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Autore: WillofD_04    03/04/2017    4 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Passarono due giorni e finalmente arrivò il momento di ripartire. Il capitano – che comunque non avevo ancora rivisto – aveva decretato che mi ero ristabilita abbastanza per poter lasciare quell’isola maledetta, la cui aria ormai mi sembrava tossica da respirare. La gamba non mi faceva più male e anche le ferite dell’anima stavano guarendo, anche se per quelle ci sarebbe voluto un po’ di più e sospettavo che non sarebbero guarite completamente. Avevo preso proprio una bella botta, sia fisicamente che psicologicamente.
Furono due giorni piuttosto piatti e noiosi, in cui il contatto con altri esseri umani fu praticamente inesistente a parte per le partite a Machiavelli con Marco – che vinsi inequivocabilmente tutte io – e le frecciatine provocatorie che ci lanciavamo a vicenda; e le sporadiche visite dei miei compagni medici, che a quanto pareva erano stati incaricati da Law in persona di provvedere a me. Non che avessi bisogno di qualcuno che mi reggesse il moccolo, ma un aiuto mi faceva pur sempre comodo. E poi, il lato positivo di tutta quella faccenda era che mi venivano serviti i pasti direttamente a letto. Certo, il cibo non era minimamente all’altezza di quello che cucinava Ryu, ma era sufficiente a non farmi morire di fame. E con tutto quello che era successo non ci tenevo proprio a spirare. Dovevo farmi forza, stringere i denti e andare avanti. Dovevo dare il buon esempio a Marco, così forse avrebbe seguito il mio cammino e avrebbe finalmente ripreso il mare, che era il posto a cui apparteneva davvero. Per il momento, però, mi sarei limitata a raccogliere le mie cose, mettermi lo zaino in spalla – zaino che avevano miracolosamente ritrovato i dottori – e prepararmi per ripartire. Mi dispiaceva lasciare il biondo, e soprattutto lasciarlo in quello stato, ma non potevo fare altrimenti. Non volevo passare nemmeno un’ora di più quell’isola pericolosa e malsana e se la Fenice era intelligente come pensavo e credevo, sarebbe salpata altrettanto al più presto e non si sarebbe voltata a guardare indietro. Dopotutto, a causa del mio capitano Lyborn non era più un’isola considerata altamente pericolosa e l’alone di mistero che la avvolgeva era appena svanito, assieme al virus. Ormai niente e nessuno impediva a chiunque volesse o a chiunque passasse da quelle parti di sbarcarvi. E poi, a quel punto fin troppe persone sapevano della sua presenza lì e sebbene né io, né il mio capitano avremmo mai parlato ad anima viva di lui, non sarebbe stato lo stesso sicuro e prudente rimanere in quel posto.
«Sei pronta ad andare? Dovremmo incamminarci verso la costa dove sono ormeggiate le scialuppe tra una ventina di minuti, ma prima dobbiamo raggiungere il capitano e gli altri all'accampamento dei malati» mi annunciò uno dei medici che aveva fatto capolino dall'ingresso della tenda, proprio nel momento in cui avevo finito di mettermi i pantaloni e di allacciarmi la cintura metallica.
Mi girai in direzione della voce ed annuii con convinzione. Poi afferrai lo zaino accanto a me e me lo misi in spalla. Mi alzai con cautela, evitando di appoggiare a terra la gamba ferita.
«Ce la fai a camminare?» chiese l’uomo a qualche metro da me, piegando la testa da un lato.
«Non sono pronta a correre la maratona, ma di sicuro posso arrivare fino alla costa dell’isola» risposi io con un sorriso.
Quello mi guardò confuso per un attimo – supponevo che non avesse idea di cosa fosse una maratona – per poi annuire ed uscire dalla tenda.
