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Autore: Koaku    15/01/2017    0 recensioni
Ryan ha ben poco, appena ciò che basta per farlo sembrare un comune diciassettenne. Qualcuno deve avervi insegnato, però, che non ci si dovrebbe mai fermare all’apparenza, quando si parla di qualcuno. Infatti Ryan lo nasconde, si tormenta e si isola per questo, fa del suo meglio, ma alla fin fine della sua umanità non resta che una pallida apparenza. Sicuramente, a primo attrito, dareste qualsiasi cosa per poter essere come lui, ma non pensate che poter fare qualsiasi cosa abbia solo dei lati positivi. Ebbene sì, escluse poche cose che neppure gli verrebbero mai in mente di fare, Ryan dispone di qualsiasi potere. Quelle poche persone alle quali concede di rivolgergli più spesso la parola sono a conoscenza del suo segreto, e anche del fatto che devono prestare più attenzione del solito se devono avere a che fare con lui. Gli infiniti poteri di Ryan, infatti, sembrano avere un effetto collaterale: il ragazzo riesce con molta difficoltà a controllare la sua rabbia. Non lo sa quasi nessuno, ma Ryan è un assassino, un assassino per sbaglio, per caso, un assassino pentito, ma nelle sue limitazioni non può riparare agli errori che la sua rabbia lo ha portato a compiere.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I wonder why.
 
 
Le lancette ticchettavano fastidiosamente.
Era un rumore che non aveva mai sopportato - ma si imponeva quella piccola punizione in pratica ogni notte. Stava pensando, o almeno,
ci provava. La sua testa era sempre piena zeppa di troppi pensieri discordanti perché lui riuscisse a mantenerla ordinata.
Apriva e chiudeva gli occhi a intermittenza, controllando di tanto in tanto se fuori fosse giorno o notte. Come se non lo sapesse.
Quando vedeva albeggiare, portava indietro le lancette, che tacevano per un istante, e poi riprendevano il loro odioso, frenetico fare.
Andò avanti così per ore, finché non sentì finalmente il battito del suo cuore farsi più lento, e il sonno agguantarlo.
 
Ryan si mise a sedere e si prese la testa tra le mani.
Il giorno precedente era stato piuttosto impegnativo, e la sera aveva avuto voglia di riflettere su se stesso, come d’altronde aveva già fatto migliaia di volte. Siccome ogni volta che ci provava, finiva per impiegare ore per arrivare sempre alla solita, triste conclusione, se era possibile, evitava di pensare troppo, tuttavia non poteva evitare di lasciarsi prendere da quelle discussioni che aveva coi suoi genitori di tanto in tanto. Era complicato.
Non appena si alzò, la testa ricominciò a fargli male, ma lui fece scomparire il dolore così come era arrivato. Ogni volta che faceva queste cose, ogni volta che allungava le proprie notti costringendo il mondo intero a dormire di più, si rendeva conto di non avere niente in comune con le persone normali. Sono ancora un mostro.
Il ragazzo si sedette di nuovo. Era ancora presto, non c’era motivo di prepararsi di già per andare a scuola. Guardò il suo aspetto allo specchio: aveva davvero deciso lui di essere così anonimo?
Gli esseri umani non potevano farlo, ma lui aveva avuto la possibilità di cambiare aspetto, quando l’aveva voluto, quando aveva scelto di non attirare più l’attenzione. Quando aveva cominciato a vergognarsi di quegli strani e illimitati poteri che aveva dalla nascita.
Prese gli occhiali dalla scrivania, e li indossò. Sapeva che quella era soltanto una maschera, un modo per non avvicinarsi alla gente, ma che non avrebbe certo cambiato la sua condizione.
Se lo ripeteva in continuazione, che non avrebbe mai dovuto nascere. Ryan era un’anormalità, un errore, qualcosa di tanto straordinario quanto pericoloso. Era qualcuno che non sarebbe mai stato di nessun aiuto al mondo e che, anzi, avrebbe facilmente potuto distruggerlo.
I suoi genitori continuavano a negarlo, a ripetergli che bastava un piccolo sforzo, da parte sua, e avrebbe potuto ricominciare a vedere quei suoi poteri con gli occhi di quand’era bambino.
Che avrebbe potuto dimenticare il passato ancora una volta.
Lui non aveva mai creduto loro, e di certo non si era lasciato convincere dopo l’ennesima discussione. Al contrario, erano proprio sua madre e suo padre a non capire: non avevano idea di cosa si provasse.
