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Autore: giambo    22/04/2017    7 recensioni
Crescere è una sfida difficile. Lo sa Naruto, lo sa Hinata così come lo sanno tutti i loro compagni ed amici di Konoha. Eppure, in un mondo che sta vivendo una pace con ancora troppi lati oscuri, essi dovranno imparare a diventare adulti, ad affrontare i propri demoni, le proprie paure, ed anche i propri fallimenti. Con la consapevolezza che una coppia non si costruisce in una notte di passione sfrenata, ma giorno dopo giorno, affrontando le sfide della vita, consci delle proprie forze e delle proprie debolezze.
Raccolta di One-Shot incentrata sulla coppia Naruto/Hinata, ma con ampi spazi dedicati alle altre coppie canoniche del manga, con in più qualche sorpresa.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Boruto Uzumaki, Himawari Uzumaki, Hinata Hyuuga, Kurama, Naruto Uzumaki | Coppie: Hinata/Naruto, Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
Capitoli:
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Angolo dell'Autore:

 

ATTENZIONE! Leggere attentamente le prossime righe prima di cimentarsi nella lettura del capitolo, grazie!

Dunque, con questo capitolo ha ufficialmente termine la prima parte di questa raccolta. Cosa cambierà con l'inizio della seconda parte? Beh, diciamo che gli argomenti trattati saranno differenti. In questi 21 capitoli ho tentato, pur romanzando ampiamente qua e là, di descrivere i principali momenti di una coppia agli inizi: la prima volta, la dichiarazione di matrimonio, le paure di non essere buoni genitori, la fiducia reciproca, ecc... Nella seconda parte, oltre a prendere in considerazione anche altri personaggi che finora sono rimasti in disparte, parlerò di temi che vanno a toccare coppie ormai fatte e finite, che hanno relazioni che vanno avanti da molti anni.

Perché sto dicendo tutto questo? Beh... non sapevo che soggetto usare per concludere questa prima parte. Alla fine, dopo molti tentennamenti, ho scelto di dare spazio a l'unica coppia che finora ho ignorato: Kiba e Tamaki (Sì, lo so. Esistono anche Choji con Karui, che sono adorabili, ma prometto che anche loro avranno i loro spazi in futuro).

Ora, è bene che sappiate però una cosa: io odio Kiba Inuzuka, anche se forse dovrei specificare meglio. Odio come Kishimoto ha sviluppato il personaggio di Kiba.

Sinceramente, all'inizio aveva un casino di potenzialità: era il rivale del protagonista, di Naruto! Si poteva sviluppare una sotto trama interessantissima, con Kiba che matura e decide di mettersi in gioco perché riconosce la forza crescente di Naruto. Sarebbe stata una cosa stra figa vedere una duplice rivalità nel protagonista, diviso tra quella con Sasuke e quella con Kiba, senza contare che un ninja che usa gli animali per combattere era un personaggio perfetto per ideare tecniche di lotta assurde e interessanti. Invece Kishimoto ha reso Kiba una specie di pupazzo, un bamboccio che dice stupidaggini senza che nessuno gli dia retta. Sinceramente, ho odiato vedere un simile potenziale ridotto a una macchietta, anche se bisogna dire che non è stato l'unico personaggio con potenziale ad essere buttato nel dimenticatoio (Shino, Neji, ecc...).

Ma vogliamo parlare di come viene narrata la sua 'love story' con Tamaki? Tralasciando che metterlo assieme ad un personaggio comparso per dieci minuti circa trecento numeri prima suona molto ridicolo, e sorvoliamo anche sul fatto che nel manga praticamente non ci viene detto una beata ceppa su di loro (Come si sono incontrati? Come hanno copulato? Perché l'hanno fatto? Kishimoto dacci delle risposte!), onestamente speravo che almeno nell'anime avrebbero reso loro giustizia. Invece usano un espediente, oltre che ridicolo, che usava la Disney per i suoi film sessant'anni fa! (sessant'anni... SESSANTA ANNI!), roba che non volevo crederci da quanto era orrendo.

Quindi... eccoci tornati a questo capitolo. Vedrete un Kiba fedele al manga? Beh... forse. Diciamo che ho preso il Kiba dell'inizio e ci ho lavorato su, regalandogli anche un passato ed un rapporto con la propria famiglia. Naruto e Hinata sono citati solo indirettamente questa volta, e se state per chiedervi 'Ma non dovrebbero essere i protagonisti assoluti di questa raccolta?' vi consiglio di andarvi a rileggere le note riassuntive, dove spiego bene che è mia intenzione dare un giusto spazio a tutte le coppie, anche quelle trattate a pesci in faccia.

Bene, questo è tutto! Scusatemi per queste note chilometriche, ma ho preferito spiegare tutto qui, invece di creare confusione a voi lettori. Come sempre ringrazio chiunque legga o segue questa raccolta e ricordo che qualsiasi recensione (positiva o critica) è ben accetta.

E ora non mi resta che augurarvi buona lettura!

Un saluto!

Giambo

 

 

The Biggest Challenge

15pjpko

 

Empatia

 

 

Hinata, vuoi sposarmi?”

Tre parole. Tre semplici parole capaci però di aprire una voragine dentro di lui.

Vide Hinata spalancare gli occhi, quei magnifici occhi chiari che aveva imparato ad amare tempo addietro. Osservò le labbra carnose socchiudersi per la sorpresa, il naso tremare impercettibilmente. Ogni reazione di lei non gli era sconosciuta, o ignota, perché la conosceva come forse nessun altro al mondo. Non la sua famiglia, non i suoi amici e neanche quel ragazzo biondo dal sorriso caldo ed allegro che aspettava trepidante una risposta in ginocchio. Nessuno poteva conoscerla come lui, che aveva condiviso ogni singolo momento degli ultimi dodici anni al suo fianco.

