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Autore: Julian_Carax    16/01/2017    0 recensioni
Il sovrano di Venupia è un tiranno, costringe il suo popolo alla miseria e alla fame. Fa, dei suoi eserciti e dei maghi al suo servizio, insuperabile scudo, che la rabbia degli oppressi non riesce nemmeno a scalfire. L'ultima ribellione, posta in atto solo pochi anni prima, ha ottenuto di far traballare lo scranno del sovrano, senza tuttavia riuscire ad estrometterlo dal potere; gli eroi della rivolta sono stati domati nel sangue, i sopravvissuti sfuggono la luce del sole. Una sola speranza sopravvive, e porta il nome di una ragazzina, attorno alla quale, nella sua inconsapevolezza, si scontrano gli opposti desideri delle due fazioni: il sovrano brama la sua eliminazione; le milizie ribelli hanno giurato di proteggerla, in attesa di poterne fare, un giorno, bandiera di un nuovo moto di liberazione.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2) Il fascio di luce
 
Viaggiarono durante la notte, per non dare nell’occhio, procedendo dapprima nel labirinto di stretti sentieri ricavati fra le colline; seguirono i contorni dei dolci pendii pittati di bianco, la cui superficie, che a Lia pareva liquida, era riflesso argentato dei raggi lunari. Deviarono spesso dalla linea retta, nel tentativo di ignorare le impegnative pendenze che avrebbero fiaccato i destrieri, e di evitare il terreno ghiacciato e perciò assai scivoloso. Quando superarono il profilo dell’ultimo colle si lasciarono alle spalle anche un corso d’acqua dal letto ristretto e però assai profondo, percorrendo un vecchio ponte eroso dal tempo e ammantato da un profondo silenzio; il fiume, che scorreva sotto le sue tre campate, era allora ghiacciato. Riprese a nevicare. Pochi minuti furono sufficienti al mutevole clima per trasformare un fievole e gelido vento in una bufera dotata di spaventoso vigore, che non lesinò la propria forza nei ripetuti schianti sulle membra provate dei cavalieri. Lia era accucciata sul dorso del cavallo, fra il collo dell’animale e il corpo dell’uomo che stringeva le redini, e questo non impediva all’infida aria di penetrarle le ossa; la protezione del mantello, che pure le era stato generosamente posato sulle spalle, non si rivelò sufficiente.
La tormenta, irosa custode del cammino, era decisa a respingere la comitiva, o quantomeno a frenare il suo avanzare. Ad un certo punto parve intensificare la sua furia; i cavalli si arrestarono, e al riparo di un grosso blocco di roccia, che garantiva un accettabile e temporaneo riparo, si diede vita ad un rapido consulto. La sommità della pietra aveva forma allungata, e disegnava un arco sullo sfondo del cielo nero. Lia era seduta sulla neve, le ginocchia strette al petto, in attesa che gli adulti decidessero del suo futuro, e intanto osservava il gioco della luna, che compariva ad intermittenza fra i nuvoloni scuri.
Il suo viaggio era stato duro, irto di difficoltà, prima fra tutte quella rappresentata dal freddo, e la ragazzina conviveva con le profonde ferite inferte dalla recente perdita; non si erano ancora rimarginate. Lo avrebbero mai fatto? E nonostante tutto questo, bisogna ricordare e sottolineare ancora una volta, come ella non avesse mai avuto la possibilità di allontanarsi troppo dalla casa in cui era cresciuta, e non aveva mai potuto riscoprirsi uccello migratore. Un’avventura come quella, che per chiunque altro avrebbe potuto assumere i connotati di una ribellione alla monotonia dei giorni, si rifletteva nei suoi occhi in un’incredibile sequenza di nuove scoperte. Il suo corpo aveva da tempo assunto le morbide curve della donna, nonostante i suoi occhi fossero ancora quelli di bambina, e per principiare la loro trasformazione sarebbe stato fattore indispensabile la conoscenza del mondo; il processo conobbe il proprio inizio proprio durante quella notte.