Non sapevano come fosse non essere in grado di intrattenere una discussione come una persona normale, senza perdere il controllo. Non sapevano niente di come lui si sentisse ad essere un pericolo per le persone che lo circondavano. Era la sua natura, Ryan non poteva permettersi di arrabbiarsi; seppure non ne sapeva niente, lui credeva fosse un effetto collaterale dell’uso dei suoi poteri. Non poteva farci niente.
Chiuse gli occhi.
L’aveva accettato, che nessuno poteva fargli del male, nemmeno lui stesso; Ryan avrebbe voluto che fosse il contrario, che fosse come per tutti gli altri, avere la possibilità di vivere e perché no, di soffrire.
Si portava sempre dietro quell’aria imperturbabile, si infastidiva da solo. A volte gli era capitato di pensare di farsi prendere da qualche scienziato del governo e analizzare; ma poi, si ricordava che non sarebbe servito a niente, perché il suo istinto lo avrebbe fatto evadere da qualsiasi posto dopo qualche tempo. Non sarebbe mai riuscito a starsene buono, in cella.
All’inizio aveva pensato che fosse bellissimo, poter fare tutto ciò che voleva. Qualunque cosa desiderasse, Ryan poteva averla, poteva tutto.
A chiedersi perché fosse nata sulla Terra una creatura così simile a Dio, era praticamente diventato pazzo. La sua buona volontà in quei quasi diciassette anni era bastata, ma aveva costantemente paura che non sarebbe stata abbastanza, un giorno.
Temeva che sarebbe venuto a sapere per quale motivo fosse in realtà al mondo, prima o poi, e non era sicuro di volerlo.
 
- Sei già sveglio, tesoro? -, sua madre bussò alla porta.
Entrò, senza aspettare risposta. Tutte le volte che Ryan guardava quella figura sobria, slanciata, fine, si chiedeva come dovesse essere assomigliare ai propri genitori. Sua madre era rossa di capelli, e aveva gli occhi scuri, come suo padre, che però era moro. Ryan, invece, era nato con una tinta assurdamente grigia sia per gli uni che per gli altri; con il tempo si era, come dire, corretto, ed era stata una fortuna che i suoi genitori si fossero accorti subito che non era un bambino qualsiasi, o sarebbe quasi certamente finito per davvero su qualche tavolo di laboratorio.
Ryan ammirava sua madre, e il suo carattere, e come avesse preso bene la notizia che suo figlio era una creatura sovrannaturale.
All’improvviso il ragazzo si accorse di non aver ancora risposto alla sua domanda. Smise di perdersi in pensieri futili, scuotendo la testa.
Sua madre varcò la soglia della sua camera, la attraversò per metà e si fermò, prudente come sempre. Poi prese a fissarlo, sorridente, con i suoi profondi occhi castani, cercando di capire il suo stato d’animo.
Faceva sempre così, e a lui faceva piacere che ci provasse. Ricevere tutto quell’affetto non gli serviva a molto, ma sicuramente lo faceva sentire meglio, per un poco.
- Non riuscivo a dormire, però adesso sto bene -, disse, mentre si alzava dal letto. Cominciò a far finta di preparare lo zaino, mentre di sbieco guardava sua madre che gradualmente mutava espressione.
Eccola che riprendeva quel colorito pallido, segno di quando era preoccupata per lui. Quando capirà che non deve comportarsi così?
- Mi dispiace tanto che io e papà abbiamo di nuovo perso le staffe, Ray, siamo soltanto in pensiero per te, credimi -.
Continuava ad essere cauta: si era già scordata come urlava la sera prima? Probabilmente non capiva, però, che era stato il figlio a doversi trattenere dal ‘perdere le staffe’. O forse voleva soltanto evitare di pensarci, e questo dava ancora più fastidio a Ryan.
- Già, lo so, voi vorreste che io tornassi quello di Washington, il ragazzo allegro con un sacco di amici. Scordatevelo, non farò mai più quell’errore -. Quante volte l’avrò detto?
La donna, semplicemente, attraversò l'altra metà della stanza, raggiunse il ragazzo e lo abbracciò. Altra dose di affetto che non faceva altro che far capire a Ryan quanto lei avesse torto, e quanto lui non potesse permettersi di comportarsi come avrebbe voluto.
Doveva restare il ragazzo anonimo, silenzioso, che nessuno vuole avvicinare; quello strano, che fa paura alle ragazze.