E forse fu proprio questo che gli fece male. Sapeva la risposta, ma ciò non bastò a lederne il dolore.

Sì, Naruto-kun.” mormorò Hinata, sorridendo con dolcezza. “Sarei felice di diventare tua moglie.”

Gli applausi riempirono il salone di villa Hyuga, riempito a festa per il compleanno della kunoichi, ma lui non fece nulla. Rimase fermo, immobile, a fissare Naruto alzarsi di scatto e baciarla. Si rese conto che sembravano veramente felici. Una felicità semplice, spontanea, carica dell'entusiasmo di chi arde della passione e scopre di essere ricambiato. Un destino che non lo riguardava, non più.

E fu lì, osservando i due promessi sposi risplendere di gioia, attorniati da altre coppie, composte dai loro amici di una vita, che Kiba venne colpito da un pensiero tremendo, pari ad una secchiata di acqua gelata.

Avrei dovuto essere io.”

 

 

Aprì lentamente gli occhi, il soffitto della vecchia camera che lo accolse in tutta la sua familiarità. Sentì affianco al letto il corpo caldo di Akamaru contrarsi, entusiasta della nuova giornata. Un sentimento che non riusciva proprio a condividere, non dopo quello che aveva sognato.

Hinata...

Si passò una mano tra i capelli, arruffandoli ulteriormente, alzandosi di scatto, desideroso solo di una doccia fredda, in modo da non dover più pensare alla sua vecchia compagna. Rimase sotto il getto gelato per oltre dieci minuti, infischiandosene che fossero solo i primi di febbraio. Nonostante fosse passato più di un anno da quell'evento, a volte gli era davvero difficile non pensarci.

Perché?

Quando entrò in cucina, sua madre non lo degnò di un'occhiata, limitandosi a emettere un grugnito a mo' di saluto. Kiba non ci fece caso, mangiando un paio di bocconi giusto per evitare discussioni: ogni volta che faceva quel sogno gli si chiudeva lo stomaco per ore.

“Io esco.” dichiarò una volta mangiato ciò che gli parve una razione sufficiente per blandire la genitrice. “Vado a fare due passi.”

“Ti sei accorto che fuori diluvia, non è vero?” esordì Tsume, squadrandolo con un'occhiata dura.

“Sì.” fu la laconica risposta dello shinobi. “Ma ho comunque voglia di uscire.”

La kunoichi si limitò a sbuffare, scuotendo la testa.

“Cerca di non conciarti come un randagio. Stanotte c'è la riunione del clan.” Kiba si bloccò di colpo, come se qualcuno l'avesse colpito ai reni con un pugno. “Sai bene quanto sia importante per tua sorella.”

Strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, gli occhi rivolti innanzi a sé, quasi vitrei, come se temesse di mostrare ciò che gli ribolliva nell'animo.

“Lo so.”

Uscì di casa quasi di scatto, sollevato nonostante la violenta pioggia che batteva incessantemente. Akamaru provò a seguirlo, ma con un gesto rapido lo shinobi lo rispedì a casa: non voleva che nessuno lo guardasse in faccia in quel momento, neanche il suo migliore amico.

Hana...

Non aveva mai avuto un rapporto fraterno con sua sorella, considerando che aveva sei anni più di lui. Anche se aveva ricordi di lei che lo accudiva da piccolo, con il passare degli anni Hana aveva assunto sempre più le sembianze di una figura fredda, distante ed irraggiungibile. Grande kunoichi, impareggiabile veterinaria, a capo di una squadra di tre cani lupo, i fratelli Haimaru, sua sorella era sempre stata un paragone scomodo, un traguardo che non avrebbe mai potuto raggiungere o superare.

A volte vorrei che non fossimo mai cresciuti.

Proseguì a gironzolare per le strade semi deserte del villaggio, noncurante della pioggia gelida che scendeva furiosamente. Lo capì dopo un po' dove i suoi piedi lo stessero guidando. Era un percorso che sempre più spesso faceva di nascosto, temendo di farsi scoprire a rimirare il suo più grande rimpianto, forse l'unica cosa che gli bruciava maggiormente della superiorità di sua sorella.

I piedi affondarono in una pozzanghera ghiacciata quando infine fu arrivato a destinazione. Rivolse i suoi occhi scuri in direzione della casa innanzi a lui. Era un'abitazione a due piani, in muratura bianca, con un giardino curatissimo. Una villetta come tante altre, ma che custodiva qualcosa capace di corrodergli il cuore, pari ad un veleno mortale.

Hinata...

Dove erano finiti gli anni che avevano passato assieme? Tutti i giorni trascorsi all'aria aperta, ad allenarsi, fare scherzi a Shino, oppure semplicemente a passeggiare per i boschi ed i campi attorno a Konoha?

Erano trascorsi rapidi, come la pioggia che cadeva dal cielo, simile al pianto del suo cuore. Un cuore che per orgoglio non aveva mai avuto il coraggio di aprirle, limitandosi a sperare nell'impossibile. Che Hinata smettesse di rincorrere l'ombra di Naruto, accorgendosi della sua presenza. Del fatto che lui era sempre stato al suo fianco, fin dall'inizio, proteggendola da ogni pericolo, ogni pregiudizio, ogni minaccia. Pronto a rischiare la vita per quella ragazza timida e dolce, capace di entrargli nel cuore poco alla volta, in maniera impercettibile, facendogli comprendere solo quando era troppo tardi ciò che aveva iniziato a provare per lei.