Non ero del tutto certa di poter riuscire a camminare, non tanto per il dolore, ma perché temevo che mi sarebbero saltati i punti. Avevo fatto un buon lavoro, ma dopo tutto quello che era successo la prudenza non era mai troppa. E poi, ero scampata al virus per pura fortuna la prima volta, per scampargli una seconda volta mi ci sarebbe voluto un miracolo divino qualora la ferita si fosse riaperta. Era vero, tutti i malati erano guariti e l'isola era diventato un luogo relativamente sicuro, ma l'insettaccio maledetto era ancora in circolazione e bisognava usare la massima cautela. Per fortuna però, non essendo disinfestatori, non spettava a noi Pirati Heart sbarazzarcene.
Sperai che tutto andasse meglio e poi presi un respiro profondo, inspirando dal naso ed espirando velocemente dalla bocca. Dopo aver spostato una ciocca di capelli ribelle dietro l’orecchio, mi preparai ad uscire. A breve avrei rivisto il mio capitano e non avevo nessuna idea di come avrebbe reagito. Potevo solo auspicarmi che fosse clemente e che non mi congelasse con lo sguardo. Oppure che non mi lasciasse lì in mezzo al nulla e che mi consentisse di proseguire il viaggio con lui. Non avrei sopportato l’idea che non volesse più farmi da insegnante. Ci tenevo molto a diventare chirurgo. Lui mi aveva avvicinato a quella branca della medicina e me l’aveva fatta amare, e il pensiero che proprio lui potesse infrangere per sempre quello che ormai era il mio sogno ed il mio obiettivo, mi faceva preoccupare molto. Ma decisi che avrei comunque dovuto affrontarlo, come dovevo affrontare il mio destino.
Mi diressi verso l’uscita della tenda. Mentre mossi il primo passo, la gamba destra cedette un po’ e si piegò. Mi portai delicatamente la mano a toccare le garze.
«Coraggio gamba, resisti ancora un po’» cercai di incoraggiarmi – da sola – mentre mi fissavo la coscia.
 
Uscii dalla tenda a denti stretti, cercando di sopportare il fastidio che mi davano i punti. Seguii l’uomo che era venuto a prendermi e lui mi guidò all’accampamento dove risiedevano i malati e dove attualmente si trovava anche il nostro capitano, che era a Nord-Ovest dell’isola. Ci impiegammo una decina di minuti ad arrivare – complice anche la mia gamba – e quando giungemmo lì, fui molto sorpresa nel vedere la scena che mi si presentò davanti. Era la prima volta che assistevo – dal vivo – ad uno scenario simile. Un gruppo di persone che fino a qualche giorno prima erano malate e in fin di vita, stavano ringraziando sentitamente i miei compagni, che facevano parte di una ciurma di pirati considerata spietata e senza scrupoli. Dovevo ammettere che era davvero bello avere la possibilità di osservare un tale spettacolo. In mezzo a loro, c’era Law. Il mio cuore perse un battito quando lo vidi, al punto che dovetti appoggiarmi con la schiena al tessuto che costituiva una parete di una delle tende. Il suo viso sembrava disteso, non sapevo se mi avesse vista o meno. Certo, non si poteva negare che fosse bello. Con quei suoi lineamenti delicati, i suoi tatuaggi estremamente sexy sulle dita, sulle mani e sul petto, il pizzetto sul mento, le basette ai lati del viso, nere come la pece, e gli orecchini tondi e dorati appesi ai lobi delle orecchie. Persino il suo strano cappello maculato calato sugli occhi era bello. La sua era una bellezza particolare, oscura. Sì, era una bellezza capace di oscurare il sole. Sorrisi impercettibilmente, tenendo lo sguardo fermo sul mio capitano. In quei giorni quasi mi era mancata la sua facciaccia. Sbuffai una risata per poi scuotere la testa, come a scacciare quegli assurdi pensieri. Non mi avrebbe perdonata. I suoi occhi mi avrebbero trafitto ed io non avrei potuto dire o fare niente per migliorare la situazione.
