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Autore: _Noodle    12/01/2017    2 recensioni
 
“Quando la danza diventa un’esigenza, un bisogno primario e necessario, la musica fuoriesce dalla sua tana avvolgendo i corpi degli amanti, sgorgando dagli strumenti e dai grammofoni, dalle casse e dalle console. Quando si balla è notte. Quando si ascolta, il sole è lontano”.
Raccolta di One-Shot: ad ogni decennio del Novecento corrisponde un genere musicale, ad ogni sonorità un diverso e particolare modo di danzare.
~ The Romantic Naughties: 1911 [KuroTsuki].
~ The Roaring Twenties: 1925 [DaiSuga].
~ The Dirty Thirties: 1936 [AsaNoya].
~ The Flying Forties: 1946 [YamaYachi].
~ The Stylish Fifties: 1957 [KuroKen].
~ The Revolutionary Sixties: 1964 [KageHina].
~ The Eccentric Seventies: 1973 [IwaOi].
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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1946, Musica Swing.
Hitoka Yachi inserisce una moneta nel jukebox e “All the cats join in” di Benny Goodman rallegra l’atmosfera.
 
 
 
 
 
Torono, 1932
 
<< Yacchaaaan! >>
Quando Tadashi gioca con me è sempre piuttosto rumoroso. Non fa altro che urlare il mio nome e lanciare la palla a destra e a sinistra, distraendomi costantemente da quello che sto facendo. Sebbene per la maggior parte del tempo sia un ragazzo per bene, tranquillo e mediamente riservato, si potrebbe dire che quando gioca ed io mi trovo nei paraggi, perché non mi permetterei mai di giocare con lui dal momento che sono un disastro, Tadashi diventi estremamente fastidioso. Chissà perché.
<< Yamaguchi-kun, stavo finendo questo disegno >> bisbiglio sommessamente, nascondendo il foglio scarabocchiato dentro il mio nuovo quaderno dalla copertina rossa.
<< Oh, mi dispiace Yacchan, non avevo capito che stessi disegnando >> commenta lui, sorridendo e passandosi una mano tra i capelli corvini. È davvero buffo quando fa così. Sposto lo sguardo dal suo viso lentigginoso alle ginocchia appuntite, notando che ai soliti lividi violacei si è aggiunta anche una sbucciatura sanguinolenta.
<< Tadashi, dovresti smetterla di buttarti a terra in quel modo, guarda che cosa combini! >> esclamo, additando alla ferita.
Lui alza le spalle, camminando nella mia direzione con la palla sottobraccio, e si siede di fianco a me. Il caldo è talmente torrido che potrebbe scioglierci da un momento all’altro.
<< Non preoccuparti Yacchan, non mi fa male! >> confessa cautamente, tremando un po’.
<< Dovrò disinfettare la ferita, come al solito >> borbotto bonariamente, abituata a quel tipo di faccende. Mia mamma dice che dovrei lasciar perdere il disegno e smetterla di fantasticare sul futuro; dice che dovrei dedicarmi, a poco a poco, allo studio della medicina per diventare un’infermiera. Non che mi dispiaccia, non che non sia brava, ma ho altre ambizioni. Tuttavia, è sempre meglio ascoltare ciò che consiglia un adulto.
<< Che cosa hai disegnato? >> mi domanda Tadashi, occhi curiosi e guance arrossate.
<< E’ l’insegna del locale che voglio aprire quando sarò grande. È una caffetteria. >>
Estraggo il disegno dal quaderno dalla copertina rossa e glielo porgo. Le dita lentigginose e sporche di terra di Tadashi avvolgono il candido foglio. Scruta il mio tratto con stupore, lentamente accarezza la carta per conoscere quanto sia ruvida.
<< Spero che tu ce la possa fare, Yacchan! Sei davvero brava! >> ridacchia, alzando le sopracciglia nell’unico e particolare modo che lo contraddistingue. Mi sorride. Credo di essere la bambina più fortunata del Giappone: sebbene Yamaguchi sia un po’ sconsiderato ed impacciato, tremendamente sbadato e a volte eccessivamente pauroso, nessun’altra ha un vicino di casa simpatico come il mio!
 