Sciolse la stretta della madre dopo poco, riluttante.
- Mamma, so già che mi vuoi bene. Non è necessario che tu e papà facciate tutti questi sforzi per aiutarmi, me la cavo alla grande anche così -, Ryan tentò un sorriso ironico.
Lei parve rassegnarsi alle sue parole.
- Ti aspettiamo giù per colazione -, concluse, avviandosi verso la porta. Ma si arrestò dopo aver fatto solo pochi passi, e aggiunse: - e ricordati che non ho paura di te. Sei mio figlio, e questo non cambia anche se sei diverso dagli altri -.
- Diverso, già -. Non era abbastanza per definirlo. Ma se la faceva stare meglio, a lui poteva andare bene dire che era semplicemente ‘diverso’ dai comuni ragazzi della sua età. Ogni volta che sua madre lo diceva, Ryan restava basito di fronte a quell’amore cieco, di fronte a quel ragionamento obiettivamente insensato.
Quando le sorrise, sapeva che lo stava guardando.
 
Quando era a casa, solo con la sua famiglia, Ryan poteva dare libero sfogo ai suoi poteri. Era solito fare cose come attrarre a sé oggetti, che volavano da ogni parte della casa, accendere elettrodomestici con uno sguardo, muoversi più velocemente del normale oppure, più semplicemente, teletrasportare gli altri dove si trovava lui.
Per questo motivo, senza preoccuparsi della reazione dei suoi familiari, fu in cucina in un secondo, volando sulle scale. Lì lo attendevano, già seduti a tavola, sua madre, suo padre, e sua sorella Madeline. I tre non fecero una piega; all’inizio, suo padre aveva mostrato disappunto nel vederlo fare cose sovrannaturali, ma si era presto arreso. Soltanto sua sorella gli lanciò uno sguardo pieno di ammirazione; scena familiare che si ripeteva sì e no tutti i giorni.
A Ryan piacevano particolarmente i periodi della sua vita in cui nulla cambiava, perché non era memore di cambiamenti che avevano portato a cose buone.
- Okay, faccio io - disse, quando come di consueto la sorella gli chiese di preparare la colazione. Si avvicinò al frigorifero, e resistette alla tentazione di far apparire dal nulla un piatto pieno di leccornie.
Prese gli ingredienti che gli servivano e cominciò a preparare dei sandwich, a velocità disumana. Madeline li adorava, e fare del bene agli altri rendeva sempre felice Ryan, scacciando i brutti pensieri dalla sua testa. Sapendo che avrebbe fatto felice qualcuno di cui gli importava, si convinceva di star riuscendo a contrastare la propria natura distruttiva; lo compiaceva.
- Ehi, ehi, Ray! -
- Dimmi, Mad -, disse, calmo. Sua sorella ridacchiò.
- Oggi a scuola faremo un progetto di scienze che deve essere divertentissimo! E’ tutto su spazio, pianeti e costellazioni! Non vedo l'ora! – esclamò allora la bambina, che era sempre quella che metteva nelle discussioni di famiglia un po’ di “più e del meno”. Ryan sorrise, seppur sapesse che lei non poteva vederlo, così di spalle.
- La maestra Blanchard dice che verrà un signore direttamente dal planetario! – spiegò anche rivolta ai genitori, eccitata.
- Lo stesso che avete conosciuto l’altra settimana alla visita? - chiese allora sua madre, mentre Ryan finiva i sandwich e li portava a tavola.
- Non so, ma spero sia simpatico! -
- Mai quanto la signorina Blanchard - commentò allora Ryan, sinceramente, che apprezzava tanto come la maestra fosse carina con sua sorella. La bambina allora si voltò dalla parte del fratello, con un'altra risatina, e lui già sapeva cosa voleva.
Fece un breve calcolo a mente delle probabilità e, mentre i suoi si servivano i sandwich , assicurò a Madeline: - Ti divertirai un sacco, il professore che vi farà la lezione sarà molto gentile con voi -, e le sorrise, stavolta apertamente.
Lei, rassicurata, esplose in una risata infantile, che mise di buon umore anche i genitori; perfino il volto del padre, che quella mattina più delle altre era di poche parole, venne attraversato da un sorriso.
Madeline adorava i poteri di suo fratello.
