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Autore: La neve di aprile    04/06/2009    9 recensioni
Orlando Bloom è un attore di fama mondiale. Ama fare snowboard, surf e il caffé nero, senza zucchero.
Annie Brown è nata e cresciuta a New York. Ama il cappuccino alla vaniglia, il suo lavoro e i tacchi dieci.
Orlando Bloom ha la bizzarra abitudine di far scappare tutte le menager che gli vengono affidate.
Annie Brown è la nuova menager di Orlando Bloom.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Orlando Bloom
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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CAFFE' NERO SENZA ZUCCHERO
CAPITOLO TREDICI

 

 

Annie sbadigliò, stropicciandosi gli occhi e sbirciando tra le dite sottili.
La stanza attorno a lei era di un candore disarmante: le pareti rosa antico, gli antichi mobili scuri e le tende chiare, immacolate, le conferivano un'aria d'altri tempi. Sospirò, lasciandosi cadere di schiena sul materasso, tirandosi addosso il piumone, una sofficie montagna bianca che la nascose al mondo, con la dovuta eccezzione di qualche ciocca rossa, rossissima sulle lenzuola prive di colore.

La luce era fredda, di un pallido rosa, debole come può esserlo negli immediati minuti che precedono il sorgere del sole.
Sbuffò, mugolando tutto il suo fastidio: non aveva nessuna voglia di svegliarsi all'alba, un'altra volta.
Ma più corretto sarebbe stato dire che non aveva affatto voglia di svegliarsi: negli ultimi giorni non aveva dormito più di due ore a notte e quella appena trascorsa non aveva fatto eccezione.
Si allungò, pigramente, stirando i muscoli indolenziti dalla stanchezza, e richiuse gli occhi, pregando per riprendere nuovamente sonno, ma gli uccellini lì fuori, nascosti nelle fronde di un pesco in fiore, sembravano di tutt'altro avviso: iniziarono a cinguettare, tutti assieme, in risposta al suonare di un campanile in lontananza.

- D'accordo, d'accordo! - esclamò Annie, esasperata, sentendosi un po' come Cenerentola, nelle prime scene del film.
Si mise a sedere, chiedendosi se non sarebbe stata aggredita, a breve, da uno stormo di piccioni e un branco di topolini che l'avrebbero lavata e vestita di tutto punto.
Cosa non sarebbe stato poi un male così grande, riflettè alzandosi in piedi e allungandosi, in punta di piedi, verso la vestaglia che la sera prima aveva lanciato sulla sedia, davanti allo scrittoio dove faceva capolino il suo computer portatile.

Sbadigliando, premette il pulsante d'accensione e ascoltò il famigliare ronzio riempire la stanzetta.
Se proprio non riusciva a dormire, tanto valeva lavorare e occupare il tempo con qualche attività utile e produttiva.
Stringendosi addosso la stoffa morbida e scura della vestaglia, lasciò spaziare lo sguardo fuori dalla finestra, sullo spettacolo descritto con tanto amore nei romanzi di Jane Austen, senza però riuscire a vedere altro che un bosco, in lontananza, in mezzo a un mare di nebbiolina rada.

- Sto diventando troppo cinica... - sbadigliò, accoccolandosi sulla sedia davanti allo scrittoio - E continuo pure a parlare da sola. -
Incrociò le braccia sul ripiano, affondandovi il mento, in attesa che il portatile finisse di caricare quell'infinità di programmi che aveva installato ripromettendosi di utilizzarli, un giorno, sopra il volto sorridente di una se stessa bambina, a cinque anni scarsi, tutta impiastricciata di gelato al cioccolato.
Era stanca. Lo era dal giorno in cui il mondo si era rovesciato e non solo perché per scappare sotto il tetto natio aveva guidato per una giornata intera su stradine che solitamente evitava come la peste: era stanca dentro.

