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Autore: Tourniquet    02/02/2017    1 recensioni
“È impazzito” avevano detto “bisogna rinchiuderlo, prima che faccia del male a se stesso o agli altri. Non possiamo più aspettare.”
Non aveva mai accettato il ricovero in psichiatria, la flebo diventata la sua fedele compagna, i sedativi lo spuntino di mezzanotte. È un’anima libera, non ha mai sopportato le costrizioni, di ogni genere. Eppure questo lo ha portato qui, in questa stanza asettica e tutta bianca, lontano dai suoi colori, lontano dalla sua musica, lontano dalla sua vita e dal suo mondo.
[...]
L’avevamo visto entrambe, in uno di quei momenti. Lei era scappata, io ero rimasta, ancora non so perché. Forse perché sapevo che se me ne fossi andata anch’io, lui sarebbe rimasto solo, senza più nessuno. Non me la sentivo di abbandonarlo a se stesso, in mezzo a tutto quel bianco.
Pensavo che al suo posto non avrei voluto essere sola, che avrei voluto qualcuno accanto. Così sono rimasta. Anche se avevo paura, anche se gli altri non capivano, anche se dicevano, sottovoce, pensando che non sentissi, che ero diventata pazza anch’io.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Questa "cosa" l'ho scritta più di un anno fa, in un momento un po' particolare; ora è stata riesumata dalle profondità oscure del computer, e sottoposta a impietosa revisione e correzione.

Pubblicarla è il mio modo per ricordare una persona straordinaria, che rifiutava il proprio nome e si faceva chiamare Will, come Willy Wonka e William Shakespeare, e che serviva il caffè recitando Sogno di una notte di mezza estate. Questa "cosa" (non la si può definire storia, è più che altro un flusso di coscienza) in parte è ispirata a lui e alla sua storia, pur essendo trasposta in un contesto di fantasia e avendo modificato i nomi.

 

 

 

A Will,

al suo amore per la vita tanto forte da farsene consumare,

con la speranza che possa continuare a vedere il mondo a colori,

anche se circondato dal bianco.

 

 

 

Burn it down

Punti di domanda senza frase

 

 

Se ne sta lì, seduto sulla poltrona bianca con lo sguardo vacuo e la bocca socchiusa.

Chissà a cosa sta pensando, chissà se sta pensando, stordito com’è dai sedativi.

Probabilmente neanche sente la mia voce, mentre leggo. Una volta gli piaceva, era uno dei pochi momenti in cui era tranquillo, e sorrideva. Era uno dei pochi momenti che gli erano concessi per evadere da quella bianca prigione, ascoltando di un bruco tutto blu che fuma la pipa e di un gatto a strisce che sparisce, sognando di prendere il thè con un uomo dal cappello buffo e un coniglio col panciotto.

Ma questo era tempo fa.

L’ultima crisi è stata terribile, anche peggio delle precedenti: ha aggredito due infermieri e quando i medici sono accorsi ha provato a scappare. Sapeva di non avere speranze, ma ci ha provato ugualmente, per l’ultima volta, l’ultimo assaggio rubato di libertà. È arrivato fino alle scale antincendio, quando il suo equilibrio compromesso dai farmaci lo ha tradito: è caduto per due rampe di scale, riportando un serio trauma cranico.

Il dottor Sanders ha cercato di indorare la pillola, ma la verità è che non si riprenderà. Ormai è un vegetale, una zucchina, come quelle che lui tanto odiava.

Tutto sommato è meglio così: non si può rinchiudere un’aquila reale in una gabbia che si fa via via sempre più stretta, e pretendere che sopravviva.

Non aveva mai accettato il ricovero in psichiatria, la flebo diventata la sua fedele compagna, i sedativi lo spuntino di mezzanotte. È un’anima libera, non ha mai sopportato le costrizioni, di ogni genere. Eppure questo lo ha portato qui, in questa stanza asettica e tutta bianca, lontano dai suoi colori, lontano dalla sua musica, lontano dalla sua vita e dal suo mondo.

“È impazzito” avevano detto “bisogna rinchiuderlo, prima che faccia del male a se stesso o agli altri. Non possiamo più aspettare.”

Non avevano capito che lui pazzo lo era sempre stato, almeno secondo la loro definizione di pazzia, perché essere pazzo non equivale necessariamente ad essere malato, anche se ormai i due termini vanno di pari passo: la pazzia con cui abbiamo a che fare è un grossolano travestimento, una falsa apparenza, una grottesca caricatura di ciò che potrebbe essere la guarigione naturale dalla comune definizione di sanità mentale, che tutto è fuorché sana.

Anche Sara, la sua ragazza, lo aveva lasciato, come tutti. Era stata una cosa graduale: era venuta in clinica sempre più raramente, e trattenendosi mai più di qualche minuto, finché non è venuta più.

Sapevamo che sarebbe successo, come con tutti gli altri: a poco a poco, si erano allontanati tutti, spaventati, e come dar loro torto. Avevano paura di lui, di cosa avrebbe potuto fare in uno di quei momenti, quando i suoi occhi si scurivano, digrignava i denti e si avventava su qualunque cosa gli si trovasse vicino.

L’avevamo visto entrambe, in uno di quei momenti. Lei era scappata, io ero rimasta, ancora non so perché. Forse perché sapevo che se me ne fossi andata anch’io, lui sarebbe rimasto solo, senza più nessuno.

Non me la sentivo di abbandonarlo a se stesso, in mezzo a tutto quel bianco.

Pensavo che al suo posto non avrei voluto essere sola, che avrei voluto qualcuno accanto. Così sono rimasta. Anche se avevo paura, anche se gli altri non capivano, anche se dicevano, sottovoce, pensando che non sentissi, che ero diventata pazza anch’io.