Osservò, da sotto la patina bagnata dei capelli, Hinata augurare buona giornata al marito con un bacio all'ingresso della villetta. Ci vide tutto l'affetto che la compagna provava per l'Uzumaki, un amore che non le aveva mai visto per nessun altro, neanche per lui.

Perché, Hinata? Si allontanò, proseguendo il proprio vagabondare in mezzo alle pozze d'acqua formate dalla pioggia. Perché è finita così?

Una domanda che sempre più spesso si faceva. Aveva visto con i propri occhi Naruto e Hinata mettersi assieme, sposarsi, avere un figlio, crearsi una famiglia e non le aveva mai tolto il suo supporto. Aveva sempre recitato la parte che la Hyuga si aspettava da lui, per timore di ferirla, di rovinare la loro vicinanza, per evitare di dover aprire il proprio cuore.

Il mio cuore... strinse la stoffa della felpa davanti al petto, chiedendosi perché non si fosse mai fatto avanti. Per quale fottuto motivo aveva permesso che Naruto prendesse per sé Hinata senza lottare, senza tentare di combattere per ciò che amava. Si sforzò a lungo nel tentativo di trovare una risposta, qualcosa che però sapeva già di conoscere: il suo orgoglio, il terrore di essere veramente sé stesso con qualcuno che non fosse Akamaru. Dietro la sua risata spaccona si nascondevano quintali di insicurezze nate dal vivere con una sorella maggiore ed una madre fin troppo brillanti, audaci e coraggiose. L'ennesimo motivo per detestarle senza provare alcun rimorso per questo.

Proseguì a vagabondare per tutta la mattina. Verso il primo pomeriggio la pioggia perse d'intensità, fino a fermarsi del tutto, con ampi tratti di cielo che si schiarirono, dando vita ad una tavolozza di colori che spaziava dal viola al grigio. Fu dal grosso ramo di un pino che Kiba osservò il movimento delle nuvole nel pomeriggio, lasciando la mente libera di spaziare, senza soffermarsi troppo. Di pensieri cupi ne aveva fatti abbastanza nell'ultimo periodo.

Fu verso sera, quando riprese a piovere forte, che incontrò una delle fonti di tali pensieri.

“Non dovresti andare in giro sotto questo diluvio.”

Kiba si bloccò di colpo, deglutendo a vuoto. Nonostante avesse gli abiti inzuppati e i piedi gelati, sentì un profondo calore cominciare a ribollire all'altezza dello stomaco. Un calore acido, rancoroso e per niente gradevole.

“Vedo che farmi la ramanzina ti piace ancora.” mormorò, sfoderando un sorriso posticcio sul viso quando vide comparire, da una via laterale, Hana con i suoi tre cani-ninja al seguito.

“Mamma mi ha chiamato.” rispose l'Inuzuka maggiore, osservando il fratello da sotto un grosso ombrello rosso con espressione impassibile. “Dice che ultimamente non fai altro che andare in giro dalla mattina alla sera.”

“Cosa ci sarebbe di così strano? Lo faccio da sempre.”

“Vuoi davvero che ti risponda?”

Arrivò un silenzio profondo, rotto soltanto dalla pioggia che cadeva sempre più fitta. Kiba si tolse i capelli bagnati dalla fronte con un gesto stizzito, iniziando a riconoscere il calore che provava dentro di sé per quello che era veramente: rabbia.

“Quando la smetterai di trattarmi come un moccioso?” borbottò infine con tono accalorato. “Non sono più un bamboccio a cui stare dietro, Hana!”

“Sei ancora un bamboccio, fratellino.” replicò con voce piatta la kunoichi. “E il fatto che tu abbia ventiquattro anni rende il tutto molto imbarazzante e sgradevole.”

“Mi stai provocando?” con due rapide falcate, lo shinobi arrivò a sfiorare il viso della sorella, le iridi scure che ribollivano di acido rancore.

“Ti sto solo dicendo la verità.” a differenza del fratello, Hana non sembrava minimamente turbata da quella conversazione. “Il solo fatto che tu ora sia qui a bighellonare sotto la pioggia lo testimonia. Cos'è, essere felice per un mio successo ti è davvero così difficile, fratellino?”

“Un successo?!” Kiba buttò la testa all'indietro, scoppiando in una fredda risata. “Il problema non è oggi, come non lo era quando sei diventata Jonin a sedici anni, Hana!” strinse le mani con forza, conficcandosi le unghie nella carne, desideroso soltanto di sfogare il qualche modo la sua frustrazione. “Fin da quando sono nato mamma ha deciso che tu dovevi essere la migliore, in ogni cosa. Hai idea di come sia vivere ogni giorno della vita con la tua fottuta ombra attaccata al culo?! Ne hai una vaga idea, Sorella?!”

“E tu cosa hai fatto per staccartela?” ribatté con tono freddo e duro la kunoichi mora. “Cosa hai provato a fare per convincere mamma che il migliore eri tu? Andare a prostitute ed ubriacarti sono state le soluzioni migliori che hai trovato?”

“Ci ho provato a superarti!”

“Posso solo immaginarlo.” la voce di Hana si tinse di derisione. “Alla tua età non hai ancora avuto le palle di metterti in gioco e provare a diventare Jonin. Cosa pensi di mostrare con le tue spacconate? Davvero credi di essere divertente? Forse lo eri da bambino, ma ora vedo solo un ninja come tanti altri, che si rifiuta di crescere, di provare ad essere qualcosa di più di un mediocre, preferendo lamentarsi su quanto la vita sia stata ingiusta con lui.”

