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Autore: _Noodle    12/02/2017    2 recensioni
 
“Quando la danza diventa un’esigenza, un bisogno primario e necessario, la musica fuoriesce dalla sua tana avvolgendo i corpi degli amanti, sgorgando dagli strumenti e dai grammofoni, dalle casse e dalle console. Quando si balla è notte. Quando si ascolta, il sole è lontano”.
Raccolta di One-Shot: ad ogni decennio del Novecento corrisponde un genere musicale, ad ogni sonorità un diverso e particolare modo di danzare.
~ The Romantic Naughties: 1911 [KuroTsuki].
~ The Roaring Twenties: 1925 [DaiSuga].
~ The Dirty Thirties: 1936 [AsaNoya].
~ The Flying Forties: 1946 [YamaYachi].
~ The Stylish Fifties: 1957 [KuroKen].
~ The Revolutionary Sixties: 1964 [KageHina].
~ The Eccentric Seventies: 1973 [IwaOi].
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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1964, Musica Folk.
Tobio Kageyama, chiusa la porta a chiave, inizia a recitare i versi di “The house of the rising sun” dei The Animals.
 
 
 
 
 
San Francisco, 1963
 
Li chiamano “figli dei fiori” per via dei loro bizzarri vestiti dalle stampe floreali.
Sfoggiano abiti colorati, stoffe fluorescenti e camicie dalle fantasie psichedeliche. Indossano terribili pantaloni a zampa, strane corone di stoffa e sandali di cuoio di seconda mano. Hanno i capelli lunghi, occhiaie profonde, bruciature di sigaretta sulle mani.
Mio padre sostiene che i figli dei fiori assumano sostanze allucinogene illegali per estraniarsi dalla realtà, per esimersi dai loro doveri ed impieghi. Sostiene che urlino e che ballino nel cuore della notte, che invochino strane divinità, che affoghino le loro debolezze nell’alcool e che imprimano indecifrabili simboli sulla loro pelle in segno di rivolta.
Mio padre sostiene che i figli dei fiori siano una piaga per la società e che in un momento come questo, in cui si sta combattendo una guerra di considerevole importanza e in cui le nuove reclute sono fondamentali per la supremazia, dovrebbero essere indottrinati e responsabilizzati, distolti dal bruciare le cartoline di chiamata alla leva. Mio padre è un veterano della Seconda guerra mondiale, sa di quello che parla. Spesso s’imbatte nei loro raduni improvvisati, nelle loro scorrerie e buffonate da fenomeni da baraccone. Mi racconta di come spesso si riuniscano per strimpellare qualche canzone dal motivetto insopportabile e di come cantino a squarciagola, quando invece potrebbero ricoprire un’utile mansione per la società. Una volta ha addirittura assistito ad una scena raccapricciante, talmente stomachevole che a stento riesce a ricordarla. Mi ha confessato soltanto che si trattava di due uomini in atteggiamenti promiscui.
Se mio padre non mi obbligasse a restare chiuso in camera non appena tornato da scuola, penso che sarebbe divertente poter vedere qualcuno di questi figli dei fiori. Almeno sarei certo del fatto che mio padre non mi racconta bugie.
 