Forse avevano ragione. Forse sono matta. Forse rinchiuderanno anche me in una stanza tutta bianca, con persone vestite di bianco e pilloline bianche da mandare giù.

Non mi piace il bianco. Non piaceva neanche a lui, lo diceva sempre. E diceva anche che se gli altri consideravano pazza la sua stravagante allegria, allora era contento di essere pazzo, perché la pazzia è libertà, la pazzia crea tutto un altro mondo, è dalla pazzia che nascono cose straordinarie, è con un poco di pazzia che si può godere davvero la vita.

Questo, ovviamente, prima che la schizofrenia s’impadronisse di lui e pazzo lo diventasse davvero.

Chissà se poi è stato davvero un male. Herman Hesse sostiene che come la pazzia, in un certo senso elevato, è l’inizio di ogni sapienza, così la schizofrenia è l’inizio di tutte le arti, di ogni fantasia.1 Chissà che non abbia anche ragione, e che lui non abbia davvero trovato la libertà a cui tanto agognava.

Forse ora è di nuovo circondato dai suoi colori, in un mondo da cui noi siamo esclusi, in un mondo in cui è finalmente libero dalle odiate catene, libero di bruciare.

Forse ora sta prendendo il thè con un uomo dal cappello buffo e un coniglio col panciotto, che raccontano le avventure di un bruco tutto blu che fuma la pipa e di un gatto a strisce che sparisce.

Forse ora è libero di essere se stesso.

Del resto non gli è mai importato che la gente avesse o meno paura di lui, perché la pazzia è come il paradiso: quando arriva il punto in cui non te ne frega più niente di quello che gli altri possono dire, sei vicino al cielo.2 Perciò non gli importava di essere isolato in mezzo a tutte quelle mummie che lo circondavano, perché lui era vivo dentro, con il girasole nel taschino della giacca e l’ombrello dal manico a pappagallo e il papillon rosso, rosso come il sangue, rosso come il fuoco che gli divampava dentro. E che fosse la vecchietta sull’autobus o l’infermiera vestita di bianco ad allontanarsi da lui, non importava.

Chissà perché poi siamo così terrorizzati dai matti. Forse perché sono punti di domanda senza frase, migliaia di astronavi che non tornano alla base, sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole, sono gli apostoli di un Dio che non li vuole.3

Forse ne abbiamo paura perché sono imprevedibili, incontrollabili, sono la variabile impazzita che manda in cortocircuito il sistema, sono un’auto in corsa lanciata a duecento all’ora sull’autostrada, sono la pecora nera della società, quella da emarginare ed esaminare al microscopio con i guanti bianchi, per evitare che il bianco del mondo sia sporcato dal colore dei matti.

Forse ne abbiamo paura perché inconsciamente siamo invidiosi della loro libertà assoluta, della loro vita ricca di colori ed emozioni, quei colori e quelle emozioni che fanno tendere come una corda di violino, che fanno bruciare dentro, come se non si dovesse morire mai, come se la banale esistenza umana fosse troppo vuota e troppo breve per essere riempita tutta, e si dovesse fare in fretta, perché c’è un coniglio col panciotto a ricordare che non c’è tempo, che ci si deve sbrigare, se si vuole lasciare la propria impronta nel cielo.

Forse ne abbiamo paura perché la follia come il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non c’è luogo dove non risplenda.4

La pazzia è in ognuno di noi, e può uscire fuori quando vuole, e dobbiamo cercare di tenerla quieta, senza darle occasione di mostrarsi in tutta la sua imprevedibile grandezza, come Orlando che da innamorato diventò furioso. Dobbiamo quindi prestare attenzione a non svegliare il can che dorme, perché se si svegliasse potrebbe rubarci il senno e portarselo sulla Luna, e forse non ci sarebbe nessun Ippogrifo con cui andare a riprenderlo.

O almeno, questo è quello che ci impone il cosiddetto buonsenso, dettato dalla società “moderna” maniaca del controllo.

Ma che succede, se il senno lo si perde davvero? Se dalla follia nascono cose straordinarie, allora perché non avvicinarvisi il più possibile, come quando si ha freddo e ci si avvicina al fuoco, con la voglia di scaldarsi fino a lasciarsi bruciare, facendosi consumare dalle fiamme?

Forse è questo che ci ha sempre accomunati: l’attrazione per il fuoco, il desiderio di poter bruciare come il legno e la carta vengono divorati dalle lingue rosse e gialle.

Forse è per questo che non sono scappata, che sono rimasta con lui. Perché in fondo un po’ pazza lo sono anch’io, e chissà che la prossima volta che entrerò qui non sarà l’ultima, e che non mi siederò su quella poltrona bianca a sognare di prendere il thè con un uomo dal cappello buffo e un coniglio col panciotto, a cui magari si unirà un ragazzo con un girasole nel taschino e un ombrello dal manico a pappagallo, raccontando le avventure di un bruco tutto blu che fuma la pipa e di un gatto a strisce che sparisce.

Chissà che un giorno non mi lascerò bruciare davvero, come quando si cede alle lusinghe di un amante, amando la vita alla follia, perché ciò che gli altri chiamano follia altro non è che l’unico modo che conosciamo per amare, amare davvero.

 

 

Note

1 Hermann Hesse, Il lupo della steppa

2 Citazione di Jimi Hendrix

3 Simone Cristicchi, Ti regalerò una rosa

4 William Shakespeare, La dodicesima notte

[Riferimenti a Oscar Wilde, Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto]

  
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