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Autore: Elphie94    16/01/2017    5 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xxxiv.
il mio cuore si apre alla tua voce


 

Ottobre giunse con la brezza autunnale e le foglie bronzee sugli alberi dei boulevard; avevo preso l'abitudine di passeggiare tra quelle vie con lo sguardo perso nella gente che mi passava di fianco, nelle aiuole di fiori ormai quasi appassiti e nel pulviscolo del sole al tramonto. All'orizzonte, era fuoco e fumo, il cielo nient'altro che un torbido ammasso di nuvole accatastate l'una all'altra per formare un morbido cuscino. Talvolta Luc o le mie amiche mi accompagnavano, ma con loro non mi sentivo mai del tutto me stessa, poiché tanti erano i segreti che celavo loro nell'antro del mio animo; tanti segreti oscuri. Con Erik era diverso. Anche il Persiano a volte si univa a me in quelle passeggiate, e da uomo percettivo qual era, non mancò di notare la mia malinconia in quell'autunno appena inoltrato.
«C'è qualcosa che non va, Meg?» mi chiese con l'usuale gentilezza. Giocherellai con il pomo dell'ombrello nero che mi riparava dagli esuli schizzi di pioggia che minacciavano di gocciolarmi lungo il naso.
«Niente più del dovuto, Monsieur» risposi con un sorriso poco vivace. Lui si intristì. Ricordava il fuoco di un tempo, e ora ne vedeva le braci spente. Non voleva che di me rimanessero solo quelle.
«Come sta il nostro comune amico?»
Sorrisi a quell'appellativo. «Bene. Mangia, dorme… e non in una bara.»
«Sì, ho saputo la novità.»
«Convincerlo è stata dura, ma vederlo in quella tomba mi metteva disagio. Anche il solo pensiero mi era insopportabile.»
Naturalmente, Monsieur Nadir non sapeva che condividevo con lui quel letto. Sarebbe stato ancor più imbarazzante. Anche se forse lo sospettava, chissà. Il Persiano trascorreva non poche sere nella dimora di Erik, e io mi divertivo a guardarli giocare a scacchi – o meglio, a guardare Erik stracciarlo di netto – mentre io leggevo un libro e sorbivo una tazza di tè e limone. Eravamo molto uniti, tutti e tre. Dopo la morte di mia madre, erano l'unica famiglia che mi fosse rimasta. Vedevo in Nadir una sorta di figura paterna, sempre così premuroso; quanto ad Erik… preferivo lasciar perdere. Quel che provavo per lui non era affatto amore filiale. Sapevo che cos'era la devozione di una figlia per il proprio padre, e non avevo mai, mai considerato Erik sotto quella luce, perché non gli avevo mai concesso l'autorità necessaria. Eravamo pari, tutto qui.
La camera Luigi Filippo, da prigione dorata di Christine Daaé, era divenuta il nostro rifugio. Entrambi ci appollaiavamo sul letto, sotto le coperte, per parlare o anche solo fingerci di non guardarci in silenzio per ore e ore finché il sonno non ci coglieva. La sua presenza era un balsamo per i miei sogni infetti, e valeva anche il contrario.
C'erano tante cose che di lui ancora non sapevo: una volta mi permise di visitare la sua camera – che non si poteva più dire mortuaria – dove lui lavorava ancora all'organo; moltissimi disegni erano accatastati in un angolo dello scrittoio.
«Sono tutti opera tua?» chiesi, ammirata e costernata insieme. Lui annuì, silente.
Erano schizzi di architettura e paesaggi e, rare volte, persone. Riconobbi Christine, bella come un angelo – e dell'angelo aveva gli occhi, profondi laghi azzurri. Quanto mi mancava. E poi una donna – una donna molto bella, dai capelli corvini, che non riconobbi. Sotto il ritratto vi era scritto Madeleine. Aggrottai la fronte. «Chi è?» chiesi.
Lui s'irrigidì solo leggermente. «Mia madre.»
Rimasi a bocca aperta, a fissare prima il ritratto dell'elegante figura femminile e poi quello, reale, del mio strano amico. Solo il colore dei capelli era uguale. Per il resto, i lineamenti di Erik erano tanto disfatti da renderli simili solo a quelli di un cadavere in putrefazione, per sua enorme sfortuna. Ma questo ormai non aveva più effetto su di me: se non fosse stato così, non sarebbe stato Erik, molto semplicemente.
«Sai che fine ha fatto?»
«Morì anni dopo la mia fuga. Lo venni a sapere quando dalla Persia tornai a Rouen, per visitare la casa della mia infanzia. Niente era più come prima, eppure mi sembrava che il tempo lì si fosse fermato.»
«Non l'hai più vista, dopo che sei scappato di casa a nove anni?»
Lui scosse il capo.
«Tu la odi, Erik?»
«No. Credevo di sì, ma… no. Mia madre non mi diede mai amore nei miei anni infantili. Voleva amarmi, ma non aveva lo stomaco di te e Christine. Pochi ce l'hanno a questo mondo. Ma non la odio. Mi fa solo pena, e questa forse è la cosa peggiore di tutte. Che di lei non mi sia rimasto che questo mio disegno imperfetto, dai tratti ancora adolescenziali.»
Alzai un sopracciglio. «Se questo schizzo è imperfetto, dovresti vedere come disegno io.»
Lui fece una smorfia, ma capii che era divertito. «Preferisco non assistere allo spettacolo, cara Meg.»
Cara. Mi balzava sempre in petto il cuore, molto stupidamente, quando mi si rivolgeva così. Chinai lo sguardo per dissimulare il rossore compiaciuto sulle mie guance, e riposi i disegni nel loro angolino. Ci accingemmo a cominciare la nostra usuale lezione di pianoforte, e misi da parte le mie stupide fantasticherie una volta per tutte. Non era tempo di rimuginarvi su.

