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Autore: SinnerCerberus    07/06/2009    0 recensioni
Una storia difficile da etichettare. E' ambientato nel futuro, ma presenta tematiche abbastanza attuali e sicuramente fantasy. Boh, voi leggete e commentate per favore.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La casa dove mi ero svegliato non aveva serrature. Potevo entrare ed uscire tranquillamente.
Ladri e malintenzionati non avrebbero trovato nulla di interessante, quindi non me ne feci un problema.
Come immaginavo, quando tornai non c'era nessuno. Decisi di poter chiamare casa quel luogo. Non avevo fame, di conseguenza non mi preoccupai di cercare viveri.
Che diamine potevo fare? Avrei voluto un attimo per riflettere, curiosare ed indagare, ma mi mancavano le energie. Ero totalmente demotivato e pieno di pensieri.
Lasciai perdere tutto e mi stesi su quel letto di ferro, in quella stanza piena di cavi. Era adattato alla mia forma in un modo così perfetto che non sentivo fastidio.
Mi addormentai immediatamente, mandando al diavolo tutta la logica ed il buonsenso.
Il giorno dopo tornai a scuola, nonostante la lezione fosse l'unica cosa che non mi interessava. Guardavo quella ragazza, la biondina, mentre il professore parlava.
A proposito, anche oggi c'era solo lui, ed ogni tanto se ne andava per fatti suoi. Non mi persi nella contemplazione del sedere della ragazza, come l'ultima volta, bens“ osservai i suoi lineamenti, il suo volto, il suo sorriso. Sebbene, credo, non fosse nulla di speciale, non riuscivo a smettere di guardarla.
Era una calamita, di quelle potenti, ed io non ero altro che un insulso pezzo di metallo, in balia del suo potere. Non potevo far altro che esserne attratto.
Era come se il mio sguardo fosse stato solo un piccolo chiodo fissato a lei, ogni suo movimento una vampa di calore; non m'importava di esser notato.
A fine lezione perse tempo nel raccogliere alcuni quaderni. Come volevo salutarla, aiutarla, non lo so, volevo rendermi utile. Purtroppo, il tempo bastardo, e lei se ne and˜ senza che potessi fare nulla. Il ragazzo con la frangia attese pazientemente che finissi di sbavare sulla bionda, dopodichŽ part“ col chiedermi
-Vuoi venire a casa mia?-
Accettai, e uscimmo da scuola insieme.
Parlammo delle cose che avevamo in comune. Anche lui si era svegliato in un posto singolare; una stanza al quinto appartamento del quinto piano di un palazzo, il quinto della quinta via. Non ricordava nulla di nulla, come me. Solo che io non avevo la casa in un posto così figo. Camminavamo sul marciapiede mentre macchine e motorini creavano il traffico.
-Non credi che dovremmo avere un nome? Insomma, come possiamo chiamarci? - Mi chiese.
Non lo so.- Risposti, in tutta sinceritˆ
-Abbiamo perso tutto della nostra identitˆ, se ci inventiamo anche dei nomi, perderemo ogni possibilitˆ di riscoprire qualcosa. Non vorrei riempirmi d'informazioni.-
-Vuoi dire che non t'importa di avere un nome?-
-Preferisco rimandare.-
Cadde il silenzio. Il ragazzo sembrava immerso nei suoi pensieri, ed anche un pò deluso. Continuammo a camminare, in silenzio. La cittˆ, per quanto colorata fosse, mi risultava fin troppo grigia.
Finalmente arrivammo, dopo venti minuti di silenzio.
Il portiere salut˜ con aria insolitamente vivace, mentre chiaccherava con qualche vicina. L'ascensore un po' sporco e malconcio ronzava in modo inquietante,
e si potevano sentire I cani dei vicini abbaiare ad ogni minimo rumore. Ci˜ che vidi a casa sua non mi piacque per niente. Non perchŽ fosse brutta, o strana.
Se quel palazzo sembrava malconcio, quella casa era una discarica. Sembrava la classica casa abbandonata, piena di stracci, polvere, calcinacci e cos“ via. Eppure mi sembrava così dannatamente familiare.
Interessante.
Attraversai la casa a grandi passi. Il corridoio decrepito, le stanze rovinate, l'odore deprimente di una casa in malora, con la carta da parati bagnata e puzzolente,
la muffa stantia facevano parte del particolare arredamento. La delusione mi avvolgeva; stavo guardando qualcosa a cui ero affezionato, sicuramente. Ma la stavo guardando decine di anni dopo,
non c'era nessun'altra spiegazione.
Ci sedemmo su una poltrona rotta e parlammo del pi e del meno per un po' di tempo. Molte stanze avevano mobili, ma erano ricoperte da teli bianchi, e non riuscivamo a rimuoverli.
