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Autore: Adeia Di Elferas    04/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il sole si stava timidamente affacciando su Forlì, colpendo gli occhi cerchiati di stanchezza e timore dei suoi cittadini, che non avevano potuto trovare nemmeno un'ora di riposo in quella notte squassata da perquisizioni e arresti.

Mongardini aveva fatto sì che una discreta folla si radunasse davanti al palazzo dei Riario.

La Contessa non gli aveva dato alcuna indicazione su come giustiziare Don Domenico, ma il soldato aveva un'idea.

Tanto per cominciare, aveva convocato tutti i suoi provigionati, esentandoli per quelle ore dal compito ingrato di perquisire le case. Voleva che l'attenzione di tutti fosse sul corteo che avrebbe portato alla morte il prete.

Forse Don Domenico non era più colpevole di altri, ma di certo sarebbe stato il simbolo della punizione che spettava ai traditori. Bisognava colpirne uno in modo molto duro per far sì che tutti gli altri sapessero a cosa si andava incontro a far torto alla Contessa.

Quando le guardie delle carceri da Ravaldino portarono il condannato, che non si fece problemi a trascinare i piedi e fare ostruzionismo con ogni mezzo fino a che non giunse dinnanzi al suo strano plotone di esecuzione, Mongardini ordinò che venisse spogliato davanti a tutti.

Il prete, ferito da quell'umiliazione, lasciò che i pochi stracci che ancora portava indosso venissero squarciati e lasciati in terra.

Dalla folla si sollevarono esclamazioni di ribrezzo e stupore nel vedere la pelle orrendamente marezzata del prigioniero.

A tutti fu chiaro che tipo di tortura avesse scelto la loro signora con quell'assassino: la tortura del fuoco.

Si potevano indovinare senza sforza le forme dele punte arroventate che lo avevano a tratti sfiorato a tratti quasi trafitto e in più punti di vedeva il segno del passaggio della viva fiamma, che aveva mangiato interi lembi di carne.

Mongardini fece un cenno d'intesa con due dei suoi provigionati e questi gli porsero delle spesse e ruvide corde. L'uomo ne assicurò un capo alla coda del suo cavallo, un imponente stallone, e l'altro lo legò stretto ai piedi del condannato.

“Siamo pronti.” disse il Capitano, dando il permesso ai suoi subalterni di disporsi a falange.

Mongardini fu l'ultimo a essere pronto e a salire a cavallo e prese posto sul suo stallone con un gesto plateale.

A un movimento quasi impercettibile della sua mano, il corteo partì e così fece anche lui.

Sorpreso dal movimento improvviso, Don Domenico rovinò in terra, battendo con forza la spalla, ma non perse conoscenza.

Il Capitano e i suoi si muovevano con voluta lentezza, in modo che il condannato non morisse subito, ma soffrisse e basta, torturato dall'impatto con il suolo che era a tratti sassoso e a tratti fangoso.

Seguiti dagli sguardi del pubblico, i provigionati e il prete si allontanarono dal centro, diretti al ponte dei Moratini.

Per tutta la strada, il condannato non fece altro che sciorinare professioni di fede e preghiere, ma il suo giustiziere non si lasciò né impietosire né spaventare da quell'aura di santità, più adatta a un martire che non a un assassino.

Giunti al ponte, Mongardini permise ad alcuni forlivesi che li avevano seguiti fino a lì di colpire il prete, a patto che non lo uccidessero.

Don Domenico venne così sfregiato sul volto e sul petto, dove le bruciature resero ogni fendente ancor più doloroso, ma non morì.

“Di nuovo alla piazza.” ordinò con calma il Capitano e così il condannato riprese il suo calvario, trascinato dallo stallone nero.

Giunti in piazza, virarono verso le beccherie, dove Gian Antonio Ghetti aveva trovato la morte la sera prima.

Nell'intento di sfinirlo, Mongardini condusse il prete per mezza città ancora, scegliendo tappe evocative e spesso gremite di gente mossa dal macabro desiderio di vedere l'esecuzione coi propri occhi, e si sorprese non poco quando, tornati davanti alla porta del palazzo Riario trovò il prete sanguinante e con le ossa rotte, ma ancora in grado di respirare e parlare.