18 settembre, 1964
 
E’ successo ieri, mentre camminavo verso casa.
La giornata appena trascorsa, che si accingeva a sfumare in un tramonto dai colori violacei, era stata terribile, quella che si sarebbe potuta definire ‘una giornata da dimenticare’. A scuola non era andata bene, gli allenamenti pomeridiani di pallavolo non erano stati all’altezza delle mie aspettative e a casa, fatto il resoconto degli avvenimenti, non sarebbe di certo andata meglio. Ero certo che mio padre mi avrebbe nuovamente rimproverato per l’ennesimo votaccio e che mi avrebbe chiesto perché non riuscissi a raggiungere un qualche risultato, perché non riuscissi a combinare qualche cosa dopo tutte le ore trascorse in camera a studiare. Ero certo che avrebbe insistito sul fatto che la pallavolo stesse diventando la mia più grande distrazione e sul fatto che farmi tornare a casa da solo ogni giorno non fosse una brillante idea. Avrebbe sospettato di me, che potessi compiere illegalità o frequentare compagnie poco raccomandabili, avrebbe sospettato persino che la mia poca intelligenza fosse dovuta ad un ignoto e grave problema mentale.
Io ero convinto che il mio problema fosse lui.
Fu ad un isolato di distanza dalla mia residenza, più precisamente a Dolores Park, che il mio corpo fu colpito dal peggiore degli accidenti, dal guaio più inaspettato che potesse sconvolgere la mia vita. I battiti del mio cuore aumentarono, la sudorazione divenne copiosa, la salivazione assente. Un terribile capogiro mi fece cadere a terra ed una nausea intollerabile avvinghiò il mio stomaco a tal punto da strizzarlo e prosciugarlo quasi completamente. La delusione per la giornata era diventata tale da risultare più debilitante del previsto. Conati di vomito mi assalirono senza darmi tregua, i muscoli e i tessuti che si contraevano per i violenti spasmi. Al culmine dell’instabilità una massa arruffata di capelli rossi si stagliò davanti ai miei occhi, un deciso aroma di tabacco mescolato a sudore s’insinuò nelle mie narici ed un tocco tiepido e morbido accarezzò la mia mano, tremante ed infreddolita. Si trattava del peggiore degli accidenti.
<< Tutto bene, amico? Metti la mia maglia, stai tremando! >>
La voce del mio interlocutore era squillante e si snodava in inflessioni innaturali ed infantili. Sebbene la mia vista fosse annebbiata a causa dei capogiri, notai che il ragazzino si era tolto la maglia e che restava a petto nudo davanti a me sventolando freneticamente l’indumento.
<< Che fai? Questa maglia puzza, non ne ho bisogno… >> bofonchiai tentando di sedermi come meglio potevo, erba del prato che iniziava a trattenere la timida frescura della sera.
<< Che olfatto! Scusami, amico, è che non torno a casa da due settimane ormai. Credo che dovrei imparare a lavare i miei vestiti da solo, tu che dici? >> domandò lui in modo retorico. La sua immagine, a poco a poco, stava acquistando sempre maggiore nitidezza. Aveva la pelle chiara ed un sorriso sincero, poche lentiggini e svariate imperfezioni.
<< Ascolta, non so chi tu sia, ma io devo correre a casa, o mio padre non avrà pietà e mi caccerò in guai seri. >>
Il ragazzo dai capelli rossi mi tese una mano nel tentativo di alzarmi e non appena fui in piedi mi accorsi che era decisamente più basso di me, di almeno trenta centimetri. In quel momento realizzai che quello che avevo davanti poteva essere realmente un bambino, un ragazzetto ribelle scappato da casa per vivere di chissà quali espedienti.
<< Ma tu quanti anni hai? Lontano da casa da due settimane, sei pazzo? >> Lui mi guardò contrariato, inclinando la testa ed aggrottando le sopracciglia in un movimento rapido, simile a quello degli uccelli.
<< Non sono pazzo! Ho diciotto anni ormai, sono in grado di badare a me stesso. E tu spilungone, quanti anni hai? >> mi domandò, lasciandomi interdetto: era più grande di me.
<< Diciassette. Ne compio diciotto a dicembre. >>
Il piccoletto, dopo aver indossato la maglia maleodorante al contrario, mi poggiò una mano sulla spalla. Mi soffermai sul suo sguardo da furfante con la stessa intensità con cui un fratello maggiore avrebbe giudicato quello minore, sentendomi tuttavia in soggezione. Forse lo sguardo da fratello maggiore non era quello che più si addiceva alla situazione.
<< Ti facevo più grande, amico. Vuoi che ti accompagni a casa? >>
<< Non è il caso >> risposi rapidamente, accelerando il passo.
<< Non mi sembra che tu stia così bene >> continuò lui seguendomi insistentemente, passi trotterellanti alternati a qualche saltello.
<< Ti ho detto che non mi sembra il caso >> ribattei, tentando di allontanarlo facendo pressione sulla sua fronte. Il piccoletto non demordeva, aveva una forza inversamente proporzionale al proprio corpo.
<< Perché quella faccia da funerale? >>
<< Non è stata una bella giornata. >>
<< Che ti è capitato? >>
<< Ho preso l’ennesima insufficienza in inglese, ho fatto un allenamento di pallavolo pessimo, e sono sicuro che appena tornerò a casa mio padre avrà di che lamentarsi. Ma perché te ne sto parlando? Non so manco come ti chiami o chi tu sia >> sbottai infine voltandomi verso di lui, occhi impazziti e mani tese e nervose in un impulso d’ira. Lo sguardo del microscopico ragazzino s’incupì leggermente al suono severo della mia voce. I suoi occhi grandi s’ingigantirono ancora di più, colmandosi di dispiacere e d’incredulità.
<< Me ne stai parlando perché hai bisogno di parlarne, tutto qui. E comunque mi chiamo Hinata Shouyou, ma tu puoi chiamarmi… >>
<< Ti chiamerò Hinata, com’è giusto che sia. E ora fammi andare a casa >> tagliai corto. La giornata, per colpa della sua presenza e della sua irritante sfacciataggine, non stava migliorando in alcun modo. Avevo voglia di fuggire, di rintanarmi nella mia stanza ed una volta lì immaginare un mondo in cui tutto andava secondo i miei piani, un mondo in cui tutto s’incastrava perfettamente e in cui le dinamiche interpersonali risultavano funzionali, in cui i padri amavano i figli e i figli i padri.
<< E va bene. Ma prima che tu vada, vorrei lasciarti questo. >>
Hinata mi porse un foglietto scritto a mano con i pennarelli colorati.
<< Che roba è? >> chiesi.
<< E’ l’indirizzo del luogo dove domani sera si terrà un incontro riflessivo >> spiegò lui, aria di chi sapeva di che cosa stesse parlando.
<< Incontro riflessivo di che tipo? >> domandai, piegando il foglio e riponendolo nella tasca dei pantaloni.
<< Bhe, si parla, si discute, si beve e si mangia qualche cosa in compagnia, si danza, si… >>
<< Non ci verrò, grazie. >>
M’incamminai dandogli le spalle, tentando di dimenticare tutte quelle debolezze e frivolezze che mi disgustavano ed allo stesso tempo mi facevano sentire terribilmente solo.
 