Come se, sotto un certo punto di vista, avesse raggiunto un limite emotivo che aveva stupidamente scavalcato e adesso ne pagasse le conseguenze.
Cliccò distrattamente sull'icona di i-tunes, inseguendo il filo aggrovigliato dei suoi pensieri che, inevitabilmente, la portavano ad un unico punto, ogni volta.
Un punto di nome Orlando, un punto che le faceva male come pochi altri. Si sentiva stupida come poche altre volte, si era lasciata coinvolgere come una tredicenne e adesso ne pagava le conseguenze: sola, nascosta in un angolo della campagna inglese senza arte né parte, lontana da tutto ciò che era il suo mondo.

Sbatté le palpebre, scacciando quelle lacrime fastidiose che si accumulavano ogni benedetta volta agli angoli dei suoi occhi, facendo partire una canzone arrabbiata dei Filthy Youth, riflettendo su quanto volentieri avrebbe fumato una sigaretta, in quel momento, se non fosse stato per il piccolo particolare che il tabacco proprio non lo reggeva. Sbuffò, pizzicandosi le guance e fissando l'icona del browser di posta elettronica, che sembrava ricambiare l'occhiata con altrettanto astio.
Erano due giorni che rimandava il fatidico momento, quello che adesso le incombeva addosso ricordandole che non aveva più tempo per cincischiarsi facendo finta di niente. Inspirò a fondo, ripetendosi che sarebbe andato tutto bene.
Che era una persona matura, adulta e vaccinata, niente avrebbe potuto farla stare più male di quanto già non stesse.

Il programma si aprì quasi istantaneamente, pigolando quando finì di scaricare la solita tonnellata di email, e rimase in attesa che la ragazza riaprisse gli occhi e riprendesse a respirare.
Sapeva cosa avrebbe trovato, tra le montagne di notifiche di risposta, spam, messaggi di lavoro e da parte di amici e famigliari: così come aveva dovuto arrendersi e spegnere il cellulare per ignorare tutte le telefonate di Orlando, aveva evitato il più possibile di avvicinarsi al computer onde evitare di trovarlo intasato di email.
E così era, infatti.
Isolò trentasette messaggi, tutti provenienti dall'attore, e li spostò in una cartella a parte sforzandosi di ricordare di come lui avesse abusato della sua fiducia raccontando al mondo intero il suo segreto più grande.
Non avrebbe ceduto di fronte a cento mail di scuse, non voleva più niente da lui.

L'aveva già comunicato a David: con la fine del mese si sarebbe dimessa, fine della storia.
Però il mese non era ancora finito e aveva ancora sette giorni - sette lunghissimi giorni - da passare al servizio di Orlando, che le piacesse o meno, e non aveva nessuna intenzione di prendersi una nota di biasimo perché aveva trascurato i suoi doveri professionali.
- Anche se sarei perfettamente giustificata. - brontolò a bassa voce, cliccando con rabbia sulla prima email, che si aprì quasi istantaneamente.

Annie, ti prego.
Dove sei?

Trattenne un ringhio, rifiutandosi di andare oltre: il messaggio venne eliminato con un click e un altro aprì il secondo.

D'accordo, sei arrabbiata, lo capisco..

- No, tu non capisci proprio niente. Non hai mai capito niente, MAI. - singhiozzò, senza più riuscire a dominare la rabbia che le montava dentro e che la faceva tremare coma una foglia.
Si passò una mano sugli occhi, rapidamente, rifiutandosi categoricamente di versare anche la più piccola lacrima, e con l'altra uscì dalla cartella, senza leggere altro: doveva fare il suo lavoro, poi si sarebbe concessa di urlare, saltare, prendere a pugni un cuscino o fare qualsiasi altra cosa le passasse per la mente per sfogarsi.

