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Autore: JustAHeartBeat    14/02/2017    2 recensioni
Si ritrovò a sfiorare con uno sguardo curioso i lineamenti tondi, lattei, e gli occhi liquidi d’un argento limpido, ma allo stesso tempo inespressivi, si ritrovò a carezzare la linea imbronciata delle labbra sottili, ed al contempo visibilmente morbide, si ritrovò a perdere un battito del cuoricino nell’osservare la fossetta che in quel momento era comparsa al disopra del suo sopracciglio sinistro, inarcato, e si scoprì desiderosa di scoprire se un paio simili sarebbero comparse ai lati della bocca, se le avesse sorriso, si ritrovò ad osservare i capelli tanto biondi da sembrare bianchi, tirati indietro da qualcosa che sarebbe potuto assomigliare al gel babbano, pensando come sarebbero stati scompigliati . Ma come sarebbe tanta bellezza potuta essere nemica? Cos’era Scorpius Malfoy? Il giorno, forse? O la notte? Proprio non lo sapeva, ma Rose non era stupida, e sapeva che il giorno e la notte sono soltanto due facce della stessa medaglia, e Malfoy, era sicuramente entrambe.
Genere: Comico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Rose Weasley, Scorpius Malfoy, Un po' tutti | Coppie: James Sirius/Dominique, Rose/Scorpius
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Qualche Lentiggine Di Troppo'
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Eccomi qui, ragazzuole e buon San Valentino!
Dovete perdonarmi il piccolo ritardo ma non potete capire (o forse si) quante tonnellate di compiti in classe abbia queste settimane. Come vi va? A me abbastanza bene, ho passato questo San Valentino ad ingozzarmi di dolci e posso dirmi soddisfatta, voi?
Non c’è molto da dire su questo capitolo, è leggermente più corto degli altri perché incentrato quasi esclusivamente su James e Dominique. Ho preferito che fosse più breve ma più concentrato sulle emozioni dei protagonisti (che sono state lasciate in disparte) e sul loro confronto. Spero vi piaccia!
Un grazie enorme alla dolce Fancy, a Amy ed a Chiara che è tornata a seguire la storia con mia immensa sorpresa e felicità. Graziegraziegraziegrazie a tutte!
Alla prossima!
Bacionissimi(?)
JustAHeartBeat
 

 
 
Chapter XXII
 
La più grande paura.
 

“La più grande paura umana non è morire,
ma essere vivi.
La nostra più grande paura
 è correre il rischio di vivere
 e di esprimere ciò che siamo realmente.”
– Don Miguel Ruiz
 
 
 
Le pareti del San Mungo erano bianche. Rose non si era mai accorta di quanto fossero chiare, di quanto risplendessero della luce del sole che vi batteva sopra. Certo, anche l’ultima volta che vi era entrata erano bianche, di un bianco che però non le sembrava neppure lontanamente così bello. Quella volta riflettevano la speranza nel cuore della sua famiglia, quella volta non le parevano chiudersi attorno alle spalle, quella volta avevano un non so che d’incoraggiante, quasi amico.
Erano in attesa da un paio di ore ormai ed il silenzio che aveva imparato ad attorniarli sapeva d’aspettativa, di fiducia. Erano stati condotti al quinto piano dell’ospedale. Tazzine da the incantate volavano per la sala posizionandosi a coppie su dei piccoli tavoli tondi sparpagliati per la stanza[1].  I Potter non erano ancora arrivati, da quello che sapeva la ragazza, zio Harry era stato trattenuto in ufficio senza la possibilità di prendere un permesso di qualche ora e zia Ginny aveva preferito aspettarlo a casa con i figli. Per quanto le riguardava, era seduta s’una poltrona impolverata e puzzolente all’angolo della sala. Il capo chino s’un libro dall’aria nuova, la copertina rigida dai toni caldi era visibilmente di fattura babbana, il titolo, scritto in azzurro scuro, faceva bella mostra di sé poco sopra il pollice della ragazza: I Quattro Accordi[2]. Lo aveva trovato quella mattina davanti alla sala comune, mentre si apprestava a raggiungere l’ufficio della McGranitt dal quale avrebbe utilizzato la Metro polvere per arrivare al San Mungo. Non era incartato, non era accompagnato da alcun biglietto, giaceva semplicemente lì. L’unica scritta che lo accompagnava, elegantemente disegnata sulla pagina bianca che seguiva la copertina, era:
 
‘Alla signorina Weasley.
Illuminante.
–B”
 