«Sei pronta?» uno dei medici mi si era avvicinato senza che me ne accorgessi. Lo fissai un po’ seccata per aver interrotto quel momento catartico ma anche catastrofico. Lo seguii senza dire niente, con la paura nelle vene. Quando finalmente ci ricongiungemmo con gli altri poco più avanti, il chirurgo mi guardò. Tutto il mio corpo si irrigidì. Fu uno sguardo fugace, quasi rubato. Durò un secondo. Forse anche un secondo di troppo. I suoi occhi seri e di ghiaccio incontrarono i miei, incerti e timorosi, e mi fissarono impassibili. Ci mise un attimo a squadrarmi da capo a fondo, con una punta di disprezzo nelle iridi. Aprii la bocca per cercare di dire qualcosa, ma finii per boccheggiare. Non sapevo che dire, e la prima cosa che mi aveva insegnato Law era che se si era nel dubbio, era meglio stare zitti. E così feci. Rimasi ad osservare mentre il capitano faceva un debole cenno con la testa ai suoi sottoposti prima di appoggiarsi la nodachi sulla clavicola ed incamminarsi verso la boscaglia. Questi si caricarono in spalla i bauli che gli avevano donato le persone che avevano curato e lo seguirono.
Setacciai tutta la zona con cura, ma dell’unica persona che avevo interesse di vedere oltre al mio capitano non c’era traccia. Sospirai. Che si fosse dimenticato di me? No, Marco non era il tipo che si dimenticava così facilmente. Che non sopportasse gli addii? Per quanto questa ipotesi potesse essere fondata, non ci credevo molto; altrimenti non mi avrebbe salutato nemmeno la prima volta, nel mio mondo. Che non volesse venire a salutarmi? Non lo sapevo.
Diedi un ultimo sguardo al gruppo dei malati e rivolsi loro un sorriso sincero, anche se un po’ malinconico. Ero davvero contenta che fossero guariti, mi dispiaceva solo di non aver contribuito in alcun modo alla loro guarigione. Quella poteva essere la mia occasione per imparare e per fare del bene ed io l’avevo sprecata in modo molto stupido. Quando notai che anche loro mi stavano sorridendo, sospirai e scossi la testa. Sarebbe stato meglio muoversi o sarei rimasta indietro e se fossi rimasta un’altra volta sola in mezzo alla foresta in compagnia di quell’adorabile animaletto e chissà che altro, sarei impazzita. Eppure, ero sicura di stare dimenticando qualcosa. Avevo il mio zaino, i miei stivali, i miei pantaloni e la mia cintura. Ma c’era qualcosa che mancava, come se su quell’isola stessi involontariamente lasciando un pezzo di me. Scossi nuovamente la testa cercando di scacciare quello strano pensiero e mi affrettai a raggiungere gli altri. E quando lo feci, nemmeno a farlo apposta, vidi Law che mi fissava con un'espressione imperscrutabile dipinta sul volto. Rimasi ferma a fissarlo di rimando come un’ebete per qualche minuto buono. Non sapevo davvero come comportarmi, né perché mi stesse guardando. Che voleva da me? Che cosa aveva in mente? Cosa dovevo aspettarmi? Mi ripresi dal mio stato mezzo catatonico solo quando lo vidi allungare il braccio nella mia direzione. Mi lasciai scappare un’esclamazione di sorpresa. Ecco che cosa mi stavo dimenticando ed ecco dov’era. In mano, il mio capitano stringeva la mia adorata Mr. Smee. Ce l'aveva lui. Ce l'aveva sempre avuta lui.
«Grazie» gli dissi sorridendo, sbrigandomi a recuperarla dalla sua mano e a rimetterla nel suo apposito porta-arma. Lui non mi degnò nemmeno di uno sguardo e si rimise in cammino. Lo guardai allontanarsi da me e mi abbandonai ad un sospiro. Per quanto ancora ce l’avrebbe avuta con me? Le cose si sarebbero sistemate? Quanto tempo ci sarebbe voluto?
Strinsi il ponte del naso tra pollice e indice e chiusi gli occhi, giusto per un paio di secondi, prima di riprendere a camminare. Adesso era importante solo riuscire ad arrivare vivi al Polar Tang.