1937
 
<< Tadashi, dove mi porti? >>
Ha bevuto un’intera bottiglia di vino. Ero conscia del fatto che la festa del paese avrebbe mietuto un considerevole numero di vittime, ma non mi aspettavo che il mio migliore amico potesse ridursi in questo stato. Sono le tre del mattino e Tadashi corre tra le vie buie e strette della cittadina tenendomi per mano, schivando pericoli e maledicendo presenze a me invisibili.
<< Non temete, principessa, vi sto portando al sicuro! Quando il drago avrà finito di sputare fuoco, andrò personalmente ad ucciderlo! >> urla senza ritegno, alzando il braccio destro al cielo e portandolo conseguentemente al petto, all’altezza del cuore.
<< Ma non c’è nessun drago! >>
Yamaguchi barcolla, strattonandomi in tutte le direzioni possibili. La sua mano è calda, il suo volto rosso d’ubriachezza e lucente di sudore. L’estate ci ha sempre portato a compiere follie, ci ha sempre reso più stupidi. È d’estate che io e Tadashi abbiamo dato vita ai nostri progetti migliori, è quando le giornate si allungano a dismisura che le nostre menti non fanno altro che creare, senza mai cedere al letargo.
<< Nessun drago? Questo perché voi siete accecata dall’amore e non distinguete che cosa vi circonda! >> continua, immerso nella sua fantasiosa pantomima. Parla d’amore senza nemmeno sapere che cosa sia l’amore. Sono più che certa che non abbia mai conosciuto questo sentimento, perché me ne avrebbe parlato. Sono sua amica, d’altra parte. Non è così che funziona?
<< Amore? Tadashi, io non sono innamorata di nessuno! >> ribatto, tentando di fermarlo e cercando di non affogare in un incontrollabile vortice di risate. Immaginarlo bardato ed agguerrito mentre cavalca un destriero dal manto lucente è piuttosto divertente.
<< In guardia, drago sputa fuoco, assaggerai il ferro della mia spada e morirai tra… tra… >>
<< Yamaguchi! >>
Ricade tra le mie braccia, troppo fragili perché riescano a sostenere il suo peso. Occhi chiusi e bocca spalancata. Faccio scivolare il suo corpo sul terreno caldo, mi siedo accanto a lui iniziando a dargli dei piccoli colpetti sulle guance. Chiamo il suo nome, ma non c’è verso: non risponde. È solo dopo una manciata di minuti che riesco ad intravedere le sue iridi castane, leggermente provate dal peso soffocante dell’alcool. Gli sorrido, e lui si mette lentamente a sedere allungando una mano verso i miei capelli. Cosa sta cercando di fare?
<< Se il drago morirà tra atroci sofferenze, io morirò tra le tue morbide braccia. >>
La presa delle sue dita tra i miei capelli si è fatta più solida. La dolcezza con cui mi guarda assomiglia a quella di un marito che ammira la moglie indossare il suo più bel vestito. Vedo il suo petto pulsare attraverso la camicia di lino, sento le sue dita tremare leggermente tra le mie ciocche fini. È spaesato e ubriaco, ma allo stesso tempo consapevole di ciò che sta dicendo. Pare un attore intento a recitare la sua parte migliore; tuttavia, sono consapevole che questa non può essere la verità, perché Tadashi è davvero pessimo a recitare.
<< Che cosa hai detto? >> domando, un filo di voce che cuce tra loro le lettere delle parole. La dolcezza con cui lo guardo assomiglia a quella di una moglie che ammira il marito donarle un mazzo di fiori. Sento il mio petto pulsare attraverso il vestito leggero, vedo le mie dita tremare leggermente sulle mie gambe magre. Sono lucida e cosciente, ma allo stesso tempo spaesata per ciò che sta dicendo. Assomiglio ad un’attrice intenta a recitare la sua parte migliore; tuttavia, sono consapevole che dovrei calare la maschera, perché la tremenda vicinanza delle nostre labbra non può resistere al decoro, non può essere più debole del contegno.
<< Ho detto che sei bellissima, principessa. >>
Si avvicina a me, spruzzando sulla mia pelle una miriade di stelle scintillanti: sono le sue lentiggini fluttuanti. Appoggia le sue labbra  alcoliche sulle mie, calde ed inesperte, ed inaspettatamente non mi tiro indietro, inaspettatamente chiudo gli occhi, come solitamente si fa in queste circostanze. Non sappiamo come muovere le labbra, non sappiamo come si fa ad amare, non sappiamo nemmeno perché ci sia venuta in mente una tale faccenda; non so nemmeno se ciò che Yamaguchi sta facendo a me piace, non so nemmeno se Tadashi mi piace. Eppure è bello ciò che sta accadendo e il fatto che sia stato lui ad avermi scompigliato i capelli e che sia stato lui ad affondare dolcemente la sua lingua tra i miei denti non mi mette a disagio. Tadashi è la mia casa, è mio fratello: e se diventasse anche il mio amante? D’altra parte, non avrei lasciato avvicinare a me nessun altro in questo modo. Se l’ho lasciato fare, è perché lui è l’unica eccezione.
È proprio vero che l’estate ci rende stupidi.
 