Il ragazzo, mangiando a piccoli bocconi il suo sandwich, non poté fare a meno di pensare a come fosse bello che ci fosse anche una sola persona che conosceva che al pensiero dei suoi poteri non tremava o quantomeno non si sentiva a disagio, come i suoi genitori, e anche il suo migliore amico. Ryan amava il modo in cui sua sorella, nella sua, per così dire, ignoranza, lo facesse sentire speciale come avrebbe sempre voluto poter essere.
Lui sapeva per certo che non sarebbero finite lì, le sue richieste di dimostrazioni, e questo mise anche a lui un precario sorriso sulle labbra; era una bella sensazione, sorridere. Se fatto sinceramente, ti illuminava gli occhi, e poi tutto il viso; Ryan lo sapeva bene, anche lui aveva sorriso parecchio, fino a qualche tempo prima.
Ricordava ancora come le battute che faceva rallegrassero i suoi compagni, come riuscisse a farli stare meglio perfino nella peggiore delle giornate, e tutto grazie ai suoi poteri. In quel periodo pensava di essere nato per far felice il prossimo, tuttavia poi era cominciato a crollare tutto, e Ryan aveva iniziato a tenersi aggrappato a quella convinzione, che si faceva sempre più fragile. Avrebbe dovuto aspettarselo, dopotutto. E adesso, l’unica persona con cui riusciva ancora ad avere il coraggio di ridere era sua sorella, perché sapeva che lui, a Madeline, non avrebbe fatto del male nemmeno per sogno; probabilmente da lei avrebbe potuto tollerare ogni genere di affronto senza perdere il controllo. Questa faceva parte di una delle poche, effimere certezze che Ryan aveva.
Il suo sorriso svanì così come era comparso, e lui vide in tralice sua madre che gli lanciava un’occhiata apprensiva, mentre chiacchierava con suo marito della sua commessa sbadata, al negozio.
Improvvisamente, si accorse di non aver seguito una parola della conversazione, così, leggendo nei pensieri di entrambi, si rimise in pari nel giro di un secondo. Buttò lì una frase ironica, aspettò di ridacchiare con suo padre e poi tornò a pensare a tutt’altro.
Era cominciata un'altra mattina come le altre. La consapevolezza che la propria era una routine piuttosto monotona e che non avrebbe avuto a che fare con fastidiosi cambiamenti, lo metteva a suo agio.
Non avrebbe piovuto; come se a Los Angeles piovesse spesso. Anzi, era da poco cominciata quella loro estate precoce: i suoi coetanei se ne infischiavano di essere a metà del semestre e cominciavano a passare i week-end al mare, viste le temperature in aumento e il sole che spaccava le pietre. Si sentiva nell’aria, che in quella città tutto sarebbe stato sempre così. I ragazzi non cambiano mai, si disse.
 
Erano almeno cinque minuti che Ryan sentiva nelle orecchie come una specie di ronzio, simile al rumore che fanno i vecchi televisori, quelli quadrati, piccoli e in bianco e nero, in sottofondo, quando l’antenna non prende il segnale come dovrebbe.
Non gli era mai successa una cosa simile, e il suo pessimismo non la prese bene; certo, aveva avuto mal di testa migliaia di volte, ma a confonderlo era il fatto che, per quanto ci stesse provando, anche piuttosto intensamente, esso non accennava a scomparire dalle sue orecchie né tantomeno a diminuire di intensità. Era un crescendo, e per uno che aveva fatto in modo di non ammalarsi mai in vita propria, era terribilmente fastidioso. Ci volle poco perché la testa cominciasse a dolergli sul serio, e la cosa lo irritò. Proprio quando stava per accanirsi sul suo bicchiere di succo d’arancia, venne distratto dalla voce di Madeline, e il rumore scomparve del tutto.
Riprese lucidità.
Sbigottito, si perse anche metà della domanda che sua sorella gli rivolse, e dovette nuovamente ricorrere alla lettura della mente per non dare a vedere che era stato disattento.
- Però è ancora presto, sono le sei e mezza… manca più di un'ora all'inizio della scuola... Ray, ci pensi tu, per favore? - aveva mugugnato Madeline, preparandosi a tenere d’occhio l’orologio. Sembrava divertirsi un mondo, e lui non seppe dirle di no. Trovava adorabile quel suo modo di pregarlo con gli occhi, mostrando apertamente tutta la sua impazienza. Anche se doveva ammettere che la sua tattica migliore restavano le labbra tremolanti, apprese da qualche cartone animato. I suoi genitori lo guardavano, in attesa della sua resa.