 

Ad Ottobre iniziava la nuova stagione all'Opera Garnier. Sussultammo tutte di gioia quando Monsieur Lefevre ci informò che il prossimo balletto ad essere rappresentato sarebbe stato niente meno che Il lago dei cigni.
Ma mancava una prima donna. Caroline, che aveva preso il posto della Sorelli dopo il ritiro di quest'ultima, infatti sarebbe presto convolata a nozze con un ricco mercante inglese, e il suo trasferimento a Londra era imminente. «Tenta un provino, Meg» mi disse prima di partire. «Sei già solista. È ora di sbocciare.»
Annuii e le promisi che avrei fatto un tentativo.
In quel periodo mi concentrai sulla danza come non mai, e non fu facile: ritornata dalla Persia e dagli orrori che lì avevo visto e subito, pensavo che mai sarei tornata a ballare come un tempo. Mi sbagliavo. O meglio, sì, il mio stile era differente – più sentito, più sofferto, più feroce – ma non meno efficace. Padroneggiavo il palco come ai tempi di Giselle.
Mi presentai alle audizioni con la sicurezza di ore e ore di tormentato esercizio alle spalle: se temevo di impazzire, la danza era e sarebbe sempre rimasta il mio cardine, la radice di sanità mentale alla quale mi aggrappavo. Eppure, esibendomi nel passo della morte del cigno, espressi tutta la mia sofferenza, la mia tragicità, la mancanza che sempre avrei percepito nella mia vita. E volai. Così tanto che fui scelta, malgrado alcune imperfezioni tecniche che avrei dovuto risolvere con l'aiuto di Monsieur Lefevre, come nuova étoile del balletto e prima danzatrice. Quando appresi la notizia in anticipo, niente di meno che da Erik in persona – non volevo sapere come ne fosse venuto a conoscenza lui; forse poteva ancora porgere l'orecchio all'ufficio dei direttori, malgrado il suo alter ego spettrale fosse stato, in teoria, esorcizzato – non mi trattenni e lo abbracciai con tanta forza che credetti di stritolargli le costole. Lui si irrigidì, non abituato a quelle manifestazioni d'affetto, ma io lo lasciai andare e lo ringraziai per il tempo che aveva trascorso con me, a sopportare le mie paturnie e a darmi consigli su come avrei dovuto rendere evidente la passione che mi bolliva nel sangue, il fervore che sapeva di genio, anche al pubblico osservante.
«Non è stato un fastidio. Hai talento, Meg: sapevo che prima o poi sarebbe venuto a galla» disse, ancora un po' rosso dopo il mio abbraccio. Io stessa ero vagamente senza fiato, e forse un po' brilla.
«Dobbiamo festeggiare. Stanotte, quando sarò tornata dopo l'uscita con le mie amiche… Invita anche il Persiano. Ah, e prepara la tua bottiglia di vino migliore. Questa è la più bella notizia che mi sia capitata… beh, praticamente da mesi.»
Gli offrii un nuovo sorriso a trentadue denti e sgattaiolai via come un vero topolino, lasciando il gatto solo e alquanto stordito.


La première andò bene come speravo, e anche le repliche seguenti. Ballavo con un'intensità che mai avevo conosciuto prima. Nel personaggio di Odette, tradita da Sigfried che si era innamorato della ragazza sbagliata, scoprivo nuovi accenti tratti dalla mia esperienza: il mio cuore si librava insieme al mio corpicino svelto e magro, e con il pubblico ebbi successo. I critici commentarono con articoli sullo strano “incantesimo” che avevo gettato sulla sala non appena avevo fatto la mia comparsa sul palco nei panni della Regina dei Cigni; tracciavano una linea netta tra la conturbante malinconia di Odette e l'oscura sensualità di Odile, e mi compiacqui di questo. Nessun commento sul colore della mia pelle, per una volta. Bene.
«Oh, Meg, sei stata un incanto» cinguettarono le allieve ballerine quando ritornai nel camerino dal mio debutto. Avevo la stanza invasa da fiori e molti spettatori desideravano il mio autografo. Chiesi qualche minuto per rinfrancarmi e cambiarmi d'abito quando notai che qualcuno bussava… non alla porta, bensì allo specchio a parete. Seppi subito di chi si trattava.
«Sei presentabile? Ti giuro che non sto sbirciando.»
«Se stessi sbirciando sapresti che sono vestita» sorrisi e lo accolsi gioiosamente. Lui si girò i pollici, un po' a disagio. Mi porse un fiore, una singola rosa rossa, che tuttavia per me era più preziosa di ogni altro orpello.
«Sei incantevole.»
«Grazie.»
Arrossimmo entrambi come due scolaretti – eravamo sinceramente ridicoli – e lui si inchinò, prendendomi la mano in un gesto che mi fece rimanere senza fiato.
«Tua madre sarebbe molto orgogliosa di te. Sapeva che questa era la tua strada.»
«Non sei stato tu a pormi una corona sul capo e nominarmi imperatrice. Come vedi, ce l'ho fatta anche da sola.»
«Ed è meglio così, credimi. Il fantasma dell'Opera ha fatto il suo tempo, ormai.»
«Mi raccomando, quando tornerò dalla cena con il cast e gli altri artisti fa trovare pronto il vino.»
Lui rise, con la sua risata melodica che un tempo avevo odiato e che ora amavo più di ogni altro suono al mondo, eccetto forse quello del mio nome stillato dalle sue labbra.
«Vuoi ubriacarti?»
«Voglio fare festa.»
«Se c'è del vino, io sono felice.»
Gli diedi dell'alcolizzato e lui scoppiò a ridere di nuovo, e continuò a ridacchiare come un babbeo quando quasi lo cacciai a forza dal mio camerino, timorosa che qualcuno entrasse di colpo e lo vedesse lì con me. Per quello davvero non avrei avuto una delle mie concise spiegazioni logiche. Dopo essermi cambiata, affrontai la folla in tumulto, ma non avevo paura; ero tuttalpiù annoiata, perché desideravo ardentemente tornare nell'appartamento sul lago – chissà perché. O meglio, per chi.
Accettai fiori e complimenti dalla “gente perbene” di Parigi, mostrandomi onorata di quelle attenzioni. Sapevo che di lì a poco il mio nome sarebbe stato sulla bocca di tutti, insieme ai dettagli noti della mia tempestosa vita passata: il suicidio di mio padre, la morte di mia madre, la mia “malattia” dopo il lutto. Sarei stata un frutto succoso per tutti gli amanti dei pettegolezzi. Ho paura che si accorgano che c'è qualcosa di sbagliato in me, e che mi portino via. Così avevo rivelato una volta ad Erik, molto tempo prima. Dopo la Persia, la sensazione che in me mancasse un ossicino o una cellula, un qualcosa che gli altri avevano e che li conduceva per mano sulle strade impervie della vita, era divenuta una certezza asfissiante.
A mezzanotte, tornai felice all'Opera, nella mia vera casa, nell'appartamento sul lago. Trascorsi la serata a ridere delle penose frecciatine di Erik e delle reazioni esasperate del Persiano, sorseggiando vino rosso e, alla fine, addormentandomi al fianco del mio amico e maestro. 