 
In pochi minuti arrivammo a quello che riconobbi essere il ponte dove giorni prima era avvenuto il combattimento. Tutti camminavamo in religioso silenzio, quasi fosse una processione. Nessuno voleva o osava dire niente. Io fremevo, prima di lasciare quell’isola avrei avuto piacere di salutare Marco, ma ancora non si era fatto vedere ed ormai cominciavo a perdere le speranze. Non avevo chiesto niente su di lui ai miei compagni perché quella era una faccenda mia e mia soltanto. Buffo, l’ultima volta che avevo ragionato in questi termini ero quasi morta, ma così come era comparsa dal nulla e mi aveva salvato, la Fenice l’avrebbe potuto fare benissimo una seconda volta. Ero abbastanza fiduciosa che avrebbe avuto la decenza di venirmi a salutare.
Arrivai a metà del ponte di pietra con una leggera angoscia e un senso di insicurezza che si era propagato velocemente in tutto il mio corpo. Per terra si riuscivano ancora a vedere le chiazze rossastre di sangue. E viste in quel modo non sembravano tanto diverse dalle macchie che c’erano sul lenzuolo del biondo. Sospirai, cercando di non farmi sentire dagli altri. Quel sangue sulle pietre testimoniava quanto fosse reale l’esperienza orribile che avevo vissuto. Un rumore simile ad uno sfarfallio, ma più forte, alle mie spalle mi costrinse a girarmi. Il mio volto si illuminò quando lo vidi. Istintivamente mi portai le mani al petto, una sopra all’altra, come se dovessi contenere l’esplosione di gioia che stava avvenendo nel mio cuore. Marco, con un battito d’ali, si era posato sul parapetto del ponte ed ora mi fissava con la sua tipica aria arrogante, accovacciato sulle pietre della ringhiera. Mi lasciai scappare una piccola risata. Dietro di me, i miei compagni osservavano la scena con aria seria; le dita di alcuni sfioravano le else delle loro spade. Feci loro un cenno del capo, che indicava che era tutto a posto e che potevano tranquillamente proseguire, ma non si smossero fino a quando anche Law non annuì. A quel punto si rilassarono all’istante e dopo averci dedicato un’ultima occhiata se ne andarono, lasciandoci soli. Il pennuto aveva continuato a ghignare per tutto il tempo, come se non fosse minimamente preoccupato dell’aria minacciosa che avevano i pirati. Ero piuttosto sicura che se fosse avvenuto un combattimento li avrebbe schiacciati come formiche. E non avrebbe avuto alcun problema nemmeno a sconfiggere il mio capitano. Trattenni un potente sospiro. Stava sprecando il suo talento stando relegato lì. Se non l’avessi convinto con l’ultima carta che avevo da giocare, che era anche il mio asso nella manica, mi sarei messa il cuore in pace ed avrei accettato che il Marco che avevo conosciuto io se n’era andato per sempre.
«Alla fine sei venuto a salutarmi» affermai, cercando di evitare di sorridere come un’ebete.
«Avevi dei dubbi? La tua mancanza di fiducia mi ferisce nel profondo» mi rispose, fingendosi offeso.
«Chiudi il becco, pennuto. Lo sappiamo tutti che ti piace farti desiderare» gli dissi, facendolo ghignare.
«Hai intenzione di scendere?» gli chiesi poi, indicando il suolo con un dito. «Così ti posso salutare come si deve».
«Dipende cosa intendi per come si deve» fece lui, facendomi sbuffare, incrociare le braccia ed alzare gli occhi al cielo. Il ghigno sulla sua faccia si allargò ancora di più. Il mio sguardo, però, non ammetteva repliche e così alla fine si decise a scendere dal parapetto e posare i piedi a terra.
«Non deve essere per forza un addio» disse dopo essersi rimesso in posizione eretta, con l’aria di chi la sapeva lunga.
«Che vuoi dire?» domandai io, non capendo cosa intendesse.
«Puoi restare qui, se vuoi. Potrei, in via del tutto eccezionale, ospitarti nella mia tenda. Condivideremmo il letto e saresti relativamente al sicuro» mi propose, con espressione seria ma neanche troppo.
Mi morsi un labbro.