Ora-doveva-lavorare.
Non batté ciglio, mentre digitava poche righe, una più fredda e formale dell'altra, ricordando ad Orlando che la sera dopo si sarebbe presentato, senza possibilità di esonero, alla commemorazione di Max Ophüls, si sarebbe comportato da perfetto galantuomo e avrebbe fatto il suo lavoro, dall'inizio alla fine, e lo avrebbe fatto nel migliori dei modi possibili. Punto, aggiunse, Fine della storia.
Sbatté le palpebre, fissando lo schermo piuttosto perplessa.
Le ultime quattro parole decisamente erano molto poco professionali, realizzò, pigiando con eccessiva violenza lo sventurato tasto che le avrebbe cancellate, ripetendo all'infinito il suo nuovo mantra: distaccata e professionale, distaccata e professionale, distaccata e professionale.
Forse, a forza di ripeterlo, se ne sarebbe convinta anche lei.
 

Orlando sbuffò, per l'ennesima volta, facendo scattare, per l'ennesima volta, il sopracciglio sinistro della sorella, che disegnò, per l'ennesima volta, un arco sottile sul volto della donna.
- La pianti, per cortesia? - sibilò lei, incrociando le braccia sulle pagine colorate della rivista che stava tentanto inutilmente di leggere.
- Eh? - l'attore si scosse e la fissò come se solo in quel momento si fosse veramente accorto della sua presenza nella stanza. Samantha scosse il capo, mormorò qualcosa di incomprensibile che sembrava vagamente rimandare ad una possibile visita ad un centro di igiene mentale e tornò alla sua lettura patinata.
Quel ragazzo non stava bene, lo ripeteva grossomodo da quando aveva compiuto cinque anni ed era caduto giù dall'albero dove si era arrampicato per dimostrare di essere un uomo.

- ...manco fosse Keith Richards con la sua palma di cocco... - brontolò ad alta voce, senza rendersene conto.
- Cosa centrano le palme di cocco? - domandò l'attore, piuttosto perplesso.
- Niente, pensavo ad alta voce. - replicò lei, fulminea, adocchiando l'ennesima foto di Paris Hilton in compagnia dell'ennesimo fidanzato.
Ne aveva cambiato tre nel giro di due pagine, forse era il caso di smetterla di comprare certe riviste, si rimproverò, chiudendo il giornale con un sospiro per tornare a rivelgersi al fratello.

Non era abituata a vederlo in quello stato, era straziante: suo fratello era sempre sorridente, sempre pronto a fare qualcosa, sempre pieno di voglia di vivere.
Chi era quello sconosciuto pallido come un cencio, con due occhiaie scure sotto gli occhi che passava la giornata accampato sul suo divano, soprannominato per l'occasione l'Isola della Salvezza? Stentava a riconoscerlo.
Si morse la labbra, mentre lui corrugava la fronte nella pallida imitazione di un'espressione concentrata: era chiaro come il sole che la sua mente era mille miglia lontana da lì, persa da qualche parte in compagnia di grandi occhi neri e capelli rossi.

- OB, tesoro, vedi di non stressare troppo Highlander (*). - sospirò, investendolo con una sferzata di ironia tagliente.
- Chi? - chiese lui, senza capire.
- Appunto. - curvò le labbra in un sorrisetto, nascondendovi dietro il dolore che le stringeva il petto nel vederlo ridotto così - Il tuo povero neurone. -
- Highlander? -
- Si. - secca, si alzò in piedi e aprì un mobiletto alle sue spalle, tirandone fuori due tazze colorate -  L'ultimo rimasto. Highlander. Dio, Orlando, è una battuta! Potresti almeno fare lo sforzo di sorridere, non credi? -
- Scusa, Samy, davvero. - affondò il viso tra le mani, premendone i palmi con forza sugli occhi chiusi, fino a vedere tante piccole macchioline bianche lampeggiare sullo sfondo nero - Ma non ci sto con la testa. -
- Questo lo vedo. - sorrise lei, affacciandosi alla finestra interna che collegava soggiorno e cucina, con un bollitore in mano - Ti va una tazza di thé? -
- Perché no? - sospirò lui, rialzando il capo. Riccioli scuri ricaddero stanchi ai lati del volto, sfiorando gli accenni di barba ruvida che scurivano la mascella dell'attore.
- Fratellino, lasciati dire una cosa. - riprese Samantha, tornando a guardarlo dopo aver acceso il gas e messo l'acqua a scaldare - Perché non la pianti di scrivere mail di scuse e non le dici le cose come stanno? -
Le faceva strana parlare di una persona che non conosceva né aveva mai incontrato prima di allora, ma l'aver ascoltato gli sfoghi del fratello per così tanti giorni aveva trasformato la rossa da perfetta estranea a una di famiglia.