Kiba reagì d'istinto, provando a tirarle un pugno, ma Hana lo schivò con un riflesso eccezionale, bloccandogli il braccio con una semplice torsione del polso. I fratelli Haimaru iniziarono a digrignare i denti, ma un cenno secco della kunoichi bloccò sul nascere la loro furia.

“Sai cosa hai fatto, Kiba?” ora la donna non scherzava più, come testimoniava la gelida collera che ardeva nella sue iridi color pece. “Hai appena provato a colpire il tuo futuro capoclan.”

Lo shinobi non disse nulla, rendendosi conto solo in quell'istante di aver tentato di picchiare sua sorella maggiore.

“Hana... io...”

“Non venire stanotte.” Hana lo lasciò andare, il volto contorto in un'espressione strana: un misto tra disgusto, rabbia e compassione. “Non voglio che il mio primo atto da capo degli Inuzuka sia quello di bandirti a vita.” emise un lieve fischio di richiamo, iniziando ad allontanarsi, subito seguita dai suoi fedeli compagni a quattro zampe. “Per il tuo bene, farai meglio a starmi alla larga per un po'.”

Kiba rimase immobile, sotto la pioggia, fissando la schiena della sorella allontanarsi fino a scomparire del tutto. La rabbia di prima era scomparsa, lasciando spazio solo ad un'enorme amarezza.

Hana ha ragione. Chiuse gli occhi, passandosi una mano sul volto, sentendosi un vero verme per ciò che aveva fatto. Come sempre.

Non andò alla riunione del clan. Sapeva che Hana non minacciava a vuoto, e non desiderava costringerla ad attuare le sue minacce. Rimase tutta la notte seduto sotto un portico, a fissare la pioggia cadere, gli occhi scuri persi nel senso di colpa. Fu allora che capì il motivo per cui si era sempre rifiutato di dichiararsi ad Hinata, il perché aveva deciso di restare nascosto nell'ombra, mentre Naruto gli portava via ciò che aveva di più caro dopo Akamaru.

Sono un fallito.

E a nessuna donna piacevano i falliti.

 

 

Entrò in casa a passo rapido, percorrendo con due falcate il tragitto verso la sua camera, dove Akamaru lo accolse con lunghe feste.

“Buono!” esclamò Kiba, sorridendo davanti all'entusiasmo dell'amico. Sapeva che sarebbe stato difficile, ma era convinto che quella fosse la decisione migliore, anche per Akamaru.

Si cambiò rapidamente, sciacquandosi il fango di dosso con una rapida doccia. Una volta lavato, iniziò a prepararsi una sacca da viaggio, gettandosi dentro alla rinfusa solo lo stretto necessario. Aveva appena iniziato a riempire la borsa per gli shuriken quando un tornado ringhiante entrò in camera sua, fissandolo con occhi ricolmi di disprezzo.

“Tu!” la voce uscì simile ad un latrato dalle labbra di Tsume. “Si può sapere dove diavolo sei stato ieri notte?!” fece per afferrare il figlio per il colletto della felpa, ma quest'ultimo si liberò con una facile presa.

“Non ho tempo per queste cose.” riprese i preparativi, lasciando la genitrice perplessa.

“Cosa stai facendo?”

“Vedi, madre...” esordì con voce carica di sarcasmo l'Inuzuka. “Stamattina, mentre tu stavi ancora smaltendo la sbornia per aver visto la tua figlia prediletta diventare capoclan, sono andato dall'Hokage a farmi dare una licenza.” chiuse con un gesto secco i bagagli, gli occhi puntati su quelli del genitore. “Una licenza a tempo indeterminato.”

Tsume inarcò un sopracciglio, mentre un sorriso ironico le spuntava spontaneamente sul viso.

“Cos'è, il troppo lavoro ti distrugge? Non ne hai abbastanza di puttane e sbronze?” lo provocò, il sorriso di scherno sempre sul volto. “Dopotutto, vedo che in questi anni hai imparato solo questo: a scappare dai tuoi problemi.”

“Ti sbagli.” le si avvicinò così tanto che i loro nasi si sfiorarono. Tsume poté così vedere ogni singolo poro del volto di suo figlio esprimere una violenta rabbia nei suoi confronti, nascosta sotto una maschera gelida.

“Non sto scappando dai miei problemi.” la oltrepassò, subito seguito da uno scodinzolante Akamaru. “Sto andandomene dal clan.”

“Cosa?” l'Inuzuka più anziana si voltò di scatto, seguendo il figlio fino alla porta. “Cosa diavolo significa?!”

Kiba si voltò lentamente, la maschera di fredda collera ancora al suo posto, gli occhi ricolmi di determinazione.

“Ieri sera ho incontrato tua figlia.” rispose con voce pacata. “E mi ha fatto capire una cosa: in questo clan non c'è posto per tutti e due.”

“Kiba...” ora Tsume sembrava spaventata. “Non vorrai diventare un reietto solo per orgoglio. Neanche tu puoi essere tanto stupido!”

“Perché no?” sorrise, mostrando un'ombra della gioia fanciullesca che da sempre lo caratterizzava. “In fondo, anche l'eroe di questa nazione è un idiota.”

“Kiba!”

“Prenditi cura di Akamaru mentre sono via.” si congedò con queste parole, uscendo all'aria aperta. Akamaru proseguì a seguirlo, ma arrivato al confine della proprietà della madre, il padrone lo fermò.