“Non possiamo arrestare la nostra marcia”, urlò l’uomo con il bastone, sovrastato dagli ululati del vento. “Dall’alba al tramonto ci è proibito cavalcare, sarebbe troppo pericoloso. E non manca molto alla rinascita del disco di luce”. Lanciò un’occhiata ad Oriente, riparandosi gli occhi dalla tormenta, come in attesa di qualche segnale che confermasse la sua teoria. “Poco più avanti, sulla strada, c’è un’osteria. Lì troveremo riparo, e potremo riposare”.
“D’accordo, Arenor”.
Ripresero il cammino, a passo sempre più lento a mano a mano che la barriera di neve sulla strada diventava più profonda. Toccarono la coda di un bosco che, più a sud, occupava monti e pianure, e finiva per fare da confine ad ignoti regni; attraversarono la sua parte terminale, l’ultimo rado assembramento di alberi, la retroguardia di quell’esercito immobile di conifere; conservavano gloria e ricordo di una mirabile vittoria, ottenuta secoli prima, in alleanza delle truppe vandaliche di contro alle avanzate delle milizie regie. Storie mitizzate e quasi dimenticate, appartenenti ad un passato che raccoglieva uomini capaci alla ribellione.
La comitiva sbucò oltre un passaggio aperto fra le ripide pendici dei monti, in un’ampia valle che apparve loro immensa, immacolata distesa di neve. Di fronte a quello spettacolo singolare, Arenor arrestò il suo frisone nero.
I cavalieri lo imitarono, e i quattro uomini se ne stettero lì, in attesa, a contemplare l’insormontabile ostacolo. Poi un cavallo si mosse; il giovane cavaliere si era inginocchiato ore prima alla comparsa di Lia, provocando il disappunto di Arenor. Avanzò, a testa alta nella tormenta, il coraggio compiaciuto di un giovane combattente che ha qualcosa da farsi perdonare. La ragazzina sbirciò la scena dalle alte falde del mantello, e il suo sguardo si fissò sulla schiena d’acciaio del ragazzo; non comprese l’entità del pericolo, piuttosto la avvertì, e provò un’indicibile pena per lui. Fosse sprofondato nel banco di neve, in che modo avrebbero potuto tirarlo fuori? Rischiando le loro vite? Per lui lo avrebbero fatto?
E con violenta chiarezza, la verità si mostrò al cuore di Lia: loro, tutti loro, stavano rischiando la vita per lei, al fine di sottrarla all’angoscia della solitudine.
Uno scricchiolio minaccioso accompagnò i primi passi del destriero, mentre le sue gambe sprofondavano nel bianco fino alle ginocchia. Stettero con il fiato sospeso, in attesa del seguito; non accadde nulla.
“Scellerato d’un ragazzo!”, tuonò Arenor, evidentemente sollevato. “Galdin, sei forse stanco di vivere?”.
“Affatto”, sorrise quello, di rimando. “Venite pure, uno per volta. Sotto il cumulo di neve si è formata una lastra di ghiaccio. Deve esserci un lago qui sotto”.
“Qui non c’è nessun lago”, sussurrò Arenor. Poi sollevò la testa, a scrutare la sommità delle cime che li circondavano. Da quella sulla destra partì un bagliore azzurro. Indifferente al vento, e insensibile alla tempesta, non virò la sua traiettoria lineare, che si estinse sulla figura del cavaliere. Seguì uno sbuffo di neve, uno schizzo d’acqua, che ricadendo venne nuovamente inghiottito dal bianco. Quando la polvere si fu nuovamente adagiata, di Galdin non c’era più traccia.
Lia era paralizzata dal terrore, incapace di reagire. Uno dei due cavalieri urlò il nome del ragazzo, l’altro invitò con frenesia la sua cavalcatura ad avanzare. Arenor fu più veloce, sbarrò loro la strada. “No”, disse con fermezza. “Non uscite allo scoperto, o morirete”.
“Non possiamo lasciarlo morire!”.
“È già morto! Questa valle è un’immensa trappola”.
