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Autore: Dilandau85    31/01/2017    1 recensioni
Ho deciso di raccogliere qui, in ordine più o meno sparso, tutte le poesie che sto scrivendo. Li ritengo esperimenti stilistici per la maggior parte e sono i primi in cui, da amante della metrica, mi sto cimentando. Una specie di palestra per qualcosa di più grosso che vorrei scrivere. Spero di dare a chi leggerà qualche emozione e magari qualche spunto su cui riflettere.
Genere: Poesia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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L'INFELICITÀ PUÒ MAI ESSERE ILLEGITTIMA?

Lunga poesia che scimmiotta Gozzano. Un'altra digressione sullo stesso tema della sestina del capitolo scorso (non ci posso far niente, è un chiodo nella mente!). Immagino di rivolgermi alla mia anziana dirimpettaia (signora buona e cara, ma anche preda dei luoghi comuni). Il succo è che nessuno dovrebbe giudicare quando sia giusto o meno che qualcun altro sia infelice (e criticarlo di conseguenza). Dovremmo portare rispetto per il dolore altrui, anche quando fosse causato dalla cosa più futile. E' qualcosa di troppo soggettivo e delicato per poter sparare sentenze, e soprattutto potrebbe colpire chiunque in qualunque momento.
Sono 48 quartine di endecasillabi con schema ABBA. Questa è la prima bozza, scritta di getto. Ora mi attende un lungo labor limae...


Cara signora Rosa, s'io potessi,
con te ragionerei ben volentieri
dei nostri tanto diversi pareri
su questo tema e tutti i suoi riflessi:

se lecito si possa ritenere
il sopportare e patire disagio
senza l'universal, neutro suffragio
ad avallar le pene come vere.

Difficoltoso risulta parlarne:
tu a condannare sei così convinta.
All'opposto io son d'empatia avvinta;
voglio tentare anche a te di recarne.

Hai mai provato a metterti nei panni
di un cosiddetto assassino seriale?
Per tutti egli è una creatura del male;
non sia mai che il suo agir non si condanni!

Mi riferisco alle poche persone
(ovviamente malate) non capaci
di placare gli istinti lor rapaci.
Irresistibile è la tentazione

di porre fine a una vita innocente.
Esse lo sanno che è sbagliato e grave,
ma son di questo desiderio schiave,
come chi dalle droghe è dipendente.

Forza di volontà da dipendenza
è vinta; sono deboli senz'altro,
per quanto il loro vivere è assai scaltro.
Ma si può definire una carenza,

un difetto di forza, come fallo?
Se sei più debole di una disgrazia
nulla puoi farci, prima o poi ti strazia.
E stai sicura che non è uno sballo,

di qualsivoglia questione si tratti
(comportamento deviante o batterio).
Immagina il soffrir lor quant'è serio,
quando nel divenir pian piano sfatti,

s'aggiunga al dramma interiore profondo
cruda condanna, sociale e legale.
Penso sopportino un dolore reale,
a quel delle lor prede non secondo.

Son bisognosi di fraterno aiuto,
che ricever vorrebbero alla stregua
d'ognun che dal dolore cerchi tregua.
D'altronde è giusto che vi sia un rifiuto

in società per chi nuoccia alla stessa.
Colpa è levare il diritto alla vita;
lo Stato faccia manovra gradita
per la comunità quieta e rimessa!

Io, cara Rosa, non ledo nessuno!
Che cosa faccio? Mi lamento, punto,
perché il mio cuore contrito e compunto
dicono che è soltanto inopportuno.

Così facendo al margine selvaggio
la società mi relega, alla pari
dei peccatori pravi e straordinari
dei quali prima ho fatto quasi omaggio.

Ho tutto ciò che si possa bramare,
nel comun dire: soldi, casa, amore,
lavoro, affetti, salute, età in fiore.
Tutto sono riuscita a realizzare,

sempre, ogni cosa mi venisse in mente.
Ho scritto fino a qui il mio stesso fato
come ho da sempre sognato e anelato,
impugnando il timone saldamente.

Eppur v'è un tarlo che ora mi tormenta
e la felicità tanto mi frena.
Come un malanno che tutto avvelena.
E da tarlo diventa pena cruenta.

Voglio soltanto una vita tranquilla,
da turbamenti e tensioni lontana.
Sogno un sicuro rifugio, una tana
che la mente e il mio corpo rifocilla.

Vorrei gestire tanto e tanto tempo
facendo solo ciò che più mi aggrada,
seguendo in toto l'epicurea strada,
proprio come il peggior dei perditempo.