1942
 
<< Quando tutto sarà finito, voglio ritrovarti esattamente qui. >>
I suoi occhi sono vuoti.
<< Nessuno può assicurarmi che tornerò. >>
La sua voce galleggia nell’apatia.
<< Non dimenticarti di me. >>
Le sue lentiggini risaltano sul pallore della sua pelle.
<< Mai nella vita. >>
E il mio cuore è appena morto.
 

Kansas City, 1946
 
Sono passati quattro anni. Quattro anni fa, nell’indimenticabile giornata del 2 novembre 1942, Tadashi Yamaguchi partiva per il fronte ed io, Hitoka Yachi, mi accingevo a servire la patria come infermiera. Credo sia stato il più grande sbaglio della mia vita.
Ricordo ancora le tremende ferite che vidi, il sangue che colava copiosamente, il terrore negli occhi dei giovani ragazzi che si battevano per qualcuno o per qualcosa, per un’ideale o per un inganno. Ricordo ancora la puzza, la putrefazione, le centinaia di sigarette che spensi sui muri imbrattati di paura. Ricordo le barelle, i camici, la morfina. Ricordo il lento scorrere del tempo, l’inquietudine, l’insonnia.
Ricordo il colore di quella radio, il legno graffiato, le frequenze distorte che talvolta captava. Ricordo ancora quella voce, l’annuncio dei corpi ritrovati, dei corpi non pervenuti. Ogni sera pregavo di non sentire quel nome e pregavo che non venisse mai pronunciato da nessuno, nemmeno per baglio. Quando comunicarono ufficialmente che Yamaguchi Tadashi di Torono era scomparso, che il suo corpo e la sua persona non si trovavano da nessuna parte, né tra i morti né tra i vivi, afferrai il camice, lo gettai a terra, ci sputai sopra e fuggii. Poteva essere stato rapito, poteva essere stato ucciso lontano dai suoi compagni, poteva essergli capitato di tutto; perché non poteva disertare, non poteva scappare. Non sarebbe tornato da me.
Ringrazio il cielo di essere fuggita prima di quel 6 agosto 1945 e ringrazio di non aver assistito all’orrore, di non averne sentito parlare da chi era lì, dal vicino di casa o da mia madre. Ringrazio di aver capito che l’unico modo per salvare me stessa era fuggire, dimenticare, cancellare per sempre il mondo in cui ero vissuta. Odio il Giappone e odio la guerra, ma ancor di più odio Tadashi. Perché senza di lui, io non riesco a dimenticare.
 