Ryan fece un breve sospiro e, senza neanche accorgersene, portò il tempo globale avanti di un'ora. Gli unici ancora fermi a tavola, e non a fare ciò che avrebbero fatto un’ora dopo le sei e mezzo, lasciò che fossero lui e la sua famiglia.
Che opera grandiosa e allo stesso tempo insignificante.
- Che ore sono adesso? - chiese Madeline emozionata. Suo fratello non capiva il suo entusiasmo; tornò a pensare che seppure a volte fossero divertenti, convivere con i suoi poteri per tutta la vita era piuttosto... come dire... orribile. Ma lei non poteva ancora capirlo.
- Le sette, trentadue minuti e venti secondi. Muoviti sorellina, o farai tardi! - la sfidò, scacciando quell’ennesimo brutto pensiero.
Dopo aver riso ancora una volta, Madeline si alzò dalla sedia e corse su per le scale, seguita a ruota dal fratello e dai mormorii esasperati dei suoi genitori, che cominciarono a sparecchiare.
- Ryan! Fai tu in modo che il mio capo non si accorga del ritardo, è chiaro? - gli urlò dietro il padre. - Certo! - fu la sua risposta, quando ormai era già al piano di sopra.
Madeline corse in camera sua, per terminare di preparare lo zaino.
Ryan era già completamente pronto per uscire, così attraversò il corridoio, entrò in camera sua e sedette sulla sua poltrona a guardare la tv, tanto per passare il tempo. La bambina non ci avrebbe messo molto a lavarsi e pettinarsi. Mentre la aspettava, decise di guardare un po’ di televisione, e a caso capitò sul telegiornale. Le notizie non erano diverse dalle solite: c'era stato un altro incendio a est della California, vicino al mare, quelli che si divertivano tanto a far passare come cose naturali, o come semplici incidenti, ma che Ryan sapeva benissimo essere dolosi. Quel posto che la giornalista stava descrivendo non era molto lontano da dove abitava.
Una persona normale si sarebbe preoccupata che l'incendio, a detta della televisione difficile da domare e che stava richiedendo grande impiego di vigili del fuoco, colpisse anche casa propria, i quartieri limitrofi, ma Ryan non aveva certo paura del fuoco. Spegnere piccoli incendi, da quando sua madre si era messa in testa che le lezioni di cucina non facevano per lei, era diventata cosa quotidiana. In quella famiglia erano fortunati ad avere un figlio di gran lunga migliore di un vigile del fuoco, altrimenti sarebbero già saltati tutti in aria. Il ragazzo ridacchiò, anche se lo scenario non era esilarante. Prima di spegnere il televisore, si assicurò che tutti gli abitanti della zona colpita dall’incendio stessero bene. Si sentì un po’ meglio.
In quel momento, ecco tornare quello strano e insistente ronzio nelle sue orecchie. Preso alla sprovvista, tentò stupidamente di tapparle, prima con le mani, poi col cuscino, ma il dolore non voleva saperne di attenuarsi, e ricominciò a crescere. Faceva dannatamente male!
Ryan non aveva mai provato niente del genere, non sapeva come comportarsi. Per altro, sapeva che una normale aspirina, tutto ciò che sua madre sarebbe stata in grado di consigliargli, non sarebbe servita a niente: se quel dolore non riusciva a placarlo neanche lui, dubitava che la medicina umana potesse fare qualcosa. Sbuffò, irritato.
Alla fine rimase seduto, a sopportare in silenzio quella nuova, brutta sensazione per un tempo che gli parve infinito; aveva cominciato a perdere contatto con la realtà, a vedere sfocato, la stanza che ondeggiava lentamente. Le mani gli tremavano, sbatteva le palpebre aritmicamente. Si sentiva stordito e debole, come non era mai stato. Non capiva cosa gli stava accadendo. Non riusciva a capire.
 
Di nuovo, il dolore venne interrotto dalla voce alta e squillante di Madeline, che lo distrasse e lo fece tornare alla realtà.
Improvvisamente ogni sofferenza che Ryan stava provando, e che fino a poco prima non riusciva a controllare, scomparve come se non si fosse mai presentata, e lui smise di sentirsi intontito e confuso. Stava per mettersi a pensare e a struggersi per l’accaduto, a rimuginare su come aveva potuto perdere il controllo in quel modo e a controllare quanto tempo fosse trascorso mentre era dolorante sulla poltrona, ma la bambina irruppe nella sua stanza, sul viso un sorriso radioso.