Era come Ettore, trascinato lungo le porte scee, ma il Capitano non provava per lui alcun rispetto, come invece avrebbe fatto se fosse stato al cospetto dell'eroe di Troia.

“Finitelo.” ordinò Mongardini ai suoi: “Conciatelo come lui ha conciato il Barone.”

E così i soldati presero il prete a calci e pugni, colpendolo con le else delle spade e gli speroni di ferro dei loro stivali.

In tutto questo Don Domenico inneggiava al Regno dei Cieli e al perdono divino, ma le sue parole caddero nel vuoto.

Alla fine, dopo un tempo quasi infinito, un suono sinistro fece intendere a tutti che anche il collo del prete si era spezzato, come la maggior parte delle altre ossa del suo corpo.

“Impiccatelo accanto al suo amico.” disse Mongardini, indicando il gancio di ferro da cui pendeva il cadavere di Gian Antonio Ghetti.

Senza fiatare, i suoi provigionati eseguirono e così, accanto a un corpo già irriconoscibile per le ferite, se ne aggiunse uno reso altrettanto grottesco dai segni della tortura e dello scempio subito.

 

“Io vengo con voi!” esclamò Lucrezia Landriani, presentandosi a cavallo alle porte di Imola, intercettando per un soffio il mesto corteo diretto a Forlì.

Tommaso Feo, che guidava la fila, la guardò con severità: “Restate qui con vostro marito e mia moglie. Forlì non è un posto per voi, adesso.”

“Non siete voi a decidere quale sia il posto per me!” ribatté la donna, passando in testa e mettendosi accanto al genero.

Malgrado fosse ancora estate, Lucrezia portava già un mantella autunnale, per preservare le sue povere ossa dai dolori dovuti all'umidità dell'alba, ma il suo sguardo era fiero e battagliero come quello di una ragazza.

I prigionieri erano stati imbavagliati e legati a dovere e ciascuno di loro era ben sorvegliato da un soldato. Tommaso non aveva voluto caricarli su un carretto perché non aveva intenzione di passare per Faenza. Era convinto che meno si fosse saputo quello che stava accadendo, meglio sarebbe stato per tutti quanti.

“Vi dico di restare qui!” fece il Governatore, alzando la voce.

Lucrezia non badò al tono perentorio dell'uomo e, dando di speroni al suo cavallo, fece capire che non avrebbe cambiato idea per nessuno motivo.

“Restate qua. Badate a mia moglie e state vicina a vostro marito. Non c'è alcun bisogno di voi, a Forlì.” tentò per l'ultima volta Tommaso, che tutto voleva fuorché trovarsi tra i piedi la suocera in ore tanto dolorose e difficili.

“Mia figlia è appena rimasta vedova!” ribatté Lucrezia, cocciuta: “A Forlì c'è bisogno di me, eccome!”

A quel punto Tommaso non trovò più nulla da dire e, colpendo i fianchi della sua bestia, diede ordine di incamminarsi e di farlo a passo svelto.

 

Poco dopo l'esecuzione di Don Domenico da Bagnacavallo, in piazza venne letto un nuovo editto scritto dalla Contessa.

In realtà si trattava più che altro di un aggiunta a quello di poche ore prima, con cui si ribadiva il concetto del precedente, specificando che per chiunque avesse consegnato vivo o morto uno dei colpevoli era stata stanziata una ricompensa di mille ducati d'oro in aggiunta a tutti i beni confiscati all'accusato.

Per rendere la collaborazione più semplice, Caterina fece sì che i nomi rivelati da Don Domenico durante il suo interrogatorio venissero divulgati immediatamente.

Gli annunciatori stavano ancora ripetendo quel messaggio quando, tra il pubblico, un soldato riconobbe una donna di dubbia fama, nota per essere da anni la serva, nonché l'amante, di Pavagliotta.

Bastò uno scambio di sguardi, e la donna comprese di essere stata riconosciuta. Tenendo per mano due figli e seguita dal terzo, provò a darsi alla fuga.