«Per quanto la tua proposta mi alletti, devo rifiutare. Non posso rimanere qui con te, mi dispiace molto» risposi, fissandolo dritto negli occhi «ho un sogno da inseguire, un’avventura da vivere, un obiettivo da raggiungere e anche un capitano da compiacere. Non posso arrendermi ora. E nemmeno tu dovresti farlo» gli comunicai con sguardo apprensivo e compassionevole, seppur con una punta di rimprovero.
Alle mie parole abbassò gli occhi, per poi rialzarli subito dopo e sorridere. Non persi tempo e lo abbracciai. Fu un abbraccio diverso dall’ultimo che ci eravamo scambiati. Fu meno intenso e più rapido, ma non per questo meno bello. Quello era un abbraccio tra due vecchi amici che si erano ritrovati e che ora si stavano per lasciare, ma in totale serenità e leggerezza. Senza alcun rancore o conto in sospeso, solo con un po’ di nostalgia per i tempi andati, in cui tutto era un po’ più semplice per entrambi. Fino a pochi anni prima io non avevo un capitano capriccioso e fin troppo puntiglioso da dover accontentare, mentre lui aveva ancora un capitano, che gli faceva anche da padre, e tutti i suoi compagni. Entrambi avevamo le nostre famiglie. Nel momento in cui ci eravamo incontrati per la prima volta le cose non erano perfette per nessuno dei due e forse non eravamo esattamente le persone più felici dell’intero universo – né del mio né del suo – ma eravamo stati bene insieme.
Mi staccai da lui un po’ controvoglia, poi incastonai i miei occhi ai suoi. Aveva lo sguardo sereno in quel momento. Gli appoggiai una mano sul collo, appena sotto l’orecchio e gli accarezzai la mandibola con il pollice. Non resistetti all’impulso e lo abbracciai di nuovo, stavolta con un po’ più di forza. Sentii la sua mano posarsi delicatamente tra le mie scapole.
«Grazie per avermi salvato la vita» gli sussurrai all’orecchio «ti voglio bene. Anche dopo tutte le cose cattive che mi hai detto» continuai in tono appena un po’ meno serio.
«Le ho dette per il tuo bene» si giustificò lui, con la stessa intonazione di voce che si usa con una bambina capricciosa.
«Lo so. Non roviniamo questo momento» dissi, a voce più alta stavolta.
«Va bene» rispose, sbuffando una risata.
Rimanemmo abbracciati per un po’ prima di staccarci definitivamente. E quando lo facemmo, infilai la mano nella tasca dei pantaloni e presi la lettera che avevo scritto due giorni prima. La tenni tra il medio e l’indice, come se fosse una carta da gioco in procinto di essere lanciata. Poi allungai la mano e gliela porsi, ghignando. Marco aveva un’espressione indecifrabile, ma anche lui stava sogghignando.
«Questa è per te. Leggila molto attentamente, parola per parola» gli intimai, allargando il mio ghigno ed alzando un sopracciglio «ma non farlo ora, aspetta che me ne sarò andata».
Prese il foglio ripiegato in quattro, lo osservò e se lo rigirò tra le mani. «La custodirò molto gelosamente. Se gli altri dovessero scoprire che ho ricevuto una lettera da una ragazza mi prenderebbero in giro per l’eternità e vorrebbero leggerla a tutti i costi» mi annunciò ridendo e facendo ridere anche me.
Avevo deciso che quello sarebbe stato il mio modo di salutarlo. Non gradivo molto gli addii strappalacrime con lunghe frasi di circostanza o peggio, con banalissime frasi fatte. Quindi quella lettera sarebbe stata il mio regalo di ringraziamento per lui. Per avermi salvato la vita e per avermi in un certo senso aperto gli occhi su quello che ero e sulla strada che avrei dovuto fare per raggiungere quello che volevo e dovevo diventare. E poi, non volevo che si sentisse escluso, avevo scritto una lettera a Rufy, Sanji, Zoro e Usop e non potevo non scriverne una anche per il più abile giocatore di scacchi della combriccola. Sorrisi al pensiero.