- Ryan, datti una mossa! La mamma è già in macchina, cosa fai qui a cincischiarti!? -, la sorella gli lanciò un’occhiata divertita e si affrettò sulle scale. Ryan spense la tv, mise via il telecomando, che aveva tenuto in mano, inerte, per tutto il tempo della sua confusione, che, capì, doveva essere durata una buona decina di minuti, ed uscì anche lui dalla stanza, con un’espressione indecifrabile. Non se la sentiva di assecondare i sorrisi e le gentilezze dei suoi, in quel momento, con tutto ciò a cui voleva pensare, così fece in modo che nessuno si preoccupasse di cosa avesse che non andava.
Salutò suo padre, che gli fece un segno spiccio con la mano, mentre si metteva la cravatta, allo specchio della sala. Fu in giardino in un attimo. Adesso era davvero nervoso.
Il tragitto durò poco, e in quei minuti Ryan fece di tutto per tenere la mente, o almeno una parte di essa, occupata dalle chiacchiere di sua madre e Madeline. Non voleva cadere nuovamente in quello stato di semi incoscienza. Provava un certo disagio al solo pensiero, ma non riusciva a definire cosa fosse.
Quando sentì lo stridio delle ruote dell’auto frenare, si affrettò a scendere, senza dire una parola di troppo. Il suo ‘incantesimo’ fece sì che sua madre ripartisse alla volta della scuola di Madeline senza farsi domande. Davanti a Ryan si presentò il consueto, enorme, complesso della Lynwood High: quella scuola avrebbe spiazzato qualunque straniero l’avesse vista. Non era diversa da molte delle scuole superiori americane, tuttavia la prima volta Ryan, abituato ad una piccola scuola in provincia, ne era rimasto affascinato. Contava una dozzina di campi da basket e da tennis, e praticamente un altro mezzo chilometro quadrato dedicato all’atletica leggera e al calcio. Quella che era propriamente la parte in cui si studiava, occupava soltanto la metà dello spazio: gli insegnanti formavano ogni anno più di tremila studenti, e quella parte della popolazione mondiale un po’ goffa e con uno scarso senso dell’orientamento si sarebbe persa in un batter d’occhio in quel dedalo di corridoi, classi, aule specializzate.
Quella visione familiare lo rassicurò. Ryan prese un bel respiro, cercando di far finta che non gli fosse successo alcunché, e attraversò il cancello, scrutando la folla di ragazzi nella piazza: c’era chi stava cercando lui, come pensava.
Luke gli fece ‘ciao’ con la mano. Qualcuno attorno a lui si mise a ridere, ed ottenne da parte del ragazzo una frase molto poco carina.
- Sei in ritardo -, Ryan venne ammonito non appena ebbe raggiunto il suo amico. Alzò gli occhi al cielo.
- Anch’io sono felice di vederti -, fece di rimando. Luke gli tirò un pugno affettuoso su una spalla. Un secondo dopo, strabuzzò gli occhi ed emise un gemito di dolore: - Mer… Ryan, che diamine! -
Il ragazzo si rese conto all’improvviso di quello che aveva fatto.
- Che cosa sei, d’acciaio!? - esclamò Luke, tenendosi la mano infortunata nell’altra, stringendola.
- Scusami, è stato involontario - replicò l’altro. Facendo sempre in modo di non provare dolore, si era dimenticato, preso dai mille pensieri di quella mattina, di abbassare la sua ‘corazza’ in presenza di Luke e dei suoi gesti d’amicizia umani. Dopotutto, era un po’ che aveva perso l’abitudine di venire avvicinato, men che meno toccato.
Curò la mano di Luke - gli aveva quasi rotto un dito.
- Grazie - fece lui, senza smettere di massaggiarla seppur ormai fosse completamente sana. Quel ragazzo era la prova che gli umani non avrebbero mai reagito con totale naturalezza ai suoi poteri.
Luke ritrovò il sorriso, e stava chiaramente per annunciargli qualcosa di importante, quando passò un ragazzo che Ryan non conosceva e lo spinse.
- Che c’è, frocetto, ti sei fatto male? -
La scena fu abbastanza veloce: vide Luke alzare lo stesso pugno che poco prima si era fratturato, colpendolo, contro il nuovo arrivato, e scandire “Chi hai chiamato frocetto”. Dopodiché, Ryan fu tra di loro.