A Novembre accadde qualcosa che mi costrinse a una riflessione dolorosa.
Era trascorsa la prima settimana del mese, e io ed Erik avevamo appena terminato l'ennesima sessione di lezioni di piano. Stavo diventando sempre più abile, ma questo era anche grazie al mio tirannico insegnante, che però si rivelava sempre meno despota col trascorrere del tempo. Tuttavia, era straordinario.
«Quando festeggi il compleanno?»
Lui si fermò: stava ordinando un plico di spartiti di Liszt – poco prima mi aveva offerto un'esibizione incredibile di una delle sue rapsodie più famose – e mi rivolse un'occhiata accigliata.
«Perché me lo chiedi?»
«Perché è una cosa che non so di te, e mi piacerebbe saperlo.»
«Sei troppo curiosa per il tuo bene.»
«Questo è già appurato. Allora?»
Erik sospirò. «Non mi va di parlarne.»
Aggrottai la fronte. «É successo qualcosa in particolare?»
«Non voglio ricordare.»
Non ci voleva un genio per capire che alla parola “compleanno” era associata una memoria dolorosa. Non volevo pungolarla, e tuttavia… «Il mio è il tre gennaio.»
«Sì, lo so.»
«Compirò ventidue anni fra circa due mesi.»
«So anche questo.»
«E tu?»
Si massaggiò la radice del naso che non aveva. «Lasciamo perdere.»
Sorrisi. «Stupido che non sei altro. Tanto so bene quanti anni hai.»
«Perfetto.» Non gradiva minimamente l'argomento. La nostra differenza di età non gli piaceva, ma non aveva mai creato problemi nel nostro rapporto. Era vero che in molte cose aveva più esperienza di me, con tanti più anni alle spalle, ma in altre… No, c'era un equilibrio e un rispetto altrui nella nostra amicizia che apprezzavo come non mai.
«Il mio compleanno…» esordì lui, dopo una pausa.
Attesi.
«Sono nato il due novembre del 1834. Eccoti accontentata.»
Mi ci volle qualche secondo per assorbire quell'informazione. Poi scoppiai a ridere. Lui fece una smorfia. «Lo trovi divertente?»
«Stai scherzando, vero?»
Erik incrociò le braccia al petto, aspettando che capissi che effettivamente non stava mentendo. Sembrava oltremodo scontento.
«Fammi capire, sei nato il giorno dei morti?»
«Già. Quale assurda ironia, eh? Dio doveva essere ubriaco quando mi ha messo al mondo.»
Sbattei le palpebre. «Io… non so cosa dire.»
«Perché non c'è niente da dire. È ridicolo. Tutto nella mia esistenza lo è, a quanto pare: una improponibile farsa.»
Mi grattai la testa. «Il due novembre è già passato.» Come scorreva rapido il tempo. «Non ti ho fatto alcun regalo.»
Lui si batté la fronte con una mano. «Sei seria?»
«Sì. È importante.» Ci pensai su. «Non hai mai ricevuto un regalo, vero?» indovinai.
Lui annuì mestamente. «Se è per questo, non ne ho neanche mai donati.»
«Ma…?» proseguii io, imperterrita. Davvero ci tenevo a non far passare quell'occasione inosservata.
«Quando mia madre si degnò di spiegarmi cosa fosse un compleanno, avevo sei anni» mi informò. Era appoggiato al pianoforte, le braccia incrociate al petto come a proteggersi dai suoi stessi ricordi. Dal fantasma della madre che non lo aveva mai accettato. «Mi disse che potevo avere un regalo. Io le chiesi se potevo avere, allora, due baci.»
«Ah, certo. Uno ora, un altro per riserva.» Mi aveva già raccontato quella storia straziante.
«Sì. Lei scoppiò in lacrime e io rimasi sconvolto. Mi rifugiai nella mia camera e fui costretto a scendere solo per cena. Era un omaggio al piccolo festeggiato.» Distorse le labbra. «Solo che io decisi di andarci senza maschera.»
Le mie dita ebbero un fremito involuto. Quella storia non avrebbe avuto un lieto fine, riuscivo a intuirlo.
«Mia madre, alla vista del mio viso scoperto, si infuriò selvaggiamente. Se ho ereditato una cosa da lei, è la capacità di diventare spaventoso quando mi arrabbio sul serio. Lei sognava il figlio perfetto, ed io… non ero che un aborto malformato, per lei e la società. Un mostro, e in un mostro alla fine mi sono trasformato. Devi sapere che fino ad allora non conoscevo la ragione per cui dovevo indossare la maschera, per cui non uscivo mai di casa. Mia madre aveva cercato di tenermi nascosta la cosa il più a lungo possibile. In quell'occasione non ci riuscì. Mi trascinò per il braccio, come un bambolotto di pezza, su per le scale fino in camera sua, dove teneva l'unico specchio della casa. Come avrai capito, l'accesso a quella particolare camera mi era severamente proibito. Quando vidi per la prima volta il mio viso smascherato allo specchio, pensai fosse un mostro orribile e ruppi la superficie riflettente in mille pezzi. Ho ancora le cicatrici.» Mi mostrò i segni distorti che portava sui polsi e che ormai conoscevo bene. «Impiegai qualche giorno a capire che il mostro dello specchio ero io. Fu una realizzazione terribile. Un'epifania che non augurerei mai neanche al mio peggior nemico.» Ci pensò un po' su. «Forse.»
«Non so cosa dire» sussurrai, a disagio. «Mi dispiace se ho pungolato queste tue pessime memorie…»
«Non è colpa tua» Erik scosse il capo, e capii che non era offeso. Solo malinconico.
«Quindi niente regalo.»
«Niente regalo.»
Trascorremmo qualche secondo in un quieto silenzio. Io ponderavo.
«Aspetta.» Mi alzai in piedi, abbastanza da arrivargli all'altezza della spalla. Lui mi osservò, incerto.
Sapeva che ero imprevedibile quando mi mettevo in testa qualcosa. «Un regalo posso fartelo ancora.»
Mi avvicinai a lui, che sembrò spiazzato. Non capiva. «Cosa?»
Non gli diedi tempo di parlare, né ne concessi a me stessa per razionalizzare il tutto e mutare idea. «Scusa per il ritardo.» Mi alzai sulle punte e gli baciai la guancia mascherata. Il mio stomaco fece una capriola, e lui non mi fermò, limitandosi solo a sfiorarmi i gomiti – aveva cercato invano di trattenere il mio impeto – e a guardarmi come se fossi pazza.
«Uno adesso, un altro di riserva. Ricordi?»
Lui si toccò dove lo avevo baciato. «Oh.» Si schiarii la gola. «Io… grazie.»
«Figurati.» Sorrisi.
Lui sembrava ancora assai turbato. Gli servì qualche minuto per uscire dal trance in cui era caduto. «Quindi significa che se ti racconto una storia triste sul mio passato mi bacerai di nuovo?»
«Scemo.» Lo colpii a un braccio, ma ridacchiai. «Comunque, dipende da me.»
«Ah. Buono a sapersi.» Era così rosso che le sue orecchie sembravano carboni ardenti. Mi sedetti di nuovo al pianoforte, con aria compiaciuta e vagamente senza fiato. Con un altro segreto nel cuore, l'ennesimo.