“Sai chi sono?”, chiese allora il soldato più anziano, che portava due lunghi scuri favoriti.
“Si tratta con ogni probabilità di una delle compagnie dissidenti”.
“Diamine, Arenor! Solo dalla nostra parte”.
“Vestiamo la casacca sbagliata”.
“Era solo un ragazzo”.
“Lo so, ma ognuno di noi era consapevole del pericolo che avrebbe corso. Facciamo sì che questo viaggio non sia stato vano. Troveremo l’osteria oltre la valle, dietro il profilo della nuda roccia. Aggireremo la montagna”.
Gli animali voltarono sulla destra, e presero a marciare, più adagio per la fatica, nitrendo sotto il giogo della tormenta. Lia aveva perso sensibilità alle dita delle mani. Sentiva il morso del freddo, che riusciva a penetrare le sue vesti, e quello della paura, una paura viva, come non aveva mai sentito prima di allora: un cavaliere era morto proprio davanti ai suoi occhi. Aveva incontrato altre volte la morte, ma mai l’aveva vista agire per mano di un altro essere umano. Tremava sulla sella, per il freddo e per il terrore.
“Ci avranno visti?”, domandò un cavaliere.
“Spero di no”, rispose Arenor, secco.
 
Nei pressi di una diramazione, la comitiva imboccò il sentiero che serpeggiava nella nebbia verso sinistra. Nella manovra, uno dei cavalli scivolò sul banco di ghiaccio; il cavaliere finì riverso nel mare bianco. Si rialzò, la pelle illividita dalla prova, e si issò nuovamente in sella battendo i denti. La tormenta non dava segni di cedimento, e quando finalmente la comitiva giunse a poche centinaia di metri dalla locanda, Arenor si meravigliò che infine fossero riusciti a completare la tappa. Pure, avevano perso un uomo, e questo abbandonava ognuno di loro ad un sentimento di rabbiosa mestizia.
L’uomo con il bastone lanciò un’ultima occhiata in alto, alla parete della montagna frustata dal vento, prima di spingere il frisone a destra. Intravide allora il sottile filo di fumo in lontananza, attaccato a più riprese dalle caparbie folate.
L’insegna maltrattata della locanda sbatteva controvoglia, e sotto il disegno di un ippopotamo inciso nel legno il nome era pressoché illeggibile. Arenor si concesse qualche attimo di elucubrazioni. Osservò dubbioso la costruzione su due piani e, gli occhi ridotti a fessure, cercò di carpire i segreti nascosti dietro le sue assi.
“Cosa c’è, mago?”, gli domandò il cavaliere dai capelli bianchi.
“Ricordavo questo posto… leggermente diverso”.
“Fosse stata utilizzata magia lo sentiresti, no?”.
Arenor annuì, impassibile.
Quando bussarono, un giovane ragazzo li invitò ad entrare. Indossò una sopravveste di lana, poi si offrì di condurre i loro destrieri nelle stalle.
“Acqua e biada”, lo ammonì Arenor, aggiungendo: “Partiremo con l’arrivo delle ombre”.
“Certo”.
Dietro un insulso bancone, un robusto locandiere dai lunghi baffi castani asciugava un boccale da birra. Era in carne, e le curve del suo ventre prominente sgusciavano dai pantaloni prima, e dai contorni del grembiule poi, cozzando con l’aria efficiente che l’uomo tentava disperatamente di far trasparire tanto dal suo atteggiamento quanto dalle sue maniere. Con un cenno della mano abbracciò l’intera sala, invitando i nuovi avventori ad abbandonare l’uscio e prendere posto. Numerose panche tarlate servivano tavoli morsi dagli anni, pochi dei quali occupati, uno di essi non lontano dalla fiamma che brillava vivida nel camino, ricavato dal marmo prezioso delle cave del sud; una pennellata di lusso in un quadro di modestia. I pochi avventori consumavano uova annaffiate con birra, nonostante fosse appena l’alba.