Assunse la migliore aria spaventosa che i limiti della normalità gli consentivano, e: - Ti consiglio di non infastidirci -, disse.
Sentiva la rabbia montare. Voleva prendere a pugni quel tipo fino a che non avesse pregato di essere lasciato andare.
Sentì una mano di Luke frenarlo dalla spalla, e qualcosa gli disse di calmarsi. Rilassò i muscoli, contratti in maniera spasmodica, ma non smise di guardare minacciosamente il bullo.
Quel tizio, grosso il doppio di lui, al che prese a balbettare e corse via, dai suoi amici che già avevano iniziato a deriderlo. Ryan sospirò, cercando di darsi un contegno.
Senza i lunghi anni passati ad allenarsi, e agli errori commessi in passato, a quel punto avrebbe preso a botte quel ragazzo senza farsi problemi. Mi faccio schifo da solo, pensò.
 
Luke era l'unica persona, oltre alla sua famiglia, a sapere della sua vera natura, delle sue doti e di tutto il resto. Probabilmente era anche l’unico, vero confidente che Ryan si fosse mai concesso, e per questo lo considerava il suo migliore amico. Di lui apprezzava tante cose: la comprensione, l’entusiasmo, la quasi eccessiva normalità che alle volte sfociava in una strana forma di eccentricità, ed in particolare la sua straordinaria capacità di passare sopra scene come quella di poco prima, senza bisogno che Ryan gliela facesse dimenticare; né tantomeno gli aveva mai chiesto di farlo.
Capiva, per l’appunto. Gli era bastata una magra spiegazione, e tutte le conclusioni più profonde che Ryan aveva raggiunto dopo mesi di riflessioni, le aveva sempre tratte da solo, essendo quindi per lui la spalla che gli era sempre servita. Gli voleva bene.
Era un tipo simpatico, con l’hobby della fotografia, un faccino poco virile e i capelli biondi, che non sarebbero stati tutti da una sola parte della sua testa nemmeno se l’avesse voluto, mossi com’erano. Più di una volta Ryan si era offerto di dargli una sistemata, perché lo infastidiva come Luke stesse tutto il giorno a tentare, invano, di sistemarli, ma lui non aveva mai acconsentito. Ecco, capitava anche che perdesse di vista chi aveva di fronte e dimenticasse cosa fosse l’istinto di sopravvivenza, a volte. Dopotutto era umano, ma Ryan non gli aveva mai fatto del male.
- Dicevi? -, riprese, mentre si incamminavano verso l’entrata, in attesa del suono della campanella. Luke parve accendersi di gioia, nonostante ciò che era successo. Qualche pettegolezzo?, si chiese Ryan, cercando di non rovinarsi la sorpresa leggendogli i pensieri.
- Non ci crederai mai! -
Visto accanto a lui, Luke stonava parecchio: un modo di dire umano che sarebbe calzato a pennello è che quei due erano ‘come il giorno e la notte’. Ryan, coi suoi capelli neri, gli occhiali, i vestiti spenti, e gli occhi tanto grigi da far paura, creava un contrasto quasi comico con la vitalità dell’amico. Un professore calvo, dall’aria allampanata, li guardò in malo modo, passando loro accanto. Ryan corrugò la fronte.
- Marie, hai presente? -, Luke lo distrasse ancora.
Tentò di capire velocemente di chi stesse parlando, tuttavia non ebbe il tempo di ‘accendere’ il suo cervello che un’altra raffica di parole uscì di bocca al suo amico: - Ecco, lei, ha cambiato corso di storia, giusto ieri! Me l’ha detto la sua migliore amica, Lauren. A quanto pare suo padre aveva preso in antipatia la vecchia professoressa, da non crederci! E’ sicuramente più carina della Thompson! Ma aspetta, non è finita! Non solo ha cambiato corso, ma è passata nel mio! Appunto, con la Thompson. Da non crederci, eh!? Non posso aspettare che arrivi la terza ora! E’ l’unico corso che abbiamo insieme! Nemmeno l’anno scorso eravamo nella stessa classe, di nulla, ma adesso mi sento il ragazzo più fortunato della terra! -
Se fosse stato umano, Ryan sarebbe rimasto sicuramente frastornato da quella serie di frasi senza quasi connessione logica e dette con un tale sguardo fiero e un tono così galvanizzato.
Si accigliò, e - Scusa, sono emozionato -, disse Luke.