Aveva sorriso al tentativo goffo di Scorpius di nascondersi dietro quello pseudonimo banale. B. B di Barbie. Patetico. Nel raccoglierlo, si era resa conto del piccolo legame creatosi tra lei ed il testo, ancora prima di averne letto una sola parola. Dopo aver letto la prima pagina aveva capito che quel libro le sarebbe rimasto nel cuore. Alla seconda sperava non le incidesse l’anima. Neppure troppo per i contenuti, dei quali poteva dire di saper ben poco, più che altro perché pregno di Scorpius. Ogni parola che leggeva era Scorpius, ogni piccolo punto. Le aveva regalato un libro. Un libro.
Voltò pagina ma, non fece in tempo a metterla a fuoco che il cigolio della porta annunciò l’entrata dei Potter. Il primo ad oltrepassare la soglia fu suo zio che, affannato e preoccupato, cercò con lo sguardo  i suoi genitori per raggiungerli e fare un cenno di saluto a tutti. Ginny, dal canto suo, salutò tutti con un bacio sulla guancia, poi si sedette al lato opposto della stanza rispetto al marito. Lily semplicemente prese posto al lato di Rose, seguita da un Albus corrucciato, col viso coperto di lividi giallognoli. James non c’era.
Il ragazzo camminava invece per i corridoi, lo sguardo sul numero serpeggiante in oro che contrassegnava le stanze. Doveva vederla. Scese per la rampa di scale che lo avrebbe portato al Reparto Lesioni da Incantesimo, per poi superare quanto velocemente poté un gruppetto medimaghi  che, fermo nel bel mezzo del corridoio ingombrava la strada, quasi travolse un paziente con il braccio ingessato ed il labbro spaccato e, dunque, la vide: D204. Si avvicinò cautamente alla porta e, premendo lievemente sulla maniglia, solo una volta essersi assicurato di non essere stato visto da nessuno, l’aprì.
La stanza dove la ragazza riposava era esattamente identica alle altre: la carta da parati era d’un bianco sporco tendente al crema, meno brillante e nuovo rispetto a quello delle pareti del corridoio. Il mobilio era d’acciaio tinto d’un verde acceso, dinnanzi alla finestra chiusa una tenda dello stesso colore. Sopra il comò leggermente arrugginito v’erano una pila di vestiti e camici nuovi. S’una mensola facevano bella mostra di sé almeno una ventina di boccette ed ampolle colorate, contenenti i più diversi liquidi. Dominique giaceva sul letto, al centro della stanza, il corpo coperto da coperte pesanti.
I capelli biondi erano stati raccolti in una treccia, probabilmente dalla madre, risplendevano al timido raggio di sole che filtrava, dorati dell’oro più pregiato, morbidamente poggiati sul cuscino candido, il viso pallido cadeva mogio sulla spalla destra. Era bella, bella da far impallidire il sole, bella da far tremare la terra.
James prese posto sulla sedia adiacenti al suo letto. La guardava e basta, il fiato ancora mozzo, quasi temesse che se avesse respirato, lei si sarebbe in qualche modo rotta. Accanto a lei dopo tutto quel tempo, si sentiva come se il tempo aveva smesso di correre, come se non avesse bisogno di nient’altro che rimanere lì al suo fianco, in attesa che si svegliasse di nuovo. Perché si, Dominique era viva. Si era svegliata la notte precedente tra l’una e le quattro di notte, improvvisamente, come per magia. Nessuna pozione assunta endovena aveva portato alcun miglioramento. Semplicemente si era svegliata, come se fosse caduta in un sonno profondo, come se fosse stata addormentata per tutto quel tempo.
Attese. Il petto della cugina si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro, le palpebre lunghe di tanto in tanto tremolavano un po’ e le labbra s’increspavano. Cercò la sua mano sotto le coperte per trovarla poco distante dal bordo del letto  e la strinse tra le sue. Al sentire di nuovo quel tocco gli parve di poter toccare con un dito il paradiso, gli parve di aver trovato la sua parte mancante, come se lui fosse un puzzle incompleto e Dominique l’ultimo pezzo da incastonare. Sentì l’amore battergli in petto con forza tale da sentirsi vulnerabile ed estremamente potente allo stesso tempo.