19 settembre, 1964
 
Ieri sera, non appena arrivato a casa, ho dovuto affrontare mio padre. Ho dovuto spiegargli che cosa fosse successo, quali risultati avessi ottenuto durante la giornata e anche proporgli un metodo efficace per porre fine alla mia stupidità. L’ennesimo ed estenuante litigio, l’ennesima porta che sbatte. Urla e pianti, rabbia ed incomprensione, repressione. Parole taglienti e velenose, epiteti che un padre amorevole non rivolgerebbe mai ad un figlio. Disonore, delusione, schifo. Mi sono rinchiuso in camera, affondando la testa nel cuscino e lasciando che le lacrime macchiassero la gelida federa grigia. Nel tentativo di frenare i miei più bassi istinti, ho compreso di aver bisogno di colori. Ho bisogno del giallo, allegro e dinamico, del rosso, così passionale e travolgente, del verde, sfumatura della speranza e della fiducia. Ho bisogno delle certezze racchiuse nel blu, dell’estrosità del viola, del calore e dell’audacia dell’arancione. Nel tentativo di frenare i miei più bassi istinti, ho compreso di aver bisogno di aria. Ho bisogno del vento, della brezza, degli uragani e delle piccole folate d’aria estiva; ho bisogno di profumi nuovi, di fragranze afrodisiache, di un leggero e costante stato d’incoscienza. L’eccessiva responsabilità e l’eccessivo rispetto delle regole mi ha portato ad essere qualcosa che non voglio, mi ha portato ad avere paura, ad essere una semplice pedina dei desideri di mio padre. Nel tentativo di frenare i miei più bassi istinti, ho deciso di accettare l’invito del ragazzino di Dolores Park, di riempire uno zaino di mutande e merendine e di andarmene per un po’, lasciando mio padre in balia di se stesso.
E di me? Che ne sarà di me? Sebbene abbia capito molte cose, l’atteggiamento giusto per pormi in modo diverso e per cambiare mi resta ancora ignoto.
 