«Arrivederci Marco» lo salutai, con un po’ di melancolia. Non potevo rimanere a guardarlo a lungo, o mi sarebbe mancato troppo. Ed inoltre non potevo perdere il passo con il resto del gruppo, che sospettavo mi avesse distaccato già di parecchio; anche se per lui valeva la pena di rischiare di dover vagare da sola per la foresta.
«Arrivederci, pulcino» replicò lui, quasi con scherno. Gli davo le spalle e non potevo vederlo, ma ero sicura che stesse sghignazzando.
Mi voltai completamente a guardarlo, incrociando le braccia e scuotendo la testa. In un altro momento lo avrei insultato e non avrei perso l’occasione di chiamarlo pennuto, ma non volevo rovinare l’atmosfera che si era creata. E soprattutto, non sapendo se mai l’avrei rivisto – per quanto potessi essere fiduciosa – non volevo che le mie ultime parole per lui fossero insulti o denigrazioni verso la sua persona. Quindi mi limitai ad osservare la sua chioma bionda a forma d’ananas e il suo volto sorridente. Decisi che era così che volevo ricordarmelo e fu così che me lo impressi nella mente. Perché l’espressione che aveva in quel momento, era la stessa, identica espressione che aveva il giorno in cui ci eravamo salutati per la prima volta. Questo era il vero Marco. Era così che lo avevo conosciuto, era così che gli avevo detto addio, era così che lo avevo ritrovato ed ora sarebbe stato così che lo avrei lasciato per la seconda volta.
Mi rigirai e non guardai più indietro. Mi incamminai per il sentiero che mi avrebbe portato alla costa e per tutto il tragitto mi accompagnò un senso di malinconia. Ma, per fortuna, mi ricordai delle parole che avevo scritto al pennuto e mi venne da sorridere.
 
 “Caro Marco,
ti scrivo perché ci sono un paio di cose che mi piacerebbe dirti e questo è l’unico modo per farlo senza che tu cerchi di cambiare argomento in modo discreto o ti inventi una scusa per andartene nel bel mezzo della conversazione. Starà a te decidere se leggere o meno la lettera. Io ti consiglio di farlo. E non perché ho passato due ore al buio china sul letto nel tentativo di scriverla, ma perché...non lo so. Tu leggila e basta. Le parole che ci sono su questo foglio vengono dal mio cuore, quindi prendi questa lettera come il mio regalo di ringraziamento per te, per avermi salvato la vita e non solo.
Mi dispiace tanto di non esserci stata per te, come tu hai fatto per me. Avrei dovuto capire il tuo dolore e avrei voluto starti vicino, ma non ho potuto. D'altronde, non ho saputo nemmeno salvare me stessa, figurati se avrei potuto salvare te. Però, sai, io ci sto provando. Sto provando ad essere felice. Sto provando anche a restare viva, anche se non sono molto brava in quello. Ma del resto, non si può essere bravi in tutto, no? E poi, finché ci sarai tu a salvarmi all’ultimo momento posso anche permettermelo. Ad ogni modo, ti sto dicendo questo perché devi farlo anche tu. Devi ritrovare te stesso, in modo da poter ripartire da zero ed essere finalmente di nuovo felice. Ci vorrà un po’, è un processo lungo e non senza ostacoli, me ne rendo conto, ma niente è impossibile se lo si vuole davvero. Si può ricominciare dopo aver perso tutto. Si può. Basta solo non arrendersi. Tu l’hai fatto. Ti sei arreso. E va bene così. Ma devi rialzarti, Marco. Devi farlo per te stesso, perché te lo devi. Non puoi lasciare che la vita ti scivoli via così dalle mani.
Comunque, non ti ho scritto per farti la predica. Voglio solo chiederti una cosa. Che cosa ti è successo?
Non ho idea di cosa sia accaduto nell’anno e qualche mese in cui siamo rimasti separati. Potrei mentirti dicendo che non lo voglio sapere, ma in realtà muoio davvero dalla curiosità di conoscere gli eventi che hanno portato un uomo forte, tenace e brillante come te a diventare...così. Non credo che ci sia nemmeno bisogno di specificare come, perché sono sicura che tu lo sappia benissimo da solo.