Kansas City è una bella città. È colorata, vivace e si balla lo swing. Le persone, qui, sono molto diverse da quelle presenti in Giappone. Sono gioviali, cordiali ed intraprendenti, fiduciose nelle capacità di ognuno, ambiziose, convinte che persino una donna o una giovane ragazza come me possa lavorare e portare a casa uno stipendio, mantenere una famiglia, o usare i propri spiccioli per comprarsi un paio di scarpe. Anche le radio, qui, sono molto diverse da quelle presenti in Giappone: si chiamano jukebox. Sono grandi e luminosi, e grazie ad una monetina trasmettono canzoni sempre nuove.
Ho compiuto una saggia scelta acquistandone uno per la mia caffetteria.
 
<< Buonasera! Che cosa posso serv-… >>
E’ appena entrato il sesto cliente della serata. Abbandono momentaneamente la preparazione dell’ennesima banana split, e velocemente mi volto per conoscere il viso del nuovo acquirente.
Improvvisamente è luce, alba, colore, bagliore.
Improvvisamente è estate.
Improvvisamente è il 1937.
<< Buonasera. Volerei un ponce caldo. Tra l’altro, complimento per il nome del locale: “floating freckles” è molto simpatico. >>
Ha i capelli ben pettinati. Indossa una camicia azzurra, leggera quanto lo zucchero filato. Profuma. Parla. Respira. Vive. Ha ordinato un ponce caldo. Sta parlando con me. Possibile che non mi riconosca? Possibile che non riconosca i miei capelli giallo limone? Eccetto il lieve velo di rossetto sulle labbra, io non sono cambiata, o almeno credo.
E come parla? Ma come hanno fatto quelle labbra farfuglianti a diventare così sottili, ancora più maldestre? Perché i suoi occhi sono ancora così scintillanti, perché le sue lentiggini non si sono disperse nell’oceano come sabbia leggera? Perché sorride?
Perché Tadashi è qui, perché non è morto? Perché mi viene da piangere, da scorticarmi il cuore, da azzannare il suo sorriso fino a farlo sanguinare? Perché resto imperterrita? Perché la cordialità che mi contraddistingue non si dissipa? Perché non riesco ad essere meno impaurita per ciò che sto vedendo? Odio e amo, e mi sento svenire.
<< Tadashi… >> sussurro, occhi ricolmi di lacrime e labbra instabili, traballanti, liquide.
<< Come conosce lei il mio nome? Ci siamo incontrati già? >> mi domanda, sorridendo ed arrossendo, impaurito di aver fatto una figuraccia. Il fatto che non si ricordi di me mi destabilizza, mi annienta, mi annichilisce; quasi mi ricorda di come dovevano sentirsi le mogli dei soldati che durante la guerra sono invecchiate e sono state dimenticate dai loro dolci e sfortunati mariti.
Mi sento un ricordo ucciso da un ricordo.
<< Tadashi! Sono io, Yacchan… >> mi avvicino a lui, oltrepassando il bancone.
<< Mi dispiace, signorina, ma non ricordo chi lei sia. Ho un problema nel ricordare che cosa mi è accaduto in questi ultimi tempi, purtroppo >> confessa, abbassando lo sguardo e passandosi una mano tra i capelli corvini. È buffo, quando fa così.
<< In che senso problema? Tadashi, cosa ti è capitato? >> domando.
<< Ho perso la memoria >> risponde.
Mi chiedo come possa essere successo, quale bomba, quale incidente, quale trauma possa aver sconvolto la sua mente genuina; e non ho nemmeno la forza di arrabbiarmi. Dove si sarà cacciato per tutto questo tempo?
<< Mi stai dicendo che non ricordi nulla del tuo passato? >>
<< No. Ma parlo giapponese, quindi posso dedurre di essere nato in Giappone. >>
Mi siedo accanto a lui, avvilita dal fatto che non ricordi nemmeno la sua patria natia. Se non ricorda casa, certamente non ricorda me.