Sembrava dovesse restare vecchia ed abbandonata. Se ci si faceva attenzione, si poteva sentire un flebile suono di carrillion da una stanza situata al centro del corridoio.
Tuttavia la porta non voleva saperne di aprirsi, e la melodia, inafferrabile, sfuggiva ai sensi appena stavi per catturarla.
Mi trattenni fino a tarda notte, ed alla fine decidemmo che sarebbe stato meglio se fossi rimasto l“ a dormire, ma non fu una notte piacevole. Non riuscivo ad addormentarmi, prima di tutto.
Neanche una goccia di sonno scorreva sui miei occhi, e per quanto potesse essere comodo un divano pieno di buchi, non mi sentivo a mio agio.
Passai la notte sveglio, a cercare di comprendere la melodia che aleggiava nella casa. Non era un carillion, questo era sicuro. Era una musica indistinta, che cambiava e si trasformava dolcemente, e quasi non ci facevi caso.
Restammo a casa anche il giorno dopo, e chiaccherammo tutto il tempo. Al diavolo la scuola. L'unica mia preoccupazione era non poter pi vedere la ragazza bionda,
ma di questo non mi preocucpai. Non poteva mica sparire.
In ogni caso notai che il ragazzo con la frangia aveva fame, ed and˜ a procurarsi del cibo. Tutto ci˜ non mi toccava: non avevo fame. Non l'avevo da quando mi ero ricordato di esistere.
Misi da parte questo particolare preoccupante, e tornai alla contemplazione delle mattonelle del pavimento. Non mangiare non era un problema, se mi fossi ricordato di qualcosa del mio vero io, avrei detto che non mi piaceva mangiare. Che pacchia, allora.
La seconda giornata pass˜ senza risvolti interessanti, e tornai casa verso il pomeriggio. Passando per il corridoio vuoto, nella casa vuota, con le stanze vuote, entrai nell'unica camera con qualcosa dentro.
Feci un rapido collegamento con la poltrona e mi stesi.
I miei muscoli si rilassarono, la mia mente si dilatò in qualche modo, perchè fu questa la sensazione che ebbi prima di addormentarmi.

Mi svegliai nove ore dopo, ne ero certo sebbene non avessi un orologio. Era piuttosto presto, contando il fatto che mi ero appisolato appena tornato a casa, ieri, di pomeriggio.
Sei e due minuti, trentatre secondi.. trentaquattro.. trentacinque..
Intuivo l'orario in modo spaventosamente preciso, come se avessi un orologio preciso da qualche parte, dentro di me. Interessante.
Sorpreso di questo particolare, decisi di fare un resoconto veloce.
Mi sono svegliato in una stanza vuota, in un letto duro, e solo qui posso dormire. Non ho mai fame. Quando cerco di ricordarmi qualcosa di importante,
automaticamente metto da parte particolari preoccupanti. Nessuno si ricorda di me. Non ho mai fame. Non ho mai fame.. dormo nel mio letto, e mi sento bene.
E non ho mai fame.
Guardai il letto. Pieno di cavi, collegati ad un computer, si concentravano specialmente sull'estremità, dove io poggiavo la testa.
Funzionavano come dei cuscini, ma poteva essere altro.
Mi avvicinai e misi a fuoco; attrezzi metallici fuoriuscivano in modo ordinato. Erano punte metalliche, come quelle delle prese per telefoni- ed ignoravo come al solito il fatto che non avendo visto un cellulare da quando avevo coscienza, sapevo perfettamente come funzionava.
Un dubbio mi assal“.
Un dubbio idiota, che solitamente a nessuno verrebbe in mente.
Tastai la mia nuca, in cerca di qualcosa oltre i capelli lunghi. E la trovai.
Ad essere corretti, li trovai. Una serie di forellini, proprio dietro la mia testa.
Che diamine erano?
Ero umano? La consapevolezza era diversa, e per quanto potesse essere preoccupante, la mia mente non mi distraeva.
Dovevo saperlo.
Ma come facevo a capire che diamine erano?
Infilai le unghie nella carne del braccio e tirai. Strinsi pi forte, tirai pi ferocemente.
Le mie unghie non si spezzavano, ignoravo il dolore e tiravo, stringevo e mi ferivo.
FinchŽ finalmente non strappai della carne, per vedere il sangue che avevo dentro.
Il sangue che indicava che ero umano, che ero un essere vivente, che ero una creatura di Dio.
Il sangue che non c'era.
Mentre il mio braccio si ricomponeva a vista d'occhio, coprendo I fili metallici dentro di me, tristemente capii.
Non ero umano.
  
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