- Che intendi? -
- Apriti con lei, Orlando. - la donna si strinse nelle spalle, semplicemente - Dille quello che senti, non quello che pensi vorrebbe sentirsi dire, non c'è niente che faccia incazzare una donna quanto l'accondiscendenza. E se lei è davvero come dici tu, allora credo che tu l'abbia solo ferita ulteriormente: non è di scuse che ha bisogno. Lei ha bisogno di te. Di sapere che ci sei. -
- Ma è ovvio che ci sono! - protestò l'attore, aggrottando la fronte.
- Ci sono cose che, per quanto ovvie possano sembrare, è necessario dirle ad alta voce perché sembrino reali. - sorrise, prima di dargli le spalle: il bollitore aveva iniziato a fischiare.
 

Orlando si passò una mano sul volto, come se con quel semplice gesto potesse in un qualche modo cancellare la stanchezza dal volto segnato.
La tazza di thé che grossomodo quattro ore prima aveva posato accanto al computer portatile era ormai gelata: non ne aveva bevuto nemmeno un sorso, mentre scriveva la mail più difficile della sua vita.

Quando aveva visto il messaggio di Annie, per un attimo aveva davvero creduto che la sorella si fosse sbagliata e che la donna lo avesse perdonato, ma era chiaro a chiunque che non era così.
Non era arrabbiata, trascendeva il concetto stesso di rabbia, e non se la sentiva proprio di biasimarla, anzi: non riusciva nemmeno ad immaginare come avrebbe reagito lui, al posto suo. In quelle tre righe scarse riusciva a vedere tutto l'odio, il dolore, la sofferenza e la delusione che attanagliavano la manager e ne aveva paura.
Mai, come il quel momento, la sensazione di averla persa era stata così reale.

Posò il mento sulle dita intrecciate, continuando a guardare lo schermo del portatile, il volto pallido innondato dalla luce azzurrognola dello schermo. Si sentiva il fantasma di se stesso, ecco come si sentiva.
Spento, vuoto, solo. Stupido.
Continuava a ripensare a tutti i battibecchi che aveva avuto con Annie, tutte le volte che si era arrabbiato con lei, tutte le volte che l'aveva volutamente messa in difficoltà o in cattiva luce e si sentiva male. Un dolore fisico, un qualcosa che scavava in profondità e minuto dopo minuto si ancorava sempre più saldamente al suo animo, senza dargli la possibilità nemmeno di combatterlo.

Come se fosse in grado di farlo, poi... tutto quello che voleva, tutto ciò che aveva sempre voluto, l'aveva perso.
Non era decisamente in grado di opporsi, poteva solamente sperare.
Pregare e sperare che Annie fosse una persona migliore di lui, che capisse, che riuscisse a perdonarlo e trovasse in sé la forza per rispettarlo di nuovo, se non proprio di stargli accanto.
Tutto, gli sarebbe andata bene qualsiasi cosa, qualsiasi compromesso, qualsiasi rinuncia pur di poterla vedere una volta soltanto e sapere che non lo odiava. Sospirò, sbattendo le palpebre un paio di volte prima di alzarsi in piedi, con la tazza in mano, e trascinare i piedi fino alla cucina, dove ne svuotò il contenuto nel lavello, cercando di non fare troppo rumore.