<< Sono stato in guerra, mi hanno detto. Mi sono risvegliato in un ospedale di Kansas City e ho dovuto ricominciare da zero, come se fossi appena nato. Ho dovuto imparare a parlare e mandare a memoria le mie generalità. Meno male che lei, signorina, parla in giapponese, perché l’inglese lo mastico ancora male, come avrà certamente notato! >> spiega sorridendo, socchiudendo leggermente gli occhi.
<< Tu… tu non ricordi chi sei? Non ricordi dove sei stato? Non ricordi di essere stato arruolato quattro anni fa? Non ricordi chi sono io? Non so chi ti abbia fatto arrivare fin qui, ma se solo tu potessi rimembrare saresti certo che questo è un segno provvidenziale. Perché sai, tu ed io… >> m’interrompo bruscamente. Dovrei ricordargli la nostra promessa? Dovrei ricordargli che cosa eravamo prima che partisse, prima che svanisse?
<< Chi è lei, signorina? È nata qui? Parla molto bene la lingua del posto >> constata, dopo avermi posto le seguenti domande. Per non morire d’imbarazzo nel rivelare la verità, corro a prendere il tanto desiderato ponce caldo.
<< Non ci crederai mai, ma io sono sempre stata la tua vicina di casa fino al giorno in cui sei partito. Abitavamo a Torono, io nell’appartamento numero 14, tu nell’appartamento numero 12. Siamo cresciuti insieme, tu ti sbucciavi le ginocchia e io ti ricucivo le ferite. Una sera ci siamo persino… beh, che importa adesso, diciamo che tu eri ubriaco e che la nostra amicizia era diventata un qualcosa di molto profondo >> taglio corto, decisamente a disagio. Le parole fluiscono dalla mia bocca come un fiume in piena, prive di controllo. Non ho mai avuto così tanta paura del vuoto in tutta la mia vita.
<< Lei, signorina, era la mia fidanzata? Che figuraccia, Dio mio! >> esclama, coprendosi la bocca e strabuzzando gli occhi.
<< Smettila di darmi del lei, Yamaguchi. In ogni caso, ho servito la patria come infermiera. Poco prima che accedesse ciò che è successo in Giappone, ma è meglio che tu non sappia che cosa è successo, sono fuggita in America, determinata a sconvolgere la mia vita e ad aprire la caffetteria dei miei sogni. Là non avrei mai potuto farlo >> continuo, porgendogli la sua bevanda.
<< Non è che ti stai inventando tutto solo per attirare la mia attenzione? Non lo fai perché ti faccio pena, non è vero? >>
Colmando il mio cuore di coraggio, afferro la sua mano e lo trascino nel ripostiglio sul retro, quello a me riservato. Probabilmente Tadashi non si ricorda di me perché la guerra mi ha cambiata, perché mi ha reso più spavalda, meno arrendevole, capace di affrontare una paura a spada tratta, similmente a come lui affrontava il temibile drago immaginario.
Siamo l’uno davanti all’altra, accanto a qualche scopa e barattolo di vernice.
<< E perché mai dovrei farlo? Perché dovrei inventarmi tutto? Sappi che se non ricordi, io diventerò la tua memoria. Non m’interessa che tu ricordi che cosa ti è capitato sul campo di battaglia, non m’interessa che tu ricordi come sei arrivato qui. Io voglio che tu ti ricordi di me e di noi. Voglio che ti ricordi che cosa provavamo. E se parlarne non è necessario, sarei disposta persino a comportarmi come una bambina di dodici anni che disegna scarabocchi pur di farti ricordare. >>
Un velo di lacrime annebbia le nostre viste ed è in questa sfumatura imprecisa che Tadashi mi abbraccia, con la stessa delicatezza di molti anni prima.
 