La conclusione dolorosa alla quale giunsi arrivò qualche giorno dopo. Eravamo impelagati su un passo della Habanera di Bizet, e lui mi spronava ad esercitarmi fino a scorticarmi le unghie, fino a che quello che sarebbe uscito dal suo strumento non fosse stato perfetto.
«Avanti, forza. Di nuovo.»
Sbuffai, sudaticcia.
«Non posso…»
«Tu puoi fare qualsiasi cosa. Puoi volare su un palco con delle semplici scarpine da ballo dalla punta in gesso. Puoi fare anche questo.»
Sospirai e mi accinsi ad eseguire il passaggio che mi stava creando tante difficoltà e facendo maledire Bizet mentalmente.
«Ecco. Ce l'hai fatta. Visto?»
Sembrava esausto quanto me. Scoppiai in una risata sonora e tamburellai le dita sul pianoforte. Intonai la canzone – malissimo – con una nota tanto stonata che lui si tappò le orecchie e scosse furiosamente il capo.
«Dio, smettila. Questo non si può chiamare canto… Il verso di una cornacchia è più musicale della tua voce.»
Io continuai imperterrita con la mia ridicola versione di L'amour est un oiseau rebelle, costringendolo a tapparsi le orecchie. «Finiscila» mi ingiunse, tirandomi per gioco una ciocca di capelli. Io gli rifilai un pugno sul braccio, ma notai che rideva. Il suono della sua risata mi fermò in petto il cuore. Era meraviglioso, più del suo canto, più della sua musica – niente poteva paragonarsi alla sensazione di pace che m'infuse dentro il solo udirla. Fu come essere immersa in una tinozza d'acqua calda dopo una giornata di grandine e pioggia, un balsamo dal veleno d'ortica che mi ottundeva il cuore e lo intrappolava tra le sue maglie di rampicanti. Fu per questo che non smisi di cantare, se non quando si unì a me, per ascoltare. Fu forse allora che mi resi conto di amarlo, ma non fu un pensiero conscio, quanto l'istinto della belva umana che fiuta il simile e non lo lascia andare mai più. Essersi imbattuti in se stessi, ritrovarsi nella voce di un altro, nei frammenti bruciati della sua anima. Il suo nome era un embrione d'amore e vita nel mio petto. Erik, Erik, pigolava l'uccellino ribelle – il piccolo corvo dentro di me. Erik, Erik, Erik.       


Sono innamorata di lui. Quella realizzazione era terribile. Di notte non riuscivo a dormire, tanto cercavo di dare una logica all'amore devastante e miracoloso che provavo per lui. Era impossibile. Sì, impossibile. Tutto frutto della mia mente malata. Devo essere impazzita sul serio, alla fin fine. Eppure tutti i tasselli del mosaico combaciavano: le mie reazioni al suo tocco, alla sua voce, alla sua risata, l'adorazione che provavo per il modo in cui distorceva le labbra di carta quando sorrideva e il modo in cui mi stringeva delicatamente la mano tra le sue lunghe dita ossute e bianche da far paura. Amavo la sua presenza, tanto che non desideravo altro compagno di vita se non lui – non potevo neanche immaginare un altro uomo al mio fianco. La verità è che non ero mai stata sentimentale: sapevo che un giorno mi sarei sposata, ma era una prospettiva che mi riempiva di noia e che sapeva di monotonia al solo pensiero. Era un dovere che avrei dovuto assolvere per amore di mia madre, ma non mi ci vedevo a sfornare bambini come una giumenta da monta e cambiare pannolini e fare la brava mogliettina. Non che ci vedessi qualcosa di male, solo che… quella non ero io. Ero sempre stata troppo indomita e selvaggia per una vita sedentaria – io che sognavo di viaggiare, di vedere il mondo, di calcare i palcoscenici di molti celebri teatri… Non mi sarebbe dispiaciuto avere un compagno al mio fianco, però. Amavo la solitudine, ma nessuno può rimanere da solo per sempre, neanche Meg Giry in tutta la sua testardaggine. Soprattutto, non ora che avevo perduto del tutto la mia famiglia. Ora Erik era la mia famiglia. E, Dio, lo amavo tanto da farmi venire le lacrime agli occhi.
Ma non era logico: la sua faccia era oggettivamente ributtante, il suo carattere difficile più del mio… e tanti erano gli anni che ci separavano. Al pensiero, avevo voglia di urtare la testa contro il muro. Cosa mai poteva offrirmi una creatura simile? Non m'importa, diceva l'uccellino ribelle dell'amore (come nella canzone di Bizet) nel profondo del mio animo. Ma io non ero mai stata brava a dare ascolto ai palpiti del cuore.