Busso. Qualcuno apre la porta. Mi presento, entro a testa bassa.
<< Ehi! Ma tu sei il tizio che ho incontrato ieri sera a Dolores Park! >>
Hinata, il ragazzo dai capelli rossi, si avvicina a me, scostando una tenda trasparente che separa l’ingresso da un’altra stanza. Il posto in cui si tiene l’incontro non è altro che la casa di qualcuno, un umile appartamento arredato in modo stravagante all’angolo con Ortega Street.
<< Sei venuto, alla fine! Vieni con me, ti presento a colui che ha organizzato la serata e che mi ha offerto un posto in cui dormire. Lui è la nostra guida. Yuuji! >> continua Hinata, afferrandomi per un braccio e trascinandomi in quella che credo sia la sala da pranzo. Ci sono molte persone intente a chiacchierare e a ridere, un motivetto familiare allieta le mie orecchie ancora sanguinanti per le urla della sera precedente.
<< Yuuji! >> Hinata reclama l’attenzione di un bel tipo, la cosiddetta “guida”, che probabilmente è anche il proprietario di casa. Capelli ossigenati, camicia aperta a mostrare il petto leggermente muscoloso, jeans strappati e piedi scalzi. Le unghie delle mani e dei piedi di questo bizzarro individuo sono pitturate di nero.
<< Ti presento… come hai detto che ti chiami? >> farfuglia Hinata, colto da sbadataggine.
 << Non l’ho detto. Mi chiamo Tobio Kageyama, molto piacere. >>
<< Ti presento Tobio Kageyama! >>
Il ragazzo biondo mi stringe la mano con decisione e fermezza. Ha l’aria di chi è entusiasta della propria vita, di chi ha esperienza, di chi ha tentato innumerevoli volte e per innumerevoli volte ha fatto centro. Le fossette e le flebili rughe del suo giovane volto denotano che è solito sorridere.
<< Ho capito Shouyou, grazie! Io sono Yuuji Terushima, papà spirituale di tutti questi ragazzi. Tu mi sembri nuovo, raccontami di te, dimmi chi sei. >>
Terushima inizia a camminare lentamente in direzione di un’altra stanza, piedi che affondano in una serie di morbidi tappeti che ricoprono il pavimento di legno. Sui jeans di Terushima, a livello del fondoschiena, vi è cucita la seguente frase: “Let the sunshine in”. Io e Hinata lo seguiamo a ruota. 
<< Io sono uno studente >> dico, alzando lievemente le spalle e scavalcando bottiglie di birra abbandonate a terra.
<< Tutto qui? Possibile che in quel cervello non ci sia qualcosa di più di qualche nozione elementare? >> incalza Terushima, cogliendomi di sorpresa. Mentre parla, noto che sulla sua lingua rosea trionfa una piccola pallina bianca, che non capisco se sia una caramella o chissà che cosa.
<< Bhe, non lo so, non ci ho mai pensato. >>
Terushima sorride, scompigliandosi i capelli con un rapido gesto della mano.
<< Hinata, hai portato qui una bella gatta da pelare! >> esclama con un cenno del capo, aprendo la porta di una piccola camera da letto.
<< Vieni con me, Tobio, facciamoci una chiacchierata. >>
<< Posso venire anche io? >> domanda Hinata, avvicinandosi velocemente alla porta, quasi volesse impedire a Yuuji di rispondergli.
<< No, amico, questo discorsetto a te l’ho già fatto ed immagino che non avresti avuto voglia di avere qualcun altro accanto a te in quel momento >> conclude Terushima, sbattendogli la porta in faccia e trascinandomi forzatamente dentro, scaraventandomi sul letto. Sebbene sia più basso di me, ha una forza notevole. Temo che da un momento all’altro possa ficcarmi le mani sotto la maglietta.
La camera da letto profuma d’incenso. Il copriletto sul quale siamo seduti pare tinto a mano, le pareti dipinte con le dita, le luci appese sul soffitto degli addobbi di Natale. L’atmosfera è soffusa e quasi mi sento a disagio in questa dimensione che porta ad esternare istintivamente la propria interiorità.
<< Allora, Tobio, come vanno le cose con i tuoi? >>
La prima domanda che Terushima mi pone è la più dolorosa e spiacevole. Abbasso lo sguardo, tormentandomi le dita. Forse sarebbe stato meglio che mi avesse ficcato le dita sotto la maglietta.
<< Io… io non ho mai conosciuto mia madre, sono cresciuto con mio padre. Discutiamo molto. >>
<< Come mai? >>
Traggo in lungo sospiro. Ancora mi è sconosciuto il motivo per cui io stia parlando di me con un perfetto sconosciuto.
<< Lui sostiene che io sia un buono a nulla perché non vado bene a scuola. >>
<< Non per forza non andare bene a scuola è sinonimo di essere una cattiva persona. Tu sei una cattiva persona? >> mi chiede Terushima, accendendosi una sigaretta che rilascia una fragranza alquanto strana. Deduco che non è tabacco.
<< Ma che razza di domanda è? Come faccio a saperlo? >>
Il fumo della sigaretta mi annebbia la vista e s’insinua nei miei polmoni passivamente. Tossisco una o due volte con stizza, dopodichè mi abituo alla serpeggiante nube speziata.
<< Hai amici? >>
La seconda domanda è meno dannosa della prima, anche se infelice.
<< Ne avevo molti! >>
<< E che fine hanno fatto? >>
<< Ma perché devo raccontare a te della mia vita? >> confesso finalmente, alzandomi dal letto. Terushima mi afferra per una spalla, facendomi nuovamente sedere ed offrendomi la sigaretta. Con lo sguardo, mi spinge e provare, ad inalare quella sostanza che ancora non conosco e che probabilmente, come sostiene mio padre, potrebbe anche essere illegale.
<< In amore come va? >> La terza domanda fluttua nel vuoto.
<< A-amore? >> tossisco.
<< Amore e tosse non si possono nascondere, Tobio! L’amore è il sentimento primordiale ed istintivo che contraddistingue l’uomo! L’uomo ha caldo, ha freddo, ha paura e s’innamora. Hai mai provato questo sentimento? >>
<< No. >>
<< Non vorresti provare? >>
<< No. >>
<< Hai mai visto una ragazza senza vestiti addosso? Un ragazzo? Hai mai fatto qualche cosa…>>
<< No! Terushima, io non ho mai fatto nulla del genere e anche se fosse così non te lo verrei a raccontare con tanta leggerezza. >>