Ottenebrati dalla promessa dei mille ducati e terrorizzati dall'idea di poter essere accusati come complici, se l'avessero lasciata scappare, molti cittadini la bloccarono là dove stava e consegnarono lei e i tre figli, due maschi e una femmina, alle guardie, che li portarono subito alla rocca.

Lo stesso Mongardini li accolse, quando arrivarono a Ravaldino e, senza nemmeno chiedere conferma alla Contessa, il Capitano diede ordine che quella donna e i suoi bambini venissero uccisi all'istante, senza nemmeno essere interrogati.

“E liberiamoci anche di Delle Selle, dei suoi figli e dei suoi nipoti.” aggiunse, ripensando ai prigionieri che aveva lui stesso condotto a Ravaldino quella notte: “E poi che qualcuno vada a dare saccheggio alle loro case.”

 

Caterina, saputo dell'arrivo alla rocca della sua cameriera personale e dei suoi figli, aveva dovuto prendersi un lungo momento per decidere cosa fare con lei.

Avrebbe voluto che almeno suo cognato Tommaso fosse lì con lei, per aiutarla a decidere, ma non sapeva nemmeno se sarebbe arrivato a Forlì.

Nella sua lettera non gli aveva detto chiaramente di raggiungerla, quindi poteva anche essere che l'uomo restasse a Imola.

C'erano così tante cose su cui ragionare... E poi c'erano i funerali da organizzare. Ci voleva qualcosa di grandioso, affinché nessuno potesse mai mettere in dubbio l'importanza che Giacomo aveva avuto per lei.

Aveva dato ordine al suo cancelliere di occuparsene, ma non aveva mai avuto molta fiducia nelle capacità di Cardella.

Il cancelliere le aveva detto che i Battuti Neri si erano occupati del corpo di Giacomo, ma che aspettavano sue direttive per ricomporlo al meglio. Caterina aveva risposto dicendo che avrebbe fornito loro un abito adatto per le esequie, ma che prima voleva vederlo.

A quel punto si era presentato alla rocca un rappresentante dei religiosi che aveva provato a dissuaderla, dicendole che sarebbe stato molto meglio per lei conservare il ricordo dell'uomo che il Barone era stato, senza intaccarlo con l'orrenda immagine di quello che era diventato.

La Contessa aveva rifiutato quell'ipotesi e aveva detto che sarebbe passata per tempo a vegliare sul corpo di suo marito e solo allora avrebbero potuto vestirlo e prepararlo per il funerale.

Il Battuto Nero se n'era andato molto perplesso, ma non aveva osato contraddire la sua signora, dato che dalla morte del Conte Girolamo Riario, la Contessa era stata sempre la maggiore benefattrice della Confraternita.

Così la donna aveva cominciato anche a pensare a quando recarsi dal corpo di Giacomo.

Doveva farlo, così come doveva e voleva cercare per lui un abito adatto. Il suo Giacomo era stato così attento al suo aspetto e ai suoi vestiti, da vivo, che proprio non se la sentiva a lasciarlo partire per sempre così, vestito con abiti stracciati come l'ultimo dei pezzenti.

Nel frattempo, mentre cercava di raccogliere il coraggio per adempire a quell'ingrato compito, la Contessa doveva confrontarsi anche con problemi di natura decisamente più terrena.

L'ambasciatore di Milano era scappato, a quanto pareva, e Caterina non se n'era sorpresa più di tanto. Era sempre intento a parlottare con Ottaviano, dunque perché mai non avrebbe dovuto temere per la sua vita, visto quello che stava capitando agli altri amici del Conte?

La Contessa prese tra le dita l'anello che usava per sigillare le lettere e guardò lo stemma con ribrezzo. La rosa dei Riario accanto al biscione degli Sforza. La sola idea le faceva tornare la nausea.

Nemmeno quello che aveva bevuto le stava dando la capacità di non ripensare agli anni trascorsi tra soprusi e violenze. Come mossi da un malevolo vento di risentimento, i ricordi della vita trascorsa accanto a Girolamo le invasero la mente, facendola vacillare.

Perché mai aveva dovuto trascorrere così tanti anni sposata a un uomo che odiava così visceralmente e così pochi assieme a quello che invece aveva amato più di quanto fosse lecito?