Fu difficile nascondere la mia spaventosa realizzazione in quei giorni. Le settimane trascorrevano rapidamente, e presto le mie preghiere furono esaudite: Coppélia era il nuovo balletto in programma, e Monsieur Lefévre fu rigido nel prepararmi al meglio per quella parte. Qualcos'altro a cui pensare. Per timore che la mia “malattia” – se il mio amore si poteva definire tale – trapelasse in qualche mio gesto o parola, evitavo di trascorrere con Erik più tempo del necessario, informandolo che dovevo esercitarmi per la parte, che avrebbe assicurato la mia fama crescente di prima ballerina dell'Opera Garnier (anche il solo pensiero a volte mi pareva un sogno distante). Erik capiva e non obiettava, ma lo vedevo sempre più spesso raccolto nei suoi pensieri, durante le nostre lezioni di pianoforte, e vago. Anche lui, come me, ponderava qualcosa di importante.
Una volta lo sorpresi a sognare ad occhi aperti, lo sguardo vitreo oltre la solita maschera.
«Erik?»
Non rispose. Ripetei il passo del brano su cui ero bloccata, e puntualmente sbagliai.
«Erik!»
Di nuovo, non rispose.
Schioccai le dita e lui ritornò alla vita, sbattendo le palpebre.
«Cosa?»
«É mezzanotte passata.» Di solito le nostre lezioni non duravano che una, al massimo due ore. Era la notte che apparteneva a lui, solo che dormire insieme nello stesso dannato letto stava diventando difficile. Non di rado una vampata di calore mi inondava le membra e provavo il desiderio quasi palpabile di toccarlo e… No, non dovevo pensarci. Era ridicolo. Di più, io ero ridicola. Illogico, illogico, illogico. Me lo ripetevo come un mantra, come se questo servisse a placare il mio ardore. Quasi non avrei voluto rendermi conto dei miei sentimenti per lui: ero certa di esserne innamorata da più tempo di quanto fosse decente – forse da prima della partenza di Christine – ma era stato così semplice fino ad allora. Stare vicino a lui era una benedizione, eppure io tremavo al pensiero di essere felice.
«A cosa pensavi?» gli dissi, cauta, rimettendo in ordine gli spartiti e le mie gonne. Vestivo ancora e sempre di nero, in segno di lutto per mia madre.
«Io… è sciocco.»
«Sono tutta orecchi.»
Lui sorrise, e mi riempì il cuore. «Sai, non sei il mio confessore.»
«Beh, pensavo solo che magari ti avrebbe fatto piacere parlarne con qualcuno che…»
«Sto scherzando, Meg.»
Oh, il modo in cui pronunciava il mio nome… come un sospiro, o una preghiera. Povera me.
«Non pensavo a nulla di importante. Stai tranquilla.»
«Ne sei sicuro?»
Lui annuì.
Mi giungeva sempre alla mente il dubbio assillante che il suo desiderio di morte non si fosse placato davvero. E come avrei fatto se…?
Cercai di non pensarci.
C'era una cosa che mi disturbava quasi più di ogni altra, ragionai mentre mi cambiavo e indossavo la veste da notte. M'infilai nel letto e chiamai Erik, perché si sistemasse nella solita poltrona a suonare il violino – la mia ninna nanna, come la definivo tra me e me, prima di stendersi sotto le lenzuola e dormire accanto a me, facendo da angelo custode ai miei sogni tormentati. Mentre egli suonava un assolo improvvisato di una meraviglia sconosciuta, io riflettevo sull'impossibilità che il mio amore per lui si tramutasse in qualcosa di concreto e non semplici castelli in aria. Christine, pensavo. Non provavo alcun rancore verso la mia vecchia amica, ma che lui fosse ancora innamorato di lei era un dato di fatto che non potevo contrastare. Come potevo, d'altronde, competere con Christine? La sua bellezza, la sua bontà… Sarebbe stato come paragonare un usignolo a un corvo. Una cornacchia bruttina e impaziente, ecco cos'ero. Non il meraviglioso cigno bianco, non la perfezione di una voce da serafino. Christine… nella sua mente e nel suo cuore ci sarai sempre e soltanto tu.
 

Si avvicinava dicembre, e così il Natale. Il primo Natale senza mia madre… Andavo a visitare spesso la sua tomba, al cimitero dove avevano seppellito il suo povero corpo sventrato. Vi portavo fiori freschi, così come a quella di mio padre. «Mi manchi da morire, Maman» mormorai con le mani congiunte e gli occhi fissi sulla lapide, un giorno che la neve aveva deciso di far visita al cielo di Parigi. La sognavo molto, e mi svegliavo sempre con la testa dolorante e gli occhi umidi, dopo.
«Sei sicura di non voler venire a casa nostra? Mia madre sarebbe felice di accoglierti tra noi» mi disse Juliette durante una pausa tra le lezioni di danza. Riannodai il nastro delle mie scarpette da ballo alle caviglie.
«Non preoccuparti. È che non me la sento di stare in compagnia. Berrò una buona cioccolata calda e andrò a dormire presto. Sarà più semplice così.»
Avevo dato la stessa risposta a Luc, che eppure aveva insistito perché trascorressi la sera della vigilia con lui e i suoi amici e il suo stuolo di grisette adoranti.
«Lo so che è difficile per te, però… trascorrere da sola il giorno di Natale…»
«Non preoccuparti» le ripetei per l'ennesima volta. «Festeggeremo tutti insieme al ballo di Capodanno.»
«Mmm, tu mi nascondi qualcosa.»
La guardai con nuovi occhi. «Che intendi dire?»
«Hai una luce nello sguardo che non ho mai visto prima in te.»
Certo che era percettiva. Risi e chinai il capo.
«Non capisco, davvero.»
«Sei troppo tranquilla. E tu non sei mai tranquilla.»
Arrossii e scossi la testa. «Non so a cosa ti riferisci.»
Lei mi rivolse contro un dito e la sua bella bocca assunse la forma di un oblò. «Meg Giry che arrossisce! Questa sì che è una visione.»
«Non dirlo in giro. Ho una certa reputazione, io» replicai in tono duro, ma lei sapeva che in fondo era bonario.
«Può entrarci… qualche giovanotto?»
Arrossii ancora. Non vedevo nulla di male nel… «Una cosa del genere.»
«Non è Luc?»
Sbuffai. «No, non lui, tranquilla.» É qualcuno con una nomea molto peggiore della sua. Se avesse conosciuto l'identità dell'uomo di cui ero innamorata… Avrei pagato pur di vedere la sua espressione, ma dovevo mantenere il segreto. Ormai ero un'esperta in merito.
«E com'è? È bello? È ricco?»
Per poco non mi strozzai con un fiotto di saliva. «Non lo definirei esattamente bello…»
«Oh, beh, non importa, basta che piaccia a te. Non puoi proprio dirmi nulla su questo misterioso giovane?»
«Che non è più giovane.»
«Oh.» Si grattò la punta del nasino alla francese. «Di quanto è più vecchio di te?»
«Ehm…» Davvero non volevo rispondere.
«Meg, non sarà sposato
«No, no, assolutamente. E comunque, non accadrà mai nulla fra di noi.»
Lei si rattristò. «Perché dici questo?»
«Non potrebbe mai ricambiarmi» sospirai io. «Dal momento che è innamorato di un'altra donna.»
«Oh» fece Juliette, corrucciata. «Mi dispiace, Meg.»
«Non dispiacerti. Sarebbe comunque una follia. È troppo vecchio per me.»
Alla smorfia della mia amica, vidi di aggiungere: «Non tanto, non preoccuparti. In ogni caso…»
«Deve essere un uomo straordinario se ha attirato l'attenzione del lupo solitario della compagnia» scherzò lei, e io risi, annuendo. «Ha molte qualità… inimmaginabili.»
Juliette fu abbastanza educata da non chiedermi altro in merito, né io aggiunsi altro. Quel che avevo detto era già troppo.
Ed io ero in trappola.