E’ come se la mia testa avesse iniziato a galleggiare dentro ad una bolla di sapone, come se stesse fluttuando cullata da invisibili e tiepide onde. Le pareti del mio cervello si espandono, sento i lobi anteriori tirare, lacerare la mia pelle ed il mio cranio. In tutto ciò non provo dolore, e Terushima continua a parlare. Credo di aver appena sorriso, senza un apparente motivo.
<< Qui ci sono un sacco di ragazze e di ragazzi che non vedono l’ora di abbandonarsi tra le braccia di qualcun altro, dovresti lasciarti andare anche tu >> insiste lui sorridendo, continuando a fumare e a porgermi la sigaretta. Accetto senza tirarmi in dietro. Questa sostanza si sta rivelando il più assuefacente e rilassante del previsto. Non provo più disagio e Terushima appare ai miei occhi meno invadente.
<< Ma non voglio! >>
<< D’accordo. Allora, mentre cambi idea, vieni con me, ti offro qualche cosa da bere. >>
Yuuji mi conduce in cucina, stracolma di ragazzi e di ragazze di tutte le età. La più giovane credo abbia appena quindici anni. Il padrone di casa mi porge un bellissimo bicchiere in vetro (probabilmente di qualche vecchio servizio di famiglia) e m’invita a sedermi accanto a Hinata, occhi lucidi e pupille dilatate.
<< Che hanno i tuoi occhi? >> gli chiedo con poco tatto, avvicinandomi vorticosamente al suo naso per osservarli meglio.
<< I miei occhi? Di già? Teru, questa cannabis è davvero uno spasso, mi fa sembrare una ranocchia! >> ridacchia Hinata, portandosi le mani agli occhi ed allargandosi le palpebre.
<< C-c-cannabis? >> balbetto, fissando insistentemente Terushima, che mi guarda divertito.
<< L’hai capito solo adesso, Tobio? >>
Probabilmente il fatto che io sia arrivato a conoscenza della realtà della sostanza assunta aumenta il suo effetto. Di primo acchito mi  sento spossato, ma la spossatezza viene immediatamente rimpiazzata da una nuova e piacevole sensazione di rilassatezza e di conforto. La bolla di sapone espande le sue morbide pareti.
<< Mio padre dice che voi figli dei fiori fate uso di queste cose per estraniarvi dalla realtà ed esimervi dai vostri impieghi e doveri! >> sentenzio, sorriso impertinente e occhi a mezz’asta.
<< Tuo padre non sa proprio un bel niente. Questa serve per ampliare la mente, per mostrare nuovi orizzonti, per estendere le proprie vedute! Tieni, bevi >> mi risponde Hinata, facendo il verso a Terushima e versandomi nel bicchiere un drink dall’aspetto invitante. Sebbene il sapore sia dolce, scendendo nella gola lascia un retrogusto amaro, similmente all’esperienza che sto vivendo in questo momento. Non so se scappare sia stata la cosa giusta da fare, andarmene lasciando che mio padre e i suoi improperi rimanessero rinchiusi nella mia casa dalle pareti grigie. Probabilmente il mio comportamento lo deluderà, non vorrà mai più rivedermi, ma d’altra parte non è quello che voglio? Forse ciò che mi preoccupa di più è questa situazione, questa atmosfera rilassate e pacifica, psichedelica ed assurda.
Mi soffermo a fissare gli occhi del ragazzino dai capelli rossi. Sono grandi e liquidi, talmente profondi e limpidi da mettere a disagio chi li osserva. Risucchiato dalle sue iridi fiammeggianti, non mi accorgo che lo sguardo è corrisposto.
<< Che cosa c’è? >> mi chiede, sorriso sghembo e drink alla mano.
<< Niente. Stavo solo pensando se quello che sto facendo è la cosa giusta. Voglio dire, scappare di casa… >>
<< Vuoi scappare di casa? >> dice; noto il suo stupore. << Non ti credevo un tipo così audace >> continua, ridacchiando.
<< Scemo. Non so che cosa fare, non so se questo sia il posto giusto per me. E non so nemmeno se tu sei in grado di capire. Tu perché te ne sei andato di casa? >> gli domando, inciampando tra una parola e l’altra.
<< Me ne sono andato perché credo in questi valori, perché condivido le idee di questa gente, il loro modo di pensare, di ragionare, di affrontare la vita. Mi sembra un motivo più che sufficiente. Noi crediamo nella pace, nel rispetto, nella diversità come un punto di forza. Crediamo nell’amore, nella tenacia dei fiori, nella potenza e prepotenza dei baci. Crediamo che la guerra non sia la soluzione, crediamo nella parola e nell’umiltà, nella miseria dei beni e nella ricchezza dell’animo. Ho iniziato ad interessarmi a questa comunità da qualche tempo, ma è solo da due settimane che ho deciso di provare ad affogare con tutto me stesso in questa vita psichedelica. Se anche tu condividi ciò che pensiamo, allora questo non può essere altro che il posto giusto per te. >>
Le parole di Hinata mi feriscono con un’indicibile violenza. I fiori che esplodono dai fucili fanno più male che le pallottole. Io credo in ciò che mi ha appena detto? Io credo in qualcosa? Credo in un ideale, credo nell’amore, credo nella pace? In che cosa credo?
<< Io non lo so, Hinata. Io non ho mai pensato a nulla di tutto ciò. Non conosco la pace, non conosco l’amore, non conosco la vitalità. Conosco solo muri slavati ed urla stridenti. Non credo di essere adatto a vivere qui con voi, se è questo quello che mi spetta. >>
<< Proprio perché ne sei consapevole, allora sei pronto. Non è mai troppo tardi per imparare ad amare, qualunque persona o cosa si ami. Basta iniziare a cambiare prospettive. >>
Terushima, silente per tutto quel tempo, mi porge l’ennesima bevanda, ed è dopo averla prosciugata con ingordigia che capisco di aver perso ogni inibizione, di essere vittima dell’ubriachezza e dell’incoscienza. Mi sento vivo, rilassato, stomacato, confuso, stranamente me stesso. Mi sento pieno, pieno di dubbi e di paure, pieno di emozioni che sento che in qualche modo potrebbero emergere da un momento all’altro.
Nel salotto dove io, Hinata e Terushima ci spostiamo, sedendoci sul divano, stanno raccontando storie, leggendo poesie ed articoli di giornale. Terushima abbraccia una chitarra, iniziando ad intonare una canzone.
 