Con rabbia gettò l'anello attraverso la stanza e lasciò la scrivania. Camminare le dava la strana sensazione di fluttuare e si chiese se fosse un effetto dovuto al vino o alla sua condizione.

Quale che fosse la risposta, non le importava.

Aveva deciso di vedere la sua serva. Sarebbe stato penoso per entrambe, ma voleva sapere quanto fosse coinvolta. Doveva saperlo, o non avrebbe mai trovato pace.

 

La promessa di una ricompensa aveva fatto decisamente successo e quella mattina, per quanto fosse ancora presto, le consegne di prigionieri erano già state parecchie e molto importanti.

Gli Orcioli – accusati in modo chiaro e netto da Don Domenico – erano stati catturati in massa uno dopo l'altro e consegnati ai carcerieri della Contessa.

Prima di tutti gli altri era stato acciuffato Bartolomeo, che, chiuso in casa, si era chissà come convinto – dato che non era stato tra i primi arrestati – che nessuno lo avrebbe mai collegato alla morte di Giacomo Feo.

Poi era toccato a suo fratello Francesco, al cugino Mangagnone e poi ad altri nove che portavano il loro stesso cognome, due dei quali erano preti.

Il popolo consegnò anche Pietro Bosi e Giovanni Caroli, credenzieri della Contessa.

Benché non fossero tra quelli nominati da Don Domenico durante le torture, i forlivesi li avevano sempre avuti in odio per i loro modi altezzosi e il loro sfoggio di ricchezza e tanto era bastato per farli rinchiudere nelle segrete della rocca, ormai così piene da non permettere ai reclusi nemmeno di sedersi.

 

“Lasciateci sole.” ordinò Caterina alle guardie che occupavano ormai in pianta stabile la sala delle torture.

La sua serva l'attendeva seduta sulla stessa sedia che aveva accolto il supplizio di Don Domenico, ma, a differenza sua, non era legata.

La Contessa chiuse la porta alle sue spalle e si assicurò che nessuno stesse guardando dalla grata.

Quello era un interrogatorio estremamente personale e non voleva che nessuno sentisse nemmeno mezza parola.

La domestica non portava addosso i segni di violenza che invece sfiguravano la maggior parte degli altri prigionieri.

Questo fece pensare a Caterina che la donna non si fosse difesa in alcun modo. Doveva essersi consegnata spontaneamente.

“Dov'è tuo marito?” chiese la Contessa, senza guardare più la serva: “Non ho sentito il suo nome, tra quelli dei prigionieri.”

La cameriera ci mise un po' per riuscire a parlare. La sua gola era secca e ogni volta che provava a schiudere le labbra era come se il fuoco le attraversasse il petto.

“Lui è fuggito.” riuscì alla fine a sussurrare.

Caterina si massaggiò appena le tempie. Le sembrava tutto così irreale, in quel momento. Avrebbe voluto sedersi e riprendere fiato. Il vino le stava facendo girare la testa, ma l'oppio le faceva ignorare la stanchezza e il dolore fisico. Nessuno dei due rimedi, però, riusciva più a contenere la disperazione della sua anima.

“E ti ha lasciata qui sola coi tuoi figli?” indagò la Contessa, fissando finalmente la prigioniera.

La serva quasi non riconobbe lo sguardo della sua signora. Era annebbiato, folle, perso. Non c'era nulla delle iridi verdi e brillanti che conosceva. C'erano solo buio e perdizione e due pupille grandi e nere come l'inferno.

“Sì.” rispose la domestica, tormentandosi le mani l'una nell'altra.

“Che vigliacco.” commentò Caterina, senza riuscire a trattenersi.

C'era qualcosa, nel modo di parlare della Contessa, che diede i brividi alla cameriera. A tratti la sua voce era la stessa di quando chiacchieravano del più e del meno davanti allo specchio, alla sera, quando le sistemava i capelli, e poi, all'improvviso, si faceva fredda e aspra, come la lama di un pugnale.

“Quanta parte avete avuto voi due in questa storia?” chiese Caterina, avvicinandosi.

L'altra deglutì e poi, sorprendendosi per prima, scoppiò a piangere, ma non per la paura, ma per il rimorso: “Io... Io temo di aver frainteso molte cose, mia signora... Ho... A volte ho riferito cose che...”