Tadashi, per farsi perdonare, ha deciso che vuole offrirmi un ballo. Gli ho detto che non sono un granché in ambito di danza e che è impensabile che nel mio locale io riesca a spostare tutti i tavoli e la clientela per creare una pista da ballo, ma lui mi ha confessato di non riuscire nemmeno a sentire il tempo e che lo spazio non sarebbe stato un problema. Tornati in sala, inserisce una moneta da 5 cent nella fessura del jukebox ed esso sceglie Benny Goodman e uno dei suoi ultimi capolavori: “All the cats join in”.
Mi porge la mano destra, e come un vero ballerino professionista mi trascina a sé, facendomi piroettare sul posto. Ci destreggiamo tra i tavoli, urtando sedie, mense e pietanze fumanti. Rischiamo di bruciarci, di sporcarci, di perdere acquirenti e denaro. Le nostre dita s’intersecano e le nostre gambe s’intrecciano e fluiscono insieme al clarinetto impertinente che rende erotica la melodia. Non staremo seguendo pedestremente il tempo, non staremo ballando lo swing nel migliore dei modi, ma averlo accanto a me e stringere nuovamente un corpo che per tanti anni credevo si fosse disintegrato è più appagante di qualsiasi progetto, di qualsiasi ferita ricucita bene e di qualsiasi caffetteria. Tutto è surreale ed inconcepibile; questa danza pare portare alla morte, al risveglio da un sogno troppo bello per essere vero. Altre coppie iniziano a danzare e a battere il tempo con i piedi e con le mani, posando sul tavolo cappelli e gioielli per non farli cadere a terra. C’è chi si lancia per terra e chi semplicemente appoggia la testa sulla spalla del compagno. Quando Tadashi mi solleva in aria tenendomi per i fianchi concepisco che c’è ancora speranza, che c’è ancora la possibilità che lui ricordi qualcosa, in futuro. Il suo sorriso è impagabile ed i nostri respiri affannati denotano un sano e disperato bisogno di dinamismo e di felicità.
Le sue lentiggini fluttuanti, tatuate nella mia mente da tempo immemore, rimbalzano nuovamente sul mio volto e come nove anni fa Tadashi mi accarezza le labbra con un bacio, sigillo di una memoria che, sono certa, riaffiorerà.
 
 

 
 
 
Angolo dell’autrice: una YamaYachi, signore e signori! Una YamaYachi che doveva essere scritta con le migliori intenzioni, ma che mi ha dato botte di angst notevoli! La mia intenzione era di ambientarla nel 1946 proprio per svincolarmi dalla guerra, ma sono stata fin troppo tentata da alcuni spunti che avevo, e quindi eccoci qui! XD Amo questi due tenerelli e trovo i loro caratteri molto affini, perché entrambi appaiono insicuri e tentennanti, ma in realtà sono capaci di grandi cose. Spero vi sia piaciuta, e soprattutto che io abbia reso bene la personalità di Yachi, perché era da molto tempo che non scrivevo dal punto di vista di una ragazza. Il fatto che lei sia leggermente più tosta di quanto non lo sia nell’opera originale è perché ho pensato che la guerra possa averla cambiata, e mi pare anche plausibile.
Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “All the cats join in” di Benny Goodman, “Dead hearts” degli Stars, “Funf Freunde” di Fabian Romer, dalla colonna sonora di Generation War.
- L’ambientazione del locale di Yachi e della danza finale, è ispirato al cartone animato “Musica Maestro!” in cui è presente proprio il brano “All the cats join in”.
- “Capelli giallo limone” è una citazione presa dal romanzo di Zusak “Storia di una ladra di libri”, in riferimento ai capelli biondi di Rudy.
Grazie mille come sempre a chi legge, recensisce, preferisce e segue <3 Ci si vede tra due settimane negli anni Cinquanta! * Prepara la brillantina *.
_Noodle 
  
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