Samantha era andata a riposare un paio di ore e l'ultima cosa che voleva era causare altri fastidi alla sorella, che già lo sopportava senza battere ciglio e lo aveva accolto in casa sua rinunciando all'uso del divano per chissà quanto tempo.
Posò la tazza, dopo averla sciacquata, e rimane immobile per qualche attimo, lasciando gocciolare le mani sul ripiano in acciaio, chiedendosi per l'ennesima volta che ne sarebbe stato di lui.

Niente l'aveva mai sconvolto tanto quanto Annie.
Mai, in tutta la sua vita, aveva trovato qualcuno che lo prendesse così tanto, che lo coinvolgesse e sconvolgesse al punto da radicarsi in ogni fibra del suo essere.
E adesso, dover convivere con quel senso di perdita era quanto di peggio potesse succedergli.
Non era la prima volta che una storia finiva, forse non sarebbe stata nemmeno l'ultima, ma era senza ombra di dubbio la più dolorosa esperienza che avesse mai vissuto.

Tornò sul divano, controllando di nuovo la posta: niente, nessuna risposta.
 

Annie alzò gli occhi dalle pagine del libro che stava leggendo, quando la madre apì la porta della sua vecchia cameretta e fece capolino sulla soglia, con un sorriso sul volto paffuto e un vassoio tra le mani.
Una tazza fumante e un piattino di biscotti, realizzò in fretta mentre si metteva a sedere e ricambiava il sorriso.

- Cappuccino. - esordì la donna, una versione più rotonda e più bionda della manager, sedendosi sul borso del letto - E i tuoi biscotti preferiti. -
- Mamma, tu mi stai viziando! - rise la rossa, posando il libro accanto a sé - Tornerò a Londra con cinque chili di troppo! -
- Non starebbe affatto male, cara. - la donna arricciò il naso e aggrottò la fronte - Sei così magra che fai paura. E poi è così raro che tu venga a trovarci che l'evento va festeggiato! -
Annie prese un biscotto tra le dita e lo sgranocchiò distrattamente, incrociando le gambe sul piumone bianco.
- Sei riuscita a dormire, stanotte? -
- Mh. - mugolò la più giovane, scuotendo il capo - Mi sono addormentata alle quattro e svegliata alle sei. Un gran traguardo rispetto a ieri, però! - rise debolmente, ripensando alle notti insonni che l'avevano accompagnata da quando era fuggita dalla City per tornare a casa e fare il punto della situazione.
Punto che tutt'ora le sfuggiva, quasi quanto il sonno.

- Tesoro, sei sicura che vada tutto bene? - la madre si sporse verso di lei, sfiorandole il volto con una carezza - Sei così tesa che ha del miracolo che tu riesca a stare ferma a leggere un libro... Non ne vuoi proprio parlare? -
- Mamma, non è che non ne voglio parlare: non c'è niente da dire, tutto qui. Ho sbagliato, di nuovo, e mi sono lasciata trascinare in un questo bel casino. - inspirò a fondo, posando il biscotto mangiucchiato a metà in favore della tazza di cappuccino - Solo non so come uscirne. -
- Hai provato a parlargli? -
- Ma non esiste! - sbottò la rossa, quasi soffocandosi con il cappuccino - Non sono io a doverlo cercare, mamma, è lui che ha fatto tutto quanto! E adesso, invece di fare l'uomo e comportarsi come tale, si limita a mandarmi mail che non hanno nessun valore e... -
- Tesoro... Tesoro, lascia che ti dica una cosa. Avrà anche tutte le colpe del mondo, ma è pur sempre un essere umano. Ha le sue debolezze, le sue paure. Se non se la sente di affrontarti di persona è perché probabilmente ha paura della tua reazione. -
- Finirei col tirarlo sotto con la macchin. a- sibilò cupa Annie, rifiutando in cuor suo l'idea che non ne sarebbe mai stata capace.
Chinò il capo, affondando il naso nelle volute di vapore che lasciavano la tazza, insporandone a fondo l'aroma intenso, di caffé ammorbidito dal latte e dallo zucchero.
Così diverso dal sapore delle labbra di Orlando.
Lui, che il caffé lo beveva solamente nero, senza nemmeno un granello di zucchero che fosse uno.
Lui, che sorrideva quando lei si nascondeva dietro bordi di ceramica colorata come in quel momento.
Lui che se non beveva almeno una tazza di caffè al giorno dava di matto.
Come era possibile che una tazza di cappuccino le facesse quell'effetto, riportasse alla luce tutto ciò che per giorni si era rifiutata di anche solo prendere in considerazione. Persino al loro primo incontro, il caffé era stata l'unica cosa che li avesse effettivamente legati.
Molto più di quanto non si fossero sforzati loro due.