Ti chiederai come farai a rispondermi dal momento che quando leggerai queste righe io non sarò più lì con te. Prenditi tutto il tempo che ti serve per pensare ad una risposta. Me la comunicherai quando ci rivedremo. Perché, mio caro, ci rivedremo presto. E non sarà su Lyborn (col cavolo che ci rimetto piede dopo tutto quello che è successo) ma sarà su un campo di battaglia. E stai attento, perché questa volta potrei essere io a salvare te. Ti ho detto che diventerò una temuta Regina, e una Regina protegge sempre il Re. Sì, hai capito bene. Ti considero un Re. Quindi alza le chiappe dal tuo letto e vai a riprenderti la corona che ti spetta. Fai vedere a questi piratucoli da quattro soldi chi comanda.
Comunque, se sopravviviamo poi ce andiamo in una taverna a bere qualcosa, come mi hai promesso. Sei un uomo di parola, per cui non te lo scordare e non provare a fregarmi, perché queste cose me le ricordo (soprattutto se c’è di mezzo il vino).
Nei tuoi occhi c’è ancora una piccola scintilla. Quella è la scintilla della vita, è la scintilla del pirata. Non riesci a sentire il mare che ti chiama? È quello il tuo posto, Marco. Non prendere in giro te stesso, lo sai meglio di me. E non fare come me. Non avere paura di vivere. Te lo ripeto. Non arrenderti, non lasciare che la vita ti scivoli via dalle mani. So di non essere nessuno per dirti queste cose, ma una volta tanto ascoltami e dammi retta. E se proprio non vuoi ascoltare me, ascolta il tuo cuore e fai quello che ti dice di fare. Non puoi sbagliare se lo segui. Di cosa hai paura? Di poter essere di nuovo felice?
Pensa ad una risposta anche per questa domanda. Io nel frattempo ti aspetto in mare. Ci rivedremo presto tra le onde dell’oceano del Nuovo Mondo. E quando lo faremo, saremo entrambi di nuovo felici e spensierati.
Stai attento, però. Molte persone ti cercano e vogliono la tua testa, primo fra tutti un certo Edward Weeble. Ma questo non significa che devi per forza scappare e nasconderti da loro. Tu sei Marco la Fenice, il Comandante della Prima Flotta di Barbabianca! Puoi negarlo quanto ti pare, ma nel profondo sai di non aver mai smesso di esserlo, lo sei sempre stato. Non puoi cancellare il passato, né rinnegarlo. Quell’appellativo sarà sempre con te. E non puoi odiarlo, perché ti ha reso ciò che sei. E voglio che il mondo tremi ancora nel sentire il tuo nome. Quindi smettila di fare il cretino e smettila di fare il pennuto a cui hanno tarpato le ali. Sei una maledettissima fenice, comportati da tale e spicca il volo! Ovviamente ti dico queste cose perché ti voglio bene, proprio come hai fatto tu l’altra notte. Sappi che non ce l’ho con te per quello che mi hai detto, so che è la verità e mi impegnerò per diventare più forte. Ma non posso farlo se non lo fai con me. È una battaglia che dobbiamo combattere insieme. Io sarò al tuo fianco, se vorrai. Ti basterà pensarmi. Io lo farò. Ti penserò e controllerò il giornale ogni giorno per vedere se ci sono notizie del tuo esplosivo ritorno alla pirateria. Visto che è di te che stiamo parlando, non mi stupirei se facessi un rientro in grande stile. E dal momento che sono io che te lo sto “chiedendo”, spero che tu non voglia deludere le mie aspettative.
Possiamo vincere questa lotta, dobbiamo solo continuare a darci da fare e non perderci mai d’animo.
Ad ogni modo, a furia di scrivere in questa posizione scomoda mi è venuto il mal di schiena, quindi è meglio se concludo qui questa lettera.
Ti voglio bene, ci rivediamo presto. E non ti dimenticare che non sei solo.
Il mondo ha bisogno di te. Io ho bisogno di te. Non ti arrendere.
Vivi, Marco la Fenice.
                                                                                              Con affetto,
                                                                                                       Camilla.”
 
 
   
 
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