Il suo viso non mi faceva più paura. Non eravamo più nemici. Lui adesso era casa, era… tutto ciò che di buono rimaneva della mia vita disastrata. Dopo quel che avevo passato…
Fui brava a tenere nascosto tutto ciò anche al Persiano, che eppure dovette dedurre qualcosa dal modo in cui a volte lo sorprendevo a guardarmi preoccupato, proprio mentre io mi sentivo costretta a distogliere gli occhi da Erik. Che nel mio modo di guardarlo fosse così evidente che…?
Eppure Erik non sembrava capirlo. Certo, in alcuni momenti si comportava in modo strano. Mancava qualche giorno alla vigilia, ed io ero appollaiata sulla solita poltrona ad ascoltarlo suonare il pianoforte, quando udii la sua voce squillarmi nelle orecchie come un campanello d'allarme.
«Sei sicura di voler restare qui anche a Natale?»
Sbattei le palpebre come davanti a una luce molesta.
«Puoi ripetere, scusa?»
Lui si schiarì la gola. «Insomma… credo che tu abbia bisogno di aria e luce, e… come si chiama, quel tuo giovanotto…»
Aggrottai la fronte. «Conosci Luc?»
«É il mio teatro.»
«Ah, certo. Come ho fatto a dimenticarmene.»
«Beh…» Improvvisamente tacque. Agitò le lunghe dita sui tasti dello strumento senza pigiarne alcuno. Questo sì che era strano.
«Io sto bene qui.» Sorrisi e gli feci cenno di proseguire la sua sonata. «Certo che ho bisogno di aria e luce, ma anche di questo posto. Posso fare la spola tra entrambi.»
«Se davvero lo desideri…» Non sembrava crederci sul serio.
«Certo che sì» lo rassicurai. Scossi il capo e tornai a chiudere gli occhi, attendendo che ricominciasse a suonare. Che strano uomo che era.