Nel nostro corso di storia, vorrai dire, pensò. Poi ridacchiò, un po’ per assecondarlo. Non usando i suoi poteri, proprio non riuscì a farsi venire in mente chi fosse questa Marie di cui parlava, così scandagliò lo spazio attorno a loro per qualche secondo, concedendo al suo amico quel tanto di suspense che voleva da quel momento.
Marianne Hayes era sedicenne, come Ryan e Luke. Era la figlia di un uomo famoso dell’amministrazione locale di Lynwood, e, almeno all'apparenza, era lo stereotipo della ragazza viziata che sta sempre e solo con una cerchia ristretta di amiche, scelte perché approvate dai suoi genitori.
Improvvisamente, gli tornò in mente che Luke era pazzo di lei, da più di un anno, dopo che, per sbaglio, si erano scambiati i vassoi a mensa, e lei, in un momento, forse, di cordialità, era venuta al loro tavolo con un sorriso smagliante a reclamare il proprio. Ryan si sentì uno sciocco ad averlo dimenticato. In effetti, Luke non faceva altro che nominarla, appena ne trovava l'occasione, tuttavia lui non aveva idea di cosa potesse mai amare di una ragazza tanto snob.
Sapere che se la sarebbe trovata davanti tre volte a settimana, durante l’ora di storia con la professoressa Thompson, non lo rendeva assai felice, nonostante ciò l’amico lo stava fissando con l’espressione di
un cane che aspetta che gli venga lanciata la sua palla preferita.
- E’… fantastico - fu tutto quello che Ryan riuscì a dirgli, visto il suo scarso entusiasmo, e il suo tentativo di apparire contento fu penoso, a quanto pareva. Luke rimase un po’ deluso, e a Ryan dispiacque.
Tuttavia, lui non perse tempo e ricominciò a parlargli di lei, di tutto ciò che aveva fatto in quei dieci minuti che era stato ad aspettarlo, e a guardarla dall’altra parte della piazza, di come il vento le avesse scompigliato i capelli, il sole illuminato gli occhi e così via.
- Non capisci proprio niente, tu - aveva detto semplicemente, prima di riprendere con la sua solita parlantina.
Ryan aveva riso. Sul serio, stavolta.
 
Stavano entrando in aula di storia, nella confusione generale dei corridoi, quando Ryan sentì per la terza volta quel giorno il suo indomabile mal di testa. Si voltò: dietro di lui, in fila, stava Marie Hayes, l’aria annoiata di chi è convinto di aver già dato abbastanza in due ore di scuola. Era una ragazza sotto molti punti di vista comune, aveva i capelli rossi - naturali, analizzò Ryan -, lunghi fino a poco sotto le spalle, e gli occhi castano chiaro. Era assieme al suo gruppo, altre quattro ragazze che sembravano pendere dalle sue labbra.
Facevano battute, ridevano, anche piuttosto rumorosamente.
Senza preavviso, Marie si girò verso di loro, e Ryan si chiese perché lo avesse fatto. Si sentiva osservata?
Si chiese se non fosse stato troppo indiscreto. Tuttavia, fu solo per un secondo, perché poi la ragazza riprese a parlare con le sue amiche.
- Mi ha guardato! Visto, mi ha guardato! -, capì che era Luke, in preda all’eccitazione. Ma la sua voce era lontana, ed era come se ci fosse l’eco. Il corridoio era gremito di gente, il che rendeva la cosa fisicamente impossibile. Il chiasso gli riempiva la testa, le voci di Marie e delle ragazze con lei erano quelle che sentiva più forti.
Ryan sentì una forte fitta alla testa, e più cercava di concentrarsi su Luke, su come si mettesse un piede davanti all’altro, più il dolore peggiorava. Sentiva che c’era seriamente qualcosa che non andava, stavolta, ed era quasi consapevole che c’era di mezzo Marie Hayes.
C’era come una specie di aura scura, che si disperdeva dietro di lei.
Ho le allucinazioni!, annaspò, rischiò di inciampare per la prima volta in vita sua. Qualcuno gli afferrò il braccio.
- Stai bene? -, si accorse che Marie Hayes lo fissava intensamente.
Il dolore e il senso di stordimento scomparvero tutto ad un tratto, e Ryan si rimise in piedi. Si scostò bruscamente: - Tutto bene -.
Le voltò le spalle, giusto in tempo per scorgere la faccia preoccupata di Luke, e fu in classe.
   
 
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