Talmente tante le cose da fare
che noia sovverrebbe mai e poi mai!
Tante passioni che nel cuor serbai
smaniose di poter fuori spiccare,

rimandate tanto a lungo al futuro...
A dopo la pensione, se va bene
e la salute fortunata tiene.
Nel frattempo il presente è duro e scuro.

Il tempo che è prezioso fugge via,
lo vedo scivolar come la sabbia
dalle mie mani, mentre sono in gabbia,
in questa vita che non sento mia.

Non più. Mi pungono angoscia e rimorso,
e nostalgia di quei tempi pacati
che son riuscita a non render sprecati.
Mi è indifferente degli eventi il corso,

l'attualità e ciò per cui s'arrabatta
il grosso della gente che sta in basso:
politica, costume, guerre, chiasso,
patria... la patria che ora mi ricatta.

Il mio cervello è egoista e goloso,
crescere vuole e gustare di tutto;
s'annoia facilmente d'ogni frutto.
Dei vizi è schiavo e molto capriccioso,

incostante, irrequieto, e al tempo stesso
pigro e voglioso solo di piacere.
Lui comanda, lui erge le barriere,
e dell'empireo indica l'accesso.

Inutile è parlarne in questi toni:
d'altra entità non si tratta per nulla,
la testa è dell'essenza mia la culla,
sono me stessa con le mie ragioni.

Tentato ho di sfuggirle fino ad ora,
ma adesso sono stanca e più non voglio;
è un paradosso, e duro come scoglio
è il cozzarvici contro ancora e ancora.

Mentre tentavo la lotta dicevo:
"Ti devi rassegnar, questa è la vita!
Anzi, quella che fai è vita ambita!
Subordina te stessa!", ripetevo,

"Come ancor fanno i cari genitori.
Capitalismo si chiama, è normale,
così fa tutta la gente normale.
Finché capiterà che un giorno muori

e il testimone passerà ai tuoi figli."
Ed eccomi agognar vita diversa,
a tutti i turbamenti molto avversa.
E tu, Rosetta, non ti meravigli?

Sicuramente mi disprezzerai.
Tanto hai sofferto durante i lunghi anni;
mi hai raccontato già tutti i tuoi affanni.
Della crisi racconti pure i guai:

i giovani non trovano lavoro,
gli Italiani ormai al verde e senza averi,
e le strade si riempiono di neri.
Il terrorismo; il perseguir dell'oro,

per i nostri politici sol fine;
cronaca nera, persone cattive.
Ma poi ci son le parole votive,
il Papa e tutte le cose belline.

Se i miei tormenti leggerai, mendaci
li riterrai, senza alcuna incertezza.
Io ho conquistato con risolutezza
traguardi che per te son molto audaci;

non sussiste ragione di sconforto.
Non coi tempi che corrono, diresti.
O peggio ancora, invëiresti
contro di me addossandomi gran torto.

"Ragazzina viziata, il sacrificio
è per te sconosciuto!"; di vergogna
mi riempi, manco fossi una carogna.
Ma anche se tu lo credi un artificio

il mio dolore è reale e pesa tanto,
come un macigno posto sulle spalle.
Perché dovrei cantarti delle balle?
Per me per prima sarebbe un incanto

se la tua logica a me s'adeguasse.
Mi potrei accontentare, finalmente,
e potrei vivere felicemente,
invece che pagare queste tasse.

"Conviene rodersi per altri mali!",
e poi iniziare con la stessa solfa
di sempre, che cervello e cuore ingolfa:
pensa alle malattie brutte e mortali,

o chi soffre la guerra, chi la fame,
chi i propri cari ha perduto in sciagura,
e ancora nominar ogni bruttura,
di loro dipingendomi più infame.

È il tribunale della società:
la giuria popolare vaglia il germe
dell'afflizione del povero verme
e secondo i criteri che lei sa

stabilisce se degno è dell'affetto
solidale, o del gretto vilipendio
(giusto, secondo quel loro compendio).
Io, col mio caso, son certo in difetto.

Non soltanto per te, Rosa, per tutti
gli incapaci di mettersi i miei panni
e stimar gli invisibili miei danni.
Se l'empatia che dicevo non sfrutti

ti ridurrai come tanti a vedere
categorie discrete e non sfumate
in cui tutte le cose al mondo create
sono soltanto bianche oppure nere.

Mi offende essere messa in una cesta,
bianca o nera che sia, con scarsa cura.
Ancor più adesso che mi fa paura
questo magone che, ahimè, mi tempesta.

Vorrei ricever commiserazione,
più che le critiche che già conosco.
Perciò, non mi guardar con sguardo fosco;
vincer desidero questo magone.

Io, cara Rosa, non ledo nessuno!
Or che ci penso, pungere potrei
soltanto quei che son d'invidia rei...
Tu pàrtiti da quel gregge importuno.

  
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