“Tu resti qui.” esordì, bloccandolo con un cenno. “Seguirmi sarebbe pericoloso, oltre che stupido, e non desidero che ti succeda qualcosa.”

Il cane-ninja lo fissò confuso. Provò nuovamente a seguirlo, ma ancora una volta l'Inuzuka glielo impedì.

“No, Akamaru.” scosse la testa, il cuore che sanguinava. Provava dolore per quello che stava facendo. Intimare al suo più caro amico di restare lì gli sembrava orrendo, contro natura. Era come se si stesse strappando un arto, o una parte di sé, con le sue stesse mani. Una cosa così insopportabile, che fu tentato di essere duro, brusco, ma osservare il terrore negli occhi di Akamaru gli fece cedere le ginocchia.

“Amico mio...” iniziò a grattargli le orecchie, ricevendo un paio di ruvide leccate in faccia. “Resta qui, ti prego.” appoggiò la fronte sul muso dell'amico, trattenendo a stento una lacrima. “Ti prometto che tornerò.” sussurro, senza smettere di accarezzarlo. “E resteremo insieme per sempre.”

Akamaru iniziò a guaire, come se avesse subito una ferita. Asciugandosi gli occhi umidi con un gesto stizzito, Kiba si alzò di colpo, volgendo le spalle al compagno di sempre con un ringhio. Era tremendo, ma doveva farlo. Se voleva trovare la sua strada, avrebbe dovuto compiere quel viaggio da solo, senza l'aiuto di nessuno. Kurenai-Sensei, Shino, Hinata, Mirai, Akamaru... avevano tutti trovato la loro strada. Ora era il suo turno.

Si allontanò rapidamente, incapace di sopportare gli uggiolii di Akamaru, i quali divennero ben presto lugubri ululati. Un torbido e doloroso addio che gli rimbombò nelle orecchie anche molte ore dopo che aveva attraversato i confini del villaggio, alla ricerca disperata di qualcosa che giustificasse tutto quel dolore inflitto al suo più caro amico.

Perdonami Akamaru... chiuse gli occhi, appoggiandosi una mano sopra il cuore. Aveva sempre dubitato dell'espressione 'cuore spezzato', ma ciò che sentiva rispecchiava perfettamente quel concetto: un muscolo dolorante, che gli inviava stilettate di dolore ad ogni battito.

Un giorno tornerò, e sarò un padrone migliore.

E' una promessa.

 

 

Due settimane dopo. Soraku, Terra del Fuoco

 

 

Kiba si tirò su il cappuccio, infastidito dalla pioggia che cadeva violentemente. Alzò lo sguardo al cielo plumbeo, sentendosi intirizzito fin nelle ossa, stanco di camminare con quel tempo infernale.

Potrei anche prendermi una pausa. Lo shinobi rivolse diverse occhiate attorno a sé, cercando qualcosa di simile ad un riparo. Il suo sogno sarebbe stato una locanda, ma in quel luogo non osava aspirare a tanto.

Soraku era una città malsana, dall'aspetto fatiscente. Grossi grattacieli grigi e diroccati si innalzavano verso il cielo, dando vita ad una miriade di strade fangose ed anguste. Un tempo doveva essere stata un città ricca e potente, ma ormai era praticamente abbandonata a se stessa, dimora di disperati, accattoni e criminali. Kiba ne conosceva la nomea, e avrebbe preferito non sostarvi, ma il brutto tempo lo tormentava da oltre una settimana, e non vedeva l'ora di passare una notte sotto un tetto solido, per quanto cupo e fatiscente potesse essere.

L'Inuzuka si mosse rapido, per quanto le sue stanche gambe glielo permettessero, affondando i piedi nel pantano sotto di sé. Superò un vecchio barbone che chiedeva l'elemosina con una mano deforme, e successivamente una donna truccata pesantemente che gli inviò un bacio a schiocco da sotto un portico semi-allagato, mentre poco più avanti vide il corpo senza vita di un giovane, abbandonato in mezzo al fango.

Kiba non provò alcun sentimento nel vedere ciò, non poteva. Le prime volte era rimasto scioccato nel constatare quanto profonde ed orrende fossero le ferite che la Grande Guerra aveva lasciato nel suo paese, ma poi si era abituato, come sempre. Aveva visto uomini e donne, compagni di una vita, morirgli davanti agli occhi in un istante. Anni di esperienze, sensazioni e ricordi svaniti senza lasciare nulla. Aveva capito che l'unica possibilità per non impazzire era diventare come coloro che aveva sempre disprezzato maggiormente. Chiudere il suo cuore a quel dolore era l'unica via che conosceva per non annegarci dentro.

Svoltò l'angolo, vedendo una luce in fondo alla strada. Si avvicinò a passo stanco, desiderando ardentemente di ripararsi da quella pioggia gelida. Non aveva neanche fame, solo uno spasmodico bisogno di chiudere gli occhi.

Quando infine arrivò, constatò di essersi sbagliato. Non era un rifugio, ma una vera e propria locanda, costruita dentro il rudere di una vecchia caserma. Il moro poteva sentire voci rauche rincorrersi all'interno, mentre una luce tremolante ma calda gli investì il viso.

Entrò di buon passo, accogliendo con un sospiro l'aria bollente avvolgergli il corpo. Si tolse il cappuccio, scrollandosi di dosso l'acqua come un cane. Notò che l'ambiente non era altro che un grosso stanzone diroccato, dove al centro divampava un focolare, su cui un grasso individuo rosolava una porchetta. Su un lato della stanza, quella più lontana dall'ingresso, c'era un rozzo bancone, dove un uomo di colore serviva liquori.