“There is a house in New Orleans,

they call ‘The Rising Sun’.

And it’s been the ruin of many a poor boy,

and God I know I’m one.
Oh mother tell your children not to do what I have done.

Spend your lives in sin and misery,

in ‘The House of the Rising Sun’.”
 
<< The house of the rising sun >> sussurra Hinata, appoggiando la sua testa sulla mia spalla, che sembra contenere perfettamente il suo cranio. Un incastro perfetto.
<< The house of the rising sun? >> domando.
<< E’ un nuovo successo dei The Animals. Parla di una casa di New Orleans, utilizzata un tempo come bordello e gestita da una tizia il cui soprannome era “Rising Sun”, sole nascente. È così, malinconica, così tormentata! >> continua il rosso, voce tremolante per l’emozione. Mentre le corde pizzicate dalle dita esperte di Terushima producono suoni graffianti ed intensi, un altro tocco di dita accarezza lentamente la mia coscia destra, percorrendo mollemente la superficie dei miei pantaloni. Stanno cercando di raggiungere la mia mano le dita di Shouyou, di questo sconosciuto dalle mille idee e convinzioni. Vogliono legarsi alle mie senza che io ne sia stato avvisato, senza un apparente perché. Cercano, si muovono sensualmente e delicatamente, attraversate da una scarica di erotismo. Nell’incoscienza dettata dall’alcool e dalla cannabis, dalla musica di Terushima (che quasi sembra stia facendo sesso con le parole della canzone), dalla nausea e dalla sregolatezza del momento, afferro la mano di Hinata grossolanamente, e la stringo nella mia. Il perché, non lo so.
È la prima volta che stringo la mano di qualcuno, è la prima volta che qualcuno stringe la mia. Lui la accarezza con il pollice, scavalcando le mie spesse e strabordanti vene. Hinata ha gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta. L’eccitazione del momento fa si che io agisca nello stesso modo. Stringo la presa, avvicinando le nostre mani intrecciate al cavallo dei miei pantaloni. Desidero un nuovo e spietato contatto, desidero capirne di più di questa bestia chiamata amore. Il lento movimento di risalita, tuttavia, viene interrotto da un applauso e dalla voce di Terushima, che si rivolge inaspettatamente a me.
<< Tobio! Perché non ti presenti? Sei nuovo qui. Se vuoi rimanere con noi, non devi fare altro che mostrarci qualcosa di tuo. >>
Mollo la presa, districando le mie dita da quelle tiepide di Shouyou. Mi alzo in piedi come se fossi un leader in procinto di pronunciare un discorso importante e mi piazzo al centro del salotto, spodestando Terushima. Deglutisco, carico di un’energia proveniente da un lontano universo.
<< Ma a noi degli opposti che cosa importa? Se sono altro da noi, perchè esistono? Se non ci appartengono vuol dire che non esistono, che sono un nulla. Tuttavia potrebbe anche non essere vero ciò che dico, perchè quello che io non sono, potrebbe esserlo qualcun altro. Questo fa paura, non trovate? Quindi, se io sono la notte, tu sei il giorno? E se non esistessi perchè sei altro da me? Se esistesse solo la notte in questo grande mondo fatto di luci artificiali? Qualcuno però, mi disse che senza giorno la notte perde la sua qualità di essere notte. Ha bisogno della luce per sopravvivere. Gli opposti quindi, a che cosa servono? A mentire o a vivere? A farci vivere mentendo, forse. Sono, ma non sono. Vivo, ma sono morto. Respiro, ma sto affogando. >>
E guardo Hinata come se fosse l’unica ed essenziale ragione del mio cambiamento, della mia effimera felicità. Non mi accorgo nemmeno del rumore degli applausi. Il sole nascente mi rende indifferente al resto del mondo.
 