Deglutì, cercando di far scomparire quell'improvviso nodo alla gola che le impediva di parlare, e tornò a guardare la madre, che nel frattempo avevo ripreso a parlare senza nemmeno immaginare che la figlia non avesse sentito una sola parola di quel che aveva detto.
- Mi manca, mamma. - bisbigliò, interrompendola - Mi manca tanto, mi manca tutto e... - quasi annaspò, inciampando nelle sue stesse parole.
Si sentiva stupida, piccola e infantile.
- E non so cosa devo fare -

La donna le sorrise, comprensiva, allungandosi per darle un bacio sulla fronte.
- Cucciola mia, la risposta la sai già: è nel tuo cuore. Devi solo riuscire ad ascoltarla. - concluse semplicemente, alzandosi in piedi - Meglio che vada a preparare la cena, prima che tuo padre inizi a dare di matto. Se hai bisogno, io sono di sotto, d'accordo? -
Annie annuì, curvando le labbra in un debole sorriso prima di tornare a guardare la schiuma del suo cappuccino.
Le veniva da piangere, ma non voleva far preoccupare ulteriormente la madre: già quando era piombata in casa, un paio di giorni prima, senza aver prima avvisato, senza riuscire a spiaccicar parola, pallida come un fantasma, l'aveva quasi fatta morire di infarto.
Non se la sentiva di pesare ulteriormente sulla sua famiglia, era una cosa che riguardava lei e nessun altro.

Inspirò a fondo, senza sapere cosa fare di preciso.
Non si fidava troppo del suo autocontrollo al punto da azzardare una telefonata - anche se avrebbe ucciso per poter sentire di nuovo la sua voce -, ma non voleva neppure che le cose continuassero a ristagnare in quel modo: l'essersi rifiutata di sentire ragioni non aveva fatto altro che altimentare il suo orgoglio e la sua rabbia, impedendole di vedere quanto di buono c'era stato tra di loro.
Tutti hanno diritto ad una spiegazione, si disse tirando rumorosamente su con il naso, alla disperata ricerca di un fazzoletto.
E se dover ascoltare patetiche scuse era l'unico per poter sentire di nuovo la sua voce, si sarebbe adattata.

Si allungò verso il portatile, abbondato da qualche parte sul fondo del letto, e lo aprì, per la seconda volta nella stessa giornata, con un atteggiamento del tutto nuovo.
Aveva come l'impressione che tutta una serie di meccanismi, arrugginiti dalla sua stessa rabbia, avessero ricominciato a mettersi in funzione, sbloccandosi con scatti lenti e rumorosi: in uno stato quasi di trance aprì la posta elettronica, del tutto decisa a non lasciare che quel momento andasse perso. La sola idea di mettersi in contatto con lui la sconvolgeva molto più di quanto non avesse immaginato. Inspirò a fondo. Era vero che l'accettare qualcosa era un già un passo avanti per portarla a termine: il pensiero di scrivergli, indipendentemente da cosa gli avrebbe scritto, era confortante.