“Buon uomo, abbiamo bisogno di cibo”, esordì Arenor, approssimandosi al bancone. “E di camere per trascorrere il giorno. Ripartiremo al calar del sole”.
Il locandiere annuì. “Camere, quante?”.
“Due andranno bene”.
Annuì ancora. “Preparo un tavolo per quattro?”.
“Io e la ragazzina preferiremmo fare colazione di sopra”.
“D’accordo”, sghignazzò l’uomo. Lanciò un’occhiata a Lia, come se la notasse per la prima volta, indugiando sulla sua figura troppo a lungo. Poi aggiunse, negli occhi il famelico baluginio della lussuria: “Capisco”.
Arenor non si diede la pena di smentire l’equivoco. Avrebbe potuto ottenere di attirare attenzioni indesiderate.
Lia salì le scale cigolanti che conducevano al secondo piano, inserì la chiave nella toppa della porta in fondo al corridoio. Si distese sul letto di paglia, cercando di riorganizzare i pensieri. Era stata testimone di qualcosa di incredibile. Una luce blu era precipitata dall’alto del monte e aveva abbattuto un cavaliere. All’orrore scaturito dalla sciagurata fine del ragazzo, si accompagnava nel suo animo un profondo timore per quel lampo che aveva condotto con sé la morte. Non aveva mai visto nulla di simile. O forse sì? Riaprì gli occhi, e fissò il soffitto ammuffito, ripescando nella memoria una scena di cui era stata protagonista, tanti anni prima. Aveva visto brillanti bagliori, in lontananza, e aveva scrutato con curiosità nella loro direzione. Poi, una palla di fuoco fuoriuscita dal bosco aveva centrato un albero solitario a pochi metri di distanza, spezzando in due parti il fusto, spruzzando lembi di corteccia tutt’attorno. Era scoppiata a piangere, coprendosi il viso con le mani, udendo gli scoppiettii del fuoco che divorava il legno. Poi due braccia l’avevano afferrata e sollevata da terra, e fra le dita aveva visto il sorriso di Julius. L’aveva riportata a casa, di gran corsa.
Adesso Julius e Mulla non c’erano più. Le dolevano le giunture, aveva male alla testa, e si stava impadronendo di lei una strana inquietudine. In aggiunta a tutto questo, le piaghe della cavalcatura nell’interno coscia imploravano sollievo.
Si sentì un po’ meglio quando il figlio del locandiere giunse ad accendere il fuoco nel camino; il calore la rincuorò e scacciò i brividi di freddo.
 
“Come stai?”, le chiese Arenor quando fu entrato, poco più tardi.
“Bene, grazie”, annuì lei. Incapace di soffocare la sua ansietà, domandò: “Cos’è successo al cavaliere, al lago?”.
L’uomo si avvicinò, poggiò il bastone di fianco all’unica finestra e, dandole le spalle, studiò l’infuriare della bufera. Senza voltarsi, commentò: “Ci sarebbe molto da dire e, giacché saremo bloccati a queste latitudini per tutto il giorno, ci sarebbe anche il tempo per farlo. E tuttavia non sarebbe saggio. I muri hanno orecchie, ed è meglio che questa storia non venga udita da alcuno, così che il mondo impari a dimenticarla; la capacità di ignorare il passato è, oggi, la nostra più grande alleata. Favorirla è precisamente uno dei miei compiti; ingrato, a dire il vero, ma necessario”.
“Io invece vorrei sapere perché quel cavaliere ha dovuto dare la sua vita… per me”.
“È dunque il senso di colpa ad angustiarti?”, sorrise amaro Arenor, voltandosi improvvisamente. “In tal caso puoi tranquillizzarti: Galdin ha dato la sua vita per qualcosa di molto più grande”. Abbassando il mento e giungendo le mani, sussurrò: “Era un bravo ragazzo”.
Duri colpi alla porta lo misero all’erta. Una voce rauca gli gelò il sangue. “Aprite! Vi sta parlando una guardia della Compagnia Reale. Aprite immediatamente!”.
   
 
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