12 ottobre, 1964
 

Energia. Siamo energia. Energia cinetica.
Siamo un tripudio di colori e di forme, siamo un disordinato guazzabuglio di contraddizioni. Le nostre dita avvezze ad intrecciarsi costruiscono nuove ed asimmetriche sculture, sputtanano le meraviglie di Michelangelo, si accarezzano con timidezza e si graffiano con malizia.
Mani in alto, due dita conficcate nel cielo in onore della pace. Lo specchio celeste sanguina al nostro passaggio.
Non avrei mai creduto di arrivare a questo punto, di arrivare ad apprezzare l’amore e tutto ciò che esso contiene, quasi fosse lo sconfinato stomaco del mondo. Non avrei mai pensato che il mio corpo avrebbe potuto muoversi a ritmo di musica, che avrebbe potuto fremere, che avrebbe potuto perdere ed acquisire forza a causa di liquidi e di sostanze fautrici di allucinazioni. Non avrei mai pensato che avrebbe potuto contorcersi di piacere, di rabbia, di spensieratezza. Non avrei mai creduto che un ragazzo di nome Shouyou Hinata avrebbe potuto afferrare la mia vita e trascinarla in un limbo destinato ai pagani dell’amore. Oscilliamo tra la libidine e l’indifferenza, tra il bacio e lo schiaffo, continuamente. Eppure, tenerci per mano è tutto ciò che di più facile riusciamo a fare. Ci cerchiamo, continuamente. Hinata è uno di quegli alberghi appena costruiti che coprono i tramonti. È uno di quei fuoristrada che si incastrano nei vicoli. È uno di quegli sguardi che si incastrano tra le costole. È una goccia di sangue su un cappotto bianco. È una goccia di pioggia dispersa tra la sabbia. È il ricordo passato di un parco vicino a casa. È un attimo imminente. Gli direi che è il mare, ma sarebbe riduttivo. Gli direi che è il vento, ma sarebbe troppo etereo. Gli direi che lui è la musica, ma non gli renderebbe onore. Gli direi che lui è un uragano, ma sarebbe troppo distruttivo.
Lui è il sole, il mio sole nascente, che sorge dietro le mie montagne di preoccupazioni.
Sfiliamo nella manifestazione pacifica per i diritti umani senza mai separarci, fiori tra i capelli e pantaloni strappati sulle ginocchia.
<< Conficcate i fiori nei vostri fucili! >> urlo.
Hinata ride, poi sorride.
<< Kageyama… sono fiero di te! >>
Ed inaspettatamente, tirandomi dal centro della camicia blu, posa le sue labbra sulle mie, e mi bacia come se l’intero rispetto dei diritti umani dipendesse dal suo gesto. La sua lingua s’insinua tra i miei denti, esplorando le pareti della mia gola. Ci tocchiamo la faccia, il naso, gli occhi. Trasportati dalla musica di chi suona accanto a noi, accenniamo qualche inconsueto movimento, dando vita alla danza degli incompresi. Quasi cadiamo a terra, perché non vediamo dove stiamo andando. Staccandosi da me con estrema difficoltà, Hinata riafferra la mia mano, rinnovata di forza vitale.
<< Mondo! Viva l’amore! >>
E sebbene a contrastare la nostra marcia ci sia un gruppo di fanatici, sebbene scorga il volto di mio padre tra quelli dei mille e sbiaditi suoi sosia, Hinata continua a baciarmi, ripetendo sempre la stessa identica frase. Non mi sono mai sentito così vivo.
 