Natale incombeva su di noi come un mantra, per rammentarci che, oltre all'altro, eravamo soli. Ma sapevo di essere già abbastanza fortunata ad avere perlomeno lui al mio fianco: avevo rischiato di perderlo molte volte e non volevo ripetere l'esperienza. Per il resto, avevo perso tutto.
Fu il giorno prima della vigilia che accadde quel che avevo temuto: un cambiamento che ci portò a un punto di svolta notevole.
«Scusa se vengo qui in anticipo» gli dissi dopo essere entrata nell'appartamento sul lago – la Sirena ormai non funzionava più – senza che lui se ne avvedesse. Gli comparsi di spalle, con lui che sobbalzava, seduto al pianoforte, al suono della mia voce.
Dal suo atteggiamento, compresi subito che qualcosa che non andava: si affaccendava a sistemare il plico di spartiti imbrattati di inchiostro fresco e ad evitare così di sporcarsi le dita di rosso, senza successo.
«Stai bene?» chiesi, accigliata.
«Non ti aspettavo» mi rispose lui, dandomi sempre le spalle.
«Erik, ti sei dimenticato della nostra lezione?»
«No, io… avevo da fare, e…»
Vederlo così agitato era oltremodo bizzarro. «Allora» cominciai, avvicinandomi, e notai una scritta – era impossibile sbagliarsi – di un color sangue vivo su uno dei fogli di pergamena che lui cercava di nascondermi invano.
Marguerite, diceva.
«Aspetta un attimo» gli posai una mano sulla spalla, e lui fremette. Fece per ritrarre il foglio, ma io lo afferrai prima che potesse acciuffarlo e lo scandagliai per bene, evitando i suoi deboli tentativi di riprenderselo.
«Meg…»
«Questo cos'è?»
Gli sventolai sotto il naso (metaforicamente) la pergamena colpevole. Non ero affatto arrabbiata, solo curiosa e… imbarazzata. Lui sembrava vergognarsi da morire, ma mi diede comunque una risposta.
«Uno spartito.»
«Questo lo vedo.» Era inutile spiegare a cosa mi riferissi nella mia sorpresa. Perché quella composizione portava il mio nome?
«Io… l'ho scritta pensando a…» arrossì di nuovo. Si schiarì la gola e si diede un'aria più dignitosa. «Pensando che ti sarebbe piaciuta. È il tuo regalo di Natale.»
«Una sorpresa?»
«Avrebbe dovuto esserlo, sì. Ma poi sei venuta tu a rovinare tutto, come sempre.»
«Sono nata per darti fastidio.» Sogghignai e gli feci cenno di accomodarsi al pianoforte. Lui obbedì, quasi dolorante nei movimenti freddi, robotici, tesi.
«Puoi suonarla?»
«Non è conclusa.»
«Mi piacerebbe comunque ascoltarne un'anteprima, se è possibile.»
«Aspettavo Natale per…»
«Non riuscirei ad aspettare neanche un'ora di più. Sono troppo curiosa.»
«L'ho sempre detto che l'eccessiva curiosità sarebbe stata la tua fine, Meg Giry. E quella lingua lunga che ti ritrovi.»
«Sono sopravvissuta finora.»
Erik si fece coraggio e lasciò che le sue dita scivolassero sul pianoforte. Lo toccava con la delicatezza di un amante. Rabbrividii al pensiero.
Suonò con una dolcezza inusitata, tanto che fremetti dall'interno e lacrime di commozione mi bruciarono gli occhi. E non ero una lacrima facile. Il brano era semplice, ma sincero e tenero come un cuore di burro. Era ciò che provava per me. Era tutto quello che non riusciva a dirmi. Quando smise di suonare, tirai su col naso mentre lui si sgranchiva le dita.
«Ecco, la devo ancora finire. Fin qui è…»
«É meravigliosa» completai io per lui. Si voltò a guardarmi, sorpreso dalle mie gote arrossate, dai miei occhi luminosi.
«Davvero ti piace?»
«Non ho mai udito composizione più bella. Sei un vero genio, Erik.»
Lui chinò il capo al complimento e si alzò in piedi, rimettendo in ordine lo spartito. Lo seguii, senza parole.
«A Natale ti farò ascoltare la versione completa. Ho pensato a tanti tipi di regali, ma questa è davvero l'unica cosa che sappia fare…»
«Sai fare molte cose» lo redarguii con un sorriso commosso. «Non è da te essere modesto.»
«Beh, sì. Credo che tu abbia ragione.»
Ci fronteggiammo entrambi, lievemente euforici.
«Posso darti il mio regalo?»
Lui ammiccò. «Adesso?»
«Beh, almeno una piccola anticipazione. So che non potrò cavarmela sempre così, ma…»
«Di cosa stai parlando?»
Era palesemente confuso, dal momento che non mi vedeva con alcun pacchetto in mano, e si domandava quale fosse il misterioso dono.
«Uno adesso, l'altro di riserva. Ricordi?»
Non fece in tempo a commentare che gli gettai le braccia al collo e mi alzai sulle punte per baciarlo sulla guancia mascherata. Ma in qualche modo era troppo vicino, e io sentivo il suo odore, e ne ero fatalmente intossicata…
Prima che entrambi ce ne rendessimo conto, premetti le labbra sulle sue in un bacio casto ma ardito. La sua bocca era immobile e gelida contro la mia: mi avvidi che non stava ricambiando il bacio. Presa dal terrore e da un improvviso gelo interno, mi allontanai da lui con la rapidità di un felino.
La sua reazione fu del tutto drammatica – come avrei dovuto aspettarmi, e come era nel suo carattere. Si portò una mano alla bocca e strabuzzò gli occhi, quasi non credesse a quel che era appena accaduto. Lo avevo baciato, e non sulla guancia. Notai che tremava verga a verga. Si accasciò sul pianoforte, d'un tratto senza forze.
«Perché l'hai fatto?» chiese. Non in tono accusatorio, ma disperato.
Io stessa ero rimasta immobile come una statua – silente e inflessibile – e non riuscivo a proferire parola. Mi sforzai e mi umettai le labbra improvvisamente aride.
«Io…»
Il suo perché? ancora mi ronzava nella testa, come una mosca fastidiosa. Perché sono innamorata di te, brutto idiota.
«Io…» tentai di nuovo. Non avevo la forza. Dio, che cosa ho fatto? Mi voltai e corsi via per la strada da cui ero venuta, e lui non mi richiamò indietro.



Note dell'Autrice: Eccomi con un nuovo capitolo. Ormai ne mancano solo due e poi l'Epilogo, e… The End. Mi rattrista, ma è così.
Che dire, questo capitolo porta il titolo della mia storia, tratto da quello dell'omonima aria di Camille Saint–Saëns, quindi è il più importante… anche solo perché è qui che – finalmente! – Meg si rende conto di essere innamorata di quel testa dura di Erik. Che vi aspettavate dalla sua reazione? Inutile dire che, essendo lei una persona poco avvezza alle romanticherie, non ha fatto salti di gioia. E tuttavia, il bacio… Un bacio inaspettato per entrambi. Probabilmente Erik è fortunato a non essere caduto a terra svenuto per la sorpresa. Cosa accadrà dopo? Si accettano scommesse. XD
Vi avverto che, letto il prossimo capitolo, vorrete uccidermi. Preparatevi.
E ora, le recensioni:

Jessica24: Allora, cara, che dire… Ehm, mi dispiace, e – senza fare spoiler – non aspettarti un lieto fine. Te lo dico per avvertirti. Come già letto nel prologo, l'aria di totale depressione che circonda Meg trent'anni dopo questa vicenda ha una sua ragion d'essere. Meg – si è capito – aveva problemi di depressione, ansia e stress post traumatico da anni (ma non mi azzardo a fare una diagnosi; non sono nessuno per farlo, solo che si riconoscono i sintomi, povero cuore). E ora, dopo la morte di sua madre e le cose che sono accadute in Persia – non proprio una piacevole vacanza – l'hanno fatta cadere in un abisso da cui si rialza mano a mano grazie alla sua forza d'animo, all'amore per la danza e a quello per Erik. Non le rimane altro.
Il problema del finale della storia, ti dirò, non sta tanto nel fatto che Meg ha paura di non “valere più a nulla” se sposa Erik: la differenza sostanziale tra lei e la Cathy di Cime Tempestose è che, a differenza di quest'ultima, a Meg non importa nulla del suo status sociale. È ambiziosa, certo, vuole a tutti i costi essere prima ballerina – e ci riesce – ma non le importa della ricchezza (sebbene Erik sia ricco, con tutti i soldi che – credo? – abbia guadagnato in Persia, in qualità di macchina assassina, molti anni prima) né del parere degli altri. Come ho scritto nel lontano primo capitolo, Meg ha sempre combattuto contro un fato avverso che non poteva controllare – perché contro alcune cose, come la morte, davvero non possiamo fare niente, se non appunto andare avanti. E ti assicuro che Meg andrà avanti malgrado tutto. ^^
Molto brava anche nel notare che la citazione che hai riportato dallo stesso Cime Tempestose appare molto adatta ad Erik e Meg, ed in effetti è stata una delle mie fonti d'ispirazione per il loro rapporto. Qualche altra lettrice bravissima l'aveva già detto – non ricordo chi, esattamente, scusate, sono pessima XD – e ora ribadisco a te, come a lei allora, che malgrado le somiglianze tra il caratteraccio di Heathcliff ed Erik (possessivi, dominanti, vendicativi, rabbiosi, ecc.), per fortuna il rapporto tra lui e Meg fa bene ad entrambi e li aiuta a crescere, a conoscere meglio se stessi e l'altro, e a maturare. Insomma, non è distruttivo, o almeno non era mio intento che lo fosse.  Anche se nessuno dei due è proprio un raggio di sole, eh. XD
Grazie anche per i complimenti sull'aver mantenuto salda l'amicizia tra Meg e Christine, a differenza di Love Never Dies (non mi far parlare al riguardo, altrimenti scriverei un papiro: dico solo che Webber ha reso tutti i personaggi completamente OOC – sì, anche Erik, che non sembra essere cambiato affatto dal primo musical e non aver capito niente di importante dalla compassione di Christine). Sì, Meg è un po' gelosa di Christine, è naturale, ma non le vuole male, assolutamente: anzi, la considera una sorella e una grande amica, e la donna che ha fatto comprendere ad Erik cosa significhi veramente amare qualcuno. Se non fosse stato per Christine, Erik non sarebbe cambiato e Meg, per quanto attratta da lui, non se ne sarebbe mai innamorata fino a questo punto. Quindi sì, grazie, Christine! **
Ti piace Sansa, dunque? Piace molto anche a me. È cresciuta tantissimo dal primo libro, non trovi? Tu che cosa pensi del fatto che nel telefilm le hanno fatto sposare Ramsay al posto di Jeyne Pool? Io avrei voluto ammazzare i produttori con le mie stesse mani. Meno male che si è vendicata, alla fine… Ma quello che ha passato le rimarrà sempre addosso, povera piccola.
Per concludere – scusa il rant XD – i musical sono la mia passione e sì, è bello conoscere qualche italiano che la condivide! Quali altri musical ti piacciono? Io sono andata a vedere Wicked a Londra anni fa, è stato il mio primo musical. I miei preferiti sono Phantom – per l'appunto XD – Les Misérables e Hamilton. :)
Un bacio, cara! :*

P.S. Oh, sì, mi piacerebbe leggere qualche ff in inglese, ma aspetto la fine della storia (tanto ormai manca poco) per non farmi influenzare inutilmente. Tu che ne dici? Sono troppo paranoica? XD

Facy: Cara, non ho frainteso la tua recensione allo scorso capitolo, si vedeva che era più che positiva (infatti dopo averla letta sono rimasta con un sorrisone ebete stampato in faccia per mezz'ora XD), ero solo curiosa riguardo le “inezie” a cui hai accennato. Voglio migliorarmi, e le critiche costruttive sono sempre ben accette. Anche i consigli, se è per questo! Anch'io a questa storia darei una rifinitura in alcuni punti, comunque. ^^
Un punto curioso che non ho mai avuto modo di spiegare qui: all'inizio, Erik dà a Meg subito del “tu”; questo ai tempi era, ovviamente, maleducato – pfft, figurati se a Erik importa XD – e rude, soprattutto nei riguardi di una donna. O così immagino. La stessa Meg infatti non lo sopporta, e se gli dà del “voi” all'inizio, per poi passare rapidamente al “tu”, è perché lui la rimprovera al riguardo e lei non vuole finire strangolata. Il fatto che si diano del “tu”, a differenza di Raoul e Christine, o di Christine ed Erik stesso, è perché sono due maleducati. XD E poi, beh, per evidenziare la familiarità che entrambi maturano l'uno nei confronti dell'altra. Ma questa è un'altra storia.
Davvero trovi che Meg non sia un personaggio banale? In effetti, a parte le “basi” che io non potevo cambiare (la passione per la danza, l'essere figlia di Madame Giry e amica di Christine) davvero è stato come scrivere un po' di un OC. Non volevo creare nessuna Mary Sue, né rendere Erik un odioso Gary Stu (ho scritto bene? XD), quindi grazie per avermi rassicurata al riguardo. ^^
Sì, come hai detto tu, Meg inizia davvero ad abbracciare il suo lato oscuro, senza rinnegare quello luminoso: tutti siamo composti di luce e oscurità, d'altronde. Si vede anche come in questo capitolo, lei stessa dica ad Erik che ha bisogno di “luce ed aria, ma anche di questo posto”, ossia dell'appartamento sul lago, che è oscuro e freddo. Ovviamente è una metafora. XD
Un punto: non credo che la Meg di trent'anni dopo si possa definire “vecchia” nel vero senso della parola; ha cinquant'anni, non settantacinque. XD Ha tre anni in più di Erik che, ricordiamo, non è propriamente un giovanotto – ha quarantasette anni, il bellimbusto. XD (Dio Santo, ma non è che la loro differenza di età è un po' troppo esagerata? Non è colpa mia, giuro. XD Nel libro, Erik ha più o meno quell'età, si capisce, e certo non potevo scrivere di una Meg trentenne se Christine ne ha venti e Raoul ventuno, non ti pare? Dio santo. Perché una volta, scherzando, ho chiesto a mia madre cosa accadrebbe se mi mettessi io con un quarantasettenne – ho la stessa età di Meg, ventidue anni – e lei ha detto che a mio padre verrebbe un infarto. Non che abbia torto, povero XD)  Ehm, ehm. Tornando alla recensione, davvero ti stava venendo da piangere? Beh, non hai idea di cosa ti succederà nel prossimo capitolo, allora… Non spoilero nulla. Inutile dire che adesso mi metto a piangere io per tutti i complimenti, basta, mi danno alla testa! Io che sono famosa per essere molto dura per me stessa, poi… Forse un po' troppo, me lo dicono tutti. ^^
Hai ragione nel dire che Erik e Meg non finiranno per cavalcare insieme verso il tramonto, ma ti giuro che sì, lui è molto amato. E lo capirà prima della fine, stai tranquilla.
Un bacione! <3

P.S. Un altro dei tuoi immancabili post scriptum, please? Quel “cavalcate verso il letto” mi stava facendo morire dal ridere. XD

   
 
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