“Ti amo” sussurrò, nella voce il cocente desiderio che lei sentisse quelle parole. “Ti amo” ripeté, libero del peso opprimente di una verità repressa per troppo. “Ti amo”. Non capiva più per quale motivo tutto quello non potesse essere giusto. Dopo averla quasi persa, dopo aver perso il loro bambino trovava impossibile percepire quel senso di ingiustizia e disgusto che aveva provato. Era giusto. L’amore era giusto. Lei era giusto. Loro erano giusti. Quel bambino sarebbe stato dannatamente giusto. Quel bambino. James avertì una morsa allo stomaco. Quel bambino.
Si era imposto di non pensarci, si era imposto di non pensare a ciò che non l’avrebbe portato a niente. Era impossibile. Non aveva avuto neppure il tempo di realizzare d’essere padre che già non lo era più. Come avrebbe fatto ad amare un bambino che non aveva conosciuto? Come avrebbe fatto a perdonarsi quel dolore così innegabilmente distratto? Non lo sapeva. Non sapeva perché non si era sentito lacerare il cuore in petto alla notizia dell’aborto, non sapeva perché per quanto potesse fargli male, non gli sembrava mai abbastanza. Il dolore maggiore era accompagnato allo stordimento di chi galleggia nel vuoto senza appigli. Come sarebbe stato altrimenti? Come avrebbe cambiato la sua vita quel nuovo cuoricino pulsante? Non lo avrebbe mai saputo.
Sotto le coperte, Dominique mosse la mano. Era sveglia. James tremò, incapace di muovere muscolo mentre la ragazza sollevava le palpebre tanto lentamente che il cugino temette non ne fosse più in grado. Ci volle un po’ prima che lei riuscisse a mettere a fuoco la stanza che la circondava, ci volle un po’ prima che si accorse di James. Senza accorgersene, il ragazzo aveva iniziato  a piangere.
“Hey” le sussurrò dolcemente. Non aspettava risposta. Rimasero così, a guardarsi per un tempo infinito, le mani ancora intrecciate. Lui aveva paura. Paura di parlare, paura di muoversi. Temeva che lei fosse troppo debole per poter sentire le sue parole, che non riuscisse a muoversi e che spostandola le avrebbe fatto male. Ma più di tutto, temeva che quel risveglio fosse stato solamente un sogno.
“Hai dormito un po’” ironizzò, portandosi la mano libera al viso per asciugarsi le lacrime.  “Hai deciso di farci un bello scherzo, Dom, dico sul serio”. Singhiozzò. Gli occhi di Dominique si riempirono di lacrime. “Non c’è più, vero?” domandò solamente, con un filo di voce, le labbra tremanti. James non seppe che rispondere. Credeva che Fleur le avesse già parlato quella notte, che lei sapesse. Decise che non le avrebbe mentito, non quella volta, né mai più. “Si, non c’è” sussurrò, gli occhi bassi.
Non seppe per quanto tempo Dominique pianse ininterrottamente, non riuscì a quantificare il dolore nei suoi occhi perché inimmaginabile. Lo avvertiva in ogni sussultò silenzioso, lo vedeva rispecchiato nelle goccioline trasparenti ma  mai completo. Perché sapeva che la ragazza non lo avrebbe mai potuto esprimere interamente.
Non l’abbracciò, non la strinse a sé. Lasciò che piangesse rannicchiata nel letto, le lasciò il tempo necessario per realizzare di essere ancora viva, perché non sarebbe bastato il tempo di una vita affinché  il dolore scemasse.  Quando il cigolio della porta li avvertì di non essere più soli, James non si preoccupò di allontanarsi, bensì voltò lo sguardo  verso la medinfermiera di mezza età che era entrata.
“Chi è lei? Chi le ha dato il permesso di entrare?” chiese perplessa, posando il grande vassoio sul quale erano posate tre boccette della stessa tonalità di giallo ocra . Il ragazzo si alzò dalla sedia. “Sono James Potter..”. Non fece neppure in tempo a terminare la frase che la ragazza, asciugandosi gli occhi con l’orlo della manica, ebbe appena il fiato di bisbigliare: “Nessuno, voglio mia madre”, poi buttò nuovamente il capo indietro in modo tale che si adagiasse sul cuscino, gli occhi chiusi, l’espressione stanca e le ultime lacrime ancora a percorrerle le gote.
Il venne scosse da un brivido. Improvvisamente era instabile. Senza aspettare che la signora dicesse nulla, tirò fuori dalla tasca una margheritina di prato, una di quelle che crescevano nel cortile della Tana, una di quelle che Dominique amava cogliere quando era piccola per conservarle ognuna in una pagina specifica del proprio diario. “Avrei dovuto sedermi accanto a te, quel giorno.”. Poi se ne andò.
 
 
 
 
[1] Sala d’attesa e da the per i visitatori dell’ospedale,
[2] Libro esistente, scritto da Don Miguel Ruiz

 
   
 
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