono dell'ambasciatore dell'Impero stridette con l'aria quasi mistica che Ludovico stava dando al suo discorso.

Chinando il capo davanti al rappresentante di Massimiliano d'Asburgo, il Moro si fece passare un foglio da Calco e lesse: “Il papato, Milano, Venezia, Ferrandino e i suoi fuoriusciti, Sua Signoria l'Imperatore, il regno d'Inghilterra, Ferrara – a quel punto la sua mano indicò Alfonso, che gonfiò il petto d'orgoglio – e Mantova, il cui Marchese Francesco Gonzaga farà a noi da guida militare.”

Un momento di meditabondo silenzio accolse l'elenco del Moro e alla fine fu l'ambasciatore di Venezia a parlare, con forte accento di laguna: “E si spera che voi riusciate a portar da noi anche la Romagna e le terre dei vostri parenti tutti.”

Il pensiero di Ludovico andò subito tanto a sua nipote Caterina, signora di Imola e Forlì, quanto a Giovanni Sforza, signore di Pesaro. Ricordò come tra i due, così gli avevano detto le sue spie, c'erano stati degli attriti in passato per dei pedaggi o qualcosa del genere. Roba da niente, comunque. Erano tutti e due degli Sforza: messi alle strette, la voce del sangue avrebbe chiamato più forte d'ogni altra cosa.

E poi Caterina, una volta tolto di mezzo il suo mantenuto, sarebbe stata del tutto sconfitta e indifesa e allora al Moro non sarebbe rimasto che offrirsi come suo grande protettore, soffiandole lo Stato da sotto il naso.

Giovanni, invece, era il genero del papa e quindi non c'era nemmeno da rompersi la testa per pensarci.

“Certo, quelle alleanze sono ovvie.” fece Ludovico, sorridendo.

“E Firenze?” chiese Alfonso Este, un occhio alla mappa stesa nel centro del tavolo.

“Finché non chiudono la bocca a quel Savonarola – commentò Calco, le labbra storte da un lato – non credo che daranno mai contro ai francesi. I Popolani sono stati messi in cima alla Signoria da re Carlo, come potrebbero adesso rivoltarglisi contro?”

Il Moro sollevò le spalle: “Come stanno facendo tutti, papa compreso.”

 
   
 
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