Ma prima ancora che potesse fare o scrivere qualsiasi cosa, il computer l'avvisò con un ping che aveva un nuovo messaggio.
Da parte di Orlando.
Dovette imporsi di respirare, mentre fissava quella mail ancora non letta, senza oggetto, che aspettava placida che lei prendesse una decisione.
L'avrebbe cestinata come le altre? O avrebbe trovato la calma per leggerla?
Quel messaggio la coglieva alla sprovvista, nonostante una parte di lei aveva pregato che lui non demordesse così preso.
La mano le tremava leggermente, quando cliccò sul mouse e aprì il messaggio, respirando affannosamente.

Dimenticami, se questo ti farà sentire meglio.
Odiami, se questo ti farà sentire meglio.
Fingi che io non esista, se questo ti farà sentire meglio.
Ma devi sapere e io devo dirtelo.
Ogni giorno apro gli occhi pregando che tu sia qui, vicino a me, e ogni giorno apro gli occhi e tu non ci sei: il dolore alle volte è così forte che non riesco a pensare, non riesco a respirare.
So di averti fatto del male, so di aver sbagliato.
So di essere uno stupido, so di non meritare il tuo perdono, di non meritare altro che il tuo disprezzo, ma da quando sei entrata nella mia vita non riesco a concepire l'idea che tu non ne faccia più parte.
Sei stata l'unica persona che mi sia rimasta accanto quando il mio mondo è crollato, l'unica che mi abbia mai concesso una possibilità e abbia creduto in me e mi rendo conto di non aver nessun diritto di chiedertelo, ma sa il cielo quanto vorrei che un miracolo del genere si ripetesse.
Poche cose hanno veramente senso, nella mia vita: per anni ho creduto di essere felice, di vivere la vita perfetta che migliaia di persone avrebbero voluto, ma la verità è che fingevo.
Fingevo che tutto andasse bene, che tra me e Kate ci fosse un legame, che fosse
normale fare tutto quello che facevo, che tutto mi fosse concesso e dovuto per motivi che nemmeno andavo a cercare.
Vivevo in una bolla di bugie, Annie.
Poi sei arrivata tu, un uragano che ha spazzato via ogni cosa lasciandomi davanti all'ineluttabilità dei fatti, alla mia solitudine, alla falsità di tutto ciò che mi circondava.
Tu, così piccola e così forte, una creatura così fragile da aver paura di sfiorarti.
Eppure mi hai mostrato, nonostante il tuo carico di dolore e paure, che la vita va avanti.
Che una volta chiuso un capitolo, se ne apre uno nuovo.
Mi hai preso per mano e portato via, facendomi conoscere una nuova felicità, un nuovo me che ama ciò che fa, che non conosce noia, che quando si sveglia al mattino ha un motivo per sorridere.
Non ci sono parole per descrivere tutto quello che hai fatto per me e il male che ti ho restituito.
Voglio però che tu sappia che non ho mai finto di essere qualcosa che non fossi, da quando mi hai aperto gli occhi.
Nell'esatto momento in cui le mie labbra si sono posate sulle tue la maschera che indossavo è andata in frantumi e, dopo secoli, ho di nuovo respirato aria fresca, che non fosse viziata dalla patina opaca che mi circondava a L.A.
Tu mi hai liberato, Annie Brown.
E io in cambio ti ho fatto rivere un incubo, qualcosa che mi avevi confidato credendo di poterti fidare di me.
Sono stato orribile, lo so.
Il tuo odio è più che giustificato.
Ma c'è una cosa su cui non sono mai stato in grado di mentire, nemmeno a me stesso, pur non avendo avuto l'occasione di dirtelo.
Io ti amo, Annie Brown.
E domani ti aspetterò, su quel tappeto rosso.
Ti aspetterò e se tu verrai allora terrò stretta la tua mano e non lascerò mai più andare.
Se non verrai... beh, me l'hai insegnato tu.
La vita continua, no?

   
 
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