14 ottobre, 1964
 
<< Dove mi hai portato? >>
Hinata è bendato, all’oscuro di dove io l’abbia condotto.
Chiudo la porta a chiave.
<< Puoi aprire gli occhi >> sussurro nel suo orecchio, sfilandogli la benda azzurra. Il mio ragazzo dai capelli rossi apre gli occhi e si guarda attorno, spaesato. Tutto ciò che lo circonda non sono altro che pareti, pareti spoglie e trasandate, macchiate dal tempo.
<< Dove siamo? >> mi domanda, girando sul posto.
<< Questa è la casa del sole nascente. Siamo a New Orleans. >>
Alla mia confessione, Shouyou spalanca la bocca, sfoderando un sorriso a trentadue denti, incredulo per il fatto che la leggenda nascosta dietro questa casa sia vera.
<< La casa di cui parla la canzone? Non posso crederci, Kageyama, come hai fatto a trovarla? >>
<< Ricerche su ricerche >> ammetto sorridendo, debitore a Terushima per avermi aiutato nella missione.
<< Ma perché mi hai portato qui? >>
A questa spontanea domanda rispondo afferrandogli il volto e avvicinandolo al mio. Siamo talmente vicini che riesco a scorgere i particolari delle sue iridi.
La timida luce che filtra dalle saracinesche rotte accarezza i nostri corpi.
<< C’è una casa a New Orleans, la chiamano “il sole nascente”. È stata la rovina di molti poveri ragazzi
e io so di essere uno di loro. Ora l’unica cosa di cui ha bisogno un giocatore d’azzardo è una valigia ed un portabagagli.
L’unica volta che è soddisfatto
è quando  si ubriaca. Oh madre, di’ ai tuoi figli
di non fare quello che ho fatto io,
ovvero trascorrere la propria vita nel peccato e nella miseria
nella casa del sole nascente. Nessuno deve trascorrere la propria vita nella casa del sole nascente, o ne sarà inglobato. Nessuno deve. E nessuno può, perché voglio che questa casa appartenga soltanto a me. >>
<< Kageyama, non ti seguo… >>
Rumoroso silenzio.
<< Tu sei la mia casa del sole nascente. Sei la mia casa, il mio rifugio. Sei il mio sole nascente, sei tutte le albe che non ho mai ammirato. E ti prego… Ti prego Hinata… >>
Non mi dà il tempo di concludere. Cadiamo a terra e facciamo l’amore per la prima volta. Questa, come il nostro primo bacio, avviene spontaneamente.
Non mi sono mai sentito così vivo.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: dolcissime lettrici, finalmente ho aggiornato! <3 Perdonate il ritardo, ma coloro che mi seguono sulla pagina Facebook conosceranno il motivo di questo mio ritardo (eccetto i mille impegni che non mi hanno lasciato un momento per scrivere). Questo capitolo anni ’60 proprio non mi andava giù. Non riuscivo a trovare una canzone adatta, non riuscivo a trovare un’ambientazione adatta, e questo semplicemente perché non sono una fan sfegatata delle atmosfere di questo decennio. Ma poi la patata Ems mi ha convinta a cedere al lato oscuro dei figli dei fiori, ed ho abboccato. Ho trovato che Hinata potesse essere perfetto in questo ruolo, e che fosse la guida perfetta per Tobio, oppresso dalla figura paterna. Terushima è il bonus, e con lui il suo fondoschiena.
Spero che vi sia piaciuta e che traspaia qualche cosa di positivo <3.
Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “The house of the rising sun” dei The Animals, “From Gold” dei Novo Amor, “Let the sunshine in” dalla colonna sonora di Hair. <3
- “Amore e tosse non si possono nascondere” è una citazione di Ovidio. “E se gli alberghi appena costruiti coprono i tramonti, tu non preoccuparti. Guardare i fuoristrada che si incastrano nei vicoli” è una citazione di “Le ragazze kamikaze” di Le luci della centrale elettrica.
E nulla, fatemi sapere cosa ne pensati, ovviamente le critiche ed i consigli sono sempre ben accetti! <3 Grazie a che lascerà il segno del suo passaggio! Fate l’amore, non fate la guerra!
_Noodle 
  
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