La Contessa si sentì mancare. Aveva sperato fino alla fine che la sua fedele cameriera personale non avesse alcun ruolo nella morte di Giacomo. Aveva sperato che fosse solo la moglie di un parente di un congiurato e non una congiurata lei stessa. Aveva sperato che almeno lei non fosse marcia come tutti gli altri...

“Che cosa hai detto e a chi?” chiese, appoggiandosi al muro.

La serva cominciò a confessare tutto, dalle riunioni che avevano deciso il fato di Giacomo al suo frequente insinuare dubbi circa la condotta del defunto Barone. In tutto questo Caterina ascoltava in silenzio, sanguinando a ogni parola.

“Tu e tuo marito più di chiunque altro sapevate cosa c'era tra me e...” fece la Contessa, la voce rotta prima di riuscire a dire il nome di Giacomo, appena la confessione della donna – che per prima aveva fatto anche il nome dei Marcobelli – fu terminata: “Ci avete fatto da testimoni al nostro matrimonio, siete stati presenti alla nascita di nostro figlio, avete seguito il nostro amore fin dall'inizio eppure avevate dei dubbi sulla sua autenticità?”

La serva chinò il capo. Quello che più l'addolorava era il tono incredulo della sua signora. Si rendeva conto solo in quel momento di quanto le sue congetture fossero state assurde e azzardate.

Se Giacomo Feo era morto, in gran parte era anche per colpa sua. La sua testimonianza aveva avuto il potere di convincere anche i più scettici e ora anche degli innocenti stavano morendo per colpa sua e della sua leggerezza...

“Bastava parlarne. Con me.” fece Caterina, a voce bassa: “Se solo mi avessi espresso le tue perplessità per tempo, io ti avrei chiarito tutto e lui sarebbe ancora vivo.”

La cameriera tirò su col naso, incapace di piangere ancora: “Mi ucciderete?” chiese.

“Non posso fare altrimenti.” rispose la Contessa e per la prima volta alla serva parve sinceramente dispiaciuta: “Non posso lasciarti vivere o penserebbero che in qualche misura io fossi d'accordo o che ti ho favorita per chissà quale assurdo motivo.”

“Mi farete anche torturare? Soffrirò?” domandò allora la cameriera, senza neppure provare a opporsi alla decisione della sua signora di farla uccidere.

Caterina strinse i denti: “No.”

Prima che la Contessa si accorgesse del suo repentino movimento, la domestica si gettò in ginocchio ai suoi piedi, gemendo: “Siete generosa, mia signora! Vi prego, non torturate nemmeno i miei figli, se poi devono morire...”

Caterina la fece rialzare e, nel prenderla per le spalle avvertì l'incomprensibile desiderio di abbracciarla. Non lo fece, però, accontentandosi di stringerle le mani nelle sue.

“Tu sarai impiccata in piazza, perché tutti devono vedere che non ho avuto riguardo nemmeno per te, essendo colpevole come gli altri – disse – ma ti darò una fiala contenente un veleno del tutto indolore, prima di quel momento. Bevila quando sarai ai piedi del patibolo, così, appena la corda stringerà il tuo collo, perderai i sensi e sarai morta prima che il cappio ti soffochi.”

La serva annuì e, gli occhi ancora lucidi, ebbe solo la forza di dire: “Vi ringrazio.”

“Per tuo marito, però, quando lo troverò, non avrò pietà.” concluse la Contessa e lasciò di scatto le mani della sua cameriera personale, prima che l'istinto ritrovato di stringerla a sé tornasse.

Richiamò le guardie, affinché riportassero la donna in cella, non appena fosse stata pronta: “Se ne ha bisogno – disse, infatti, ai soldati – datele un minuto. Se non vuole farsi vedere in lacrime dai suoi figli, aspettate che le si asciughino gli occhi e le guance.”

Dopodiché Caterina lasciò la stanza delle torture senza più voltarsi, accompagnata dal pianto basso e lamentoso della prigioniera che una volta era stata la cosa più vicina, per lei, a un'amica e si sentì la donna più sola del mondo.

 
   
 
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