Gocciolando acqua sul selciato rovinato dal tempo, lo shinobi raggiunse il grassone, spintonando rudemente un paio di ubriachi, i quali lo insultarono con voci impastate.

“Chi devo pagare per averne un po'?” domandò seccamente.

Senza proferire una parola, l'uomo indicò il barista, il quale non batté ciglio quando Kiba gettò sul bancone alcune centinaia di ryo.

“Bastano per una birra ed un po' di quella carne?”

“Posso aggiungerci anche qualcos'altro.” fu la secca replica dell'uomo. Aveva una voce rauca e profonda. “Un consiglio.”

“E quale sarebbe?”

“Nascondi quel simbolo.” Kiba capì subito che si riferiva al suo coprifronte. “Da queste parti quelli come te durano poco.”

Quelle parole gli rimasero impresse, mentre mangiava avidamente la fetta di carne che si era fatto consegnare. Nonostante la guerra civile fosse ormai finita, il malcontento contro gli shinobi era ancora ampio e diffuso, dato che la povertà e la violenza dilagavano indisturbate nel paese, dando vita a posti come Soraku: un ricettacolo di disperati ed assassini, un luogo dove ogni legge era scomparsa, lasciando spazio alla follia ed al caos come uniche morali.

Cosa si potrebbe fare per sistemare tutto questo? Era una domanda a cui nessuno, neanche l'Hokage, aveva una risposta. L'esercito del Daimyo era troppo mal organizzato per provare a riportare l'ordine negli angoli più sperduti del paese, mentre gli shinobi di Konoha erano una forza militare d'élite, tanto preziosa quanto mal vista dal resto della popolazione. Usarli per azioni repressive avrebbe solamente alimento il fuoco morente, ma ancora caldo, che sobillava la rabbia della nazione.

Quando trangugiò l'ultima sorsata di birra, una stanchezza pesante e calda lo investì, facendogli desiderare di poter chiudere gli occhi per qualche ora. Il calore della stanza lo invogliava, ma le parole del barista gli risuonarono ancora ben chiare nella mente, facendogli prendere rapidamente la decisione di cercare altrove.

Durante la breve pausa che si era concesso la pioggia era, se possibile, aumentata ulteriormente. Si nascose nuovamente il volto, iniziando a girovagare per le strade oscure e fangose. Fu in quel momento che sentì, per la prima volta da quando era partito, nostalgia di casa. Gli mancavano i commenti secchi di Shino, i sorrisi caldi di Kurenai-Sensei, le risate gioiose di Mirai, gli occhi splendenti di Hinata; anche per sua madre e sua sorella ebbe un fremito di nostalgia, chiedendosi se, dopotutto, non si era comportato in maniera avventata e brusca con loro. Ma soprattutto sentiva la mancanza di Akamaru. Era come se gli mancasse una braccio, o una gamba: poteva abituarsi, ma non avrebbe mai smesso di sentirne l'assenza.

Mi domando cosa spero di fare, quali miracoli immagino di compiere in questo viaggio. Era un pensiero ricorrente, una consapevolezza che lo accompagnava come un macigno sul cuore. Se non sapeva lui per primo cosa cercava, forse tutto quello era solo una perdita di tempo, l'ennesimo atto compiuto d'istinto che l'aveva solo allontanato da coloro che amava, per cui covava numerosi rimorsi e, forse, ancor più rimpianti.

“Ehi, tu! Cosa diavolo...” delle urla proveniente da un vicolo alla sua sinistra lo fecero bruscamente riemergere dai suoi pensieri. Udì un uomo gridare dal dolore, seguito successivamente da un tonfo secco, un suono che aveva imparato a riconoscere in guerra: qualcuno aveva appena perso la vita.

Agì d'impulso, correndo in direzione della colluttazione. Sapeva che non erano affari suoi, ma non sopportava l'idea di vedere altra morte, non dopo quello che aveva osservato nelle ultime ore.

Una volta nel vicolo, ciò che vide furono tre uomini riversi a terra, privi di vita. Una rapida perquisizione gli permise di capire che erano stati uccisi da qualcosa di simile ad artigliate profonde, come quelle di un grosso felino. Si guardò attorno, maledicendo la pioggia che gli annullava l'olfatto. Fu solo grazie ad anni di allenamenti che scorse una figura risalire, rapida e silenziosa, uno degli edifici diroccati.

La seguì. I suoi passi risuonarono rapidi lungo le pareti di cemento, il torpore di prima completamente scomparso. Era semplicemente furibondo, stanco di morte e devastazione, e vedere quei cadaveri risvegliò in lui un cieco furore.

Una volta sul tetto, riuscì a vedere meglio l'artefice della carneficina. Era completamente vestito di nero, con solo gli occhi scoperti. Dalle forme poté intuire che si trattava di una donna, con lunghi capelli castani raccolti in una treccia, due iridi color miele che lo fissavano con perplessità.

“Non ho idea del perché tu l'abbia fatto.” esordì Kiba, mettendosi in posizione di guardia. “Ma stasera è la tua serata sfortunata. Non tollerò gli assassini a sangue freddo.”

La donna non disse nulla, proseguendo a fissarlo da distanza di sicurezza. Lo shinobi poté tuttavia constatare come avesse irrigidito tutti i muscoli, pronta a reagire a un qualsiasi cenno di minaccia.

Per alcuni secondi i due avversari si fissarono in silenzio, alla ricerca del momento giusto per agire. L'Inuzuka ne approfittò per studiarla: dal modo in cui si muoveva le ricordava una grossa gatta, e la cosa non gli piaceva neanche un po'; non aveva mai amato quei predatori sguscianti e silenziosamente letali.

Improvvisamente, la ragazza scattò. Si lanciò con incredibile rapidità contro di lui, colpendolo con un calcio in pieno volto. Kiba accusò il colpo, ma si riprese subito, attaccando con un montante, il quale però venne parato. La sua avversaria iniziò ad attaccarlo con rapidi colpi di tatjutsu, infliggendogli più volte vari danni al petto. Con l'ultimo di essi, Kiba venne scaraventato a diversi metri di distanza, il corpo scosso da fitte lancinanti di dolore.

Merda! Si rialzò barcollando, sputando un grumo di sangue. Gli anni di pace l'avevano reso lento e prevedibile. Caricò, ringhiando come un vero cane, colmando con la potenza là dove l'agilità non bastava. Provò più volte a colpire la donna, ma quest'ultima si difendeva sempre in maniera impeccabile, con parate e contrattacchi precisi e letali. Tuttavia, dopo circa cinque minuti di corpo a corpo ininterrotto, la perseveranza dello shinobi venne premiata: colpì con un doppio pugno la ragazza al petto, scaraventandola a svariati metri di distanza. Quest'ultima cadde malamente al suolo, scrollando il capo, stordita dalla caduta.

Con il passare dei minuti, gli allenamenti effettuati per anni a Konoha iniziarono a riaffiorare nel corpo e nella mente dell'Inuzuka. Ritornò alla carica, rinvigorito dall'adrenalina che gli circolava rapida nelle vene. Provò nuovamente a colpire con un montante al volto la sua avversaria, ma quest'ultima gli bloccò facilmente il braccio con una presa, facendogli lo sgambetto, e tirandogli un tremendo pugno sul naso. Disorientato, Kiba si affidò all'istinto: afferrò con il braccio libero la spalla destra di lei, scaraventandola con l'aiuto della forza centrifuga della caduta lontano da sé.

Atterrarono entrambi con violenza a terra. I polmoni di Kiba si svuotarono troppo in fretta, annebbiandogli del tutto la mente. Ci mise un istante di troppo a rialzarsi, dato che non appena fu in piedi venne colpito da un calcio sul mento che lo riportò al suolo.

Emettendo un gemito di dolore, Kiba provò a muoversi quando percepì un freddo pugnale vicino alla gola. Nello stesso istante, una mano lo afferrò per il bavero, sollevandogli il capo di pochi centimetri dal suolo.

Dunque deve finire così. Si maledì dentro di sé. Quello stupido viaggio sarebbe terminato nella maniera più ridicola possibile: morto per aver voluto fare il paladino della giustizia. Un ruolo che di sicuro stava meglio addosso a Naruto che a lui.

Deve sempre essere lui quello che non sbaglia mai... proprio come con Hinata.

I secondi passarono, ma la donna non sembrava decisa a fare una mossa. Si limitava a fissarlo, con quegli occhi dal colore insolito, mentre la pioggia cadeva più fitta che mai.

“Se devi farla finita... fallo in fretta.” ansimò l'Inuzuka, ma la ragazza non si mosse ancora, permettendo al ninja di attuare un tentativo disperato di liberarsi.

Con una mossa rapida, tirò una ginocchiata all'addome della ragazza, liberandosi della sua presa. Quest'ultima indietreggiò goffamente, risentendo del colpo subito, e permettendo allo shinobi di approfittarne. Tuttavia, quando Kiba stava per afferrare il pugnale, essa scomparve dalla sua vista, lasciandolo perplesso.

Dove... non riuscì a formulare un pensiero compiuto. Un dolore lancinante alla nuca lo investì, sfocandogli la vista. Le gambe cedettero di colpo, mentre il pavimento si avvicinava troppo rapidamente.

Hinata... Akamaru...

Poi, ci fu solo buio.

Perdonatemi.

 

 

Correva disperatamente lungo il corridoio, i piedi nudi che scalpicciavano rapidi sul pavimento. L'ansia lo consumava, come la paura che lo divorava poco a poco, trasformando ogni cosa in puro orrore.

Arrivò alla sua meta, aprendo il fusuma di scatto. Numerose persone troneggiavano sopra di lui, tutte vestite di nero. In mezzo alla stanza c'era sua madre, seduta su una sedia, il volto coperto da un velo scuro, una mano davanti agli occhi per nascondere le lacrime.

Dov'è?” sentì la voce morirgli in gola, quasi avesse paura di rompere la tensione che regnava nell'ambiente. “Dov'è papà?”

Il silenzio che seguì fu ancora più teso ed angosciante.

Voglio sapere dove si trova mio padre!”

Hana!” la voce di sua madre si levò roca, carica di fastidio, come se non potesse sopportarne la vista. “Porta tuo fratello fuori da questa stanza!”

Dov'è papà?!” provò a scrollare una manica di uno degli adulti, ma una mano dura come l'acciaio gli afferrò il braccio sinistro, trascinandolo fuori.

Lasciami!”

Questo non è un posto per un bambino, Kiba. Ti avevo detto di giocare con Akamaru.”

Voglio vedere papà! Lo voglio vedere! Lasciami andare!” provò a divincolarsi con tutte le sue forze, puntando i piedi, scalciando, mordendole la mano, ma sua sorella non cedette di un centimetro, trascinandolo fuori di peso.

Mamma! Mamma!” Kiba richiamò la madre, la quale, nel sentirlo gridare, digrignò i denti. “Dove si trova papà? Per favore, dimmelo!”

PORTALO VIA!” l'urlo di Tsume fu inquietante, quasi inumano, ricolmo com'era di rabbia e dolore. “Non lo voglio più vedere qui dentro!”

Perché non vuoi dirmelo?! Perché nessuno mi dice dove si trova papà?! PERCHE'?!”

Ora smettila!” con un gesto secco, Hana lo voltò, tirandogli uno schiaffo. “Smettila di fare lo stupido!”

Erano in corridoio, lontani dalla madre e da tutti quegli strani adulti vestiti di nero. Kiba si toccò la guancia arrossata, percependo le prime lacrime premere per uscire.

Voglio solo sapere dove si trova papà...” mormorò con voce rotta, iniziando a singhiozzare. Hana si mordicchiò l'interno di una guancia, cercando di trattenere la rabbia che divampava dentro di lei.

Lui... non tornerà mai più, Kiba.” mormorò. “Ci ha lasciato.”

Gli occhi del piccolo Inuzuka si spalancarono per la sorpresa, mentre le parole della sorella gli entravano in testa con la violenza di uno tsunami, lasciandolo sperduto e confuso.

Cosa?”

Dimenticalo, Kiba, dimenticalo e basta.” la ragazzina lo superò, rientrando nella stanza. “Lo dico per il tuo bene.”

Rimase solo, in mezzo al corridoio, il corpo scosso da singhiozzi sempre più violenti. Strinse i pugni con rabbia, i denti che scavano nel labbro inferiore, nel disperato tentativo di non cedere, di non lasciarsi sopraffare dalla disperazione.

E' una sporca bugia!” urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, percependo il silenzio attorno a lui soffocarlo. “Io non ci credo!”

Corse via, lontano da quegli adulti così crudeli e meschini, che osavano pensare che il suo papà li avesse abbandonati. Ci mise ogni oncia di rabbia in quel gesto, in quel rifiuto. Non ci credeva, e non l'avrebbe mai fatto.

Avrebbe atteso suo padre per sempre.

Invano.

 

 

Certo che sei proprio ridicolo per essere un ninja.”

Una voce fin troppo vicina lo fece rinvenire bruscamente, costringendolo a richiudere subito gli occhi a causa della luce. Aveva un dolore lancinante alla testa, che gli impediva di ragionare lucidamente, anche se capì di trovarsi in un letto piuttosto comodo e caldo, cosa che stonava con gli ultimi, frammentati, ricordi che possedeva.

Come... ci sono arrivato in questo posto?

Quando i suoi occhi si abituarono, comprese di trovarsi in una stanza angusta, dalle pareti in acciaio, senza alcuna finestra. Il mobilio era composto dal letto dove era sdraiato, più un cassettone vuoto, di legno scuro. All'inizio credette di trovarsi in una cella, ma la porta, blindata anch'essa, era aperta, mentre un paio di tubi al neon illuminavano freddamente l'ambiente dal soffitto.

“Cosa diavolo è questo posto?” borbottò, massaggiandosi la testa, scoprendo un profondo taglio slabbrato sulla nuca, probabile origine dell'emicrania che lo tormentava da quando si era svegliato.

In quel preciso istante, un gatto saltò sul letto, appoggiandogli le morbide zampe sullo stomaco. Era un bel esemplare, completamente nero, naso compreso. I suoi occhi, di un verde smeraldo, si piantarono con sfacciataggine in quelli dell'uomo, fissandolo con disgustosa superiorità.

E' incredibile che uno shinobi della Foglia sia così stupido, oltre che debole.” esordì improvvisamente il felino. “A Konoha si devono essere rammolliti parecchio.”

All'inizio Kiba credette di essere diventato pazzo. Era impossibile che quel gatto avesse parlato, e per alcuni istanti pensò di trovarsi in un sogno. Tuttavia, il felino, infastidito dall'espressione di profondo stupore del moro, lo graffiò su una guancia con un gesto improvviso. Il dolore lancinante fece comprendere all'Inuzuka che, per quanto assurdo potesse essere, quell'arrogante palla di pelo aveva veramente parlato.

“Tu... parli?!” boccheggiò incredulo, notando solo in quell'istante il fatto che l'animale indossava degli abiti tradizionali da ninja, seppure riadattati alle sue misure.

Certo che parlo, ed anche molto meglio di te, Puzza di Cane!” replicò sdegnato l'animale, iniziando a leccarsi una zampa con alterigia. Era incredibile quanta arroganza e superiorità ci mettesse solo per ricoprirsi il muso di saliva.

“Puzza di... Cane?”

Odori come un cane, quindi d'ora in poi ti chiamerò Puzza di Cane.” gli spiegò il micio, squadrandolo come se fosse completamente rincitrullito.

Profondamente irritato per essere stato offeso da quel piccolo bastardo in miniatura, Kiba provò a strozzarlo ma quest'ultimo scese con grazia ed agilità dal letto, mettendosi fuori tiro dall'iracondo, ma ancora convalescente, shinobi.

E' questo il tuo modo di ringraziare chi ti salva? Non dovrei sorprendermi che odori come un cane, visto che sei stupido come uno di loro.”

“Piccolo arrogante...”

“Momo!” una figura femminile entrò nella stanza, squadrando con severità il gatto. “Smettila di essere scortese!”

Il felino non rispose, limitando a strusciarsi sulle gambe della donna, lanciando un'occhiata sospettosa al ninja.

“Ti porgo le mie scuse.” fu solo in quel momento che Kiba si concentrò sulla nuova arrivata, la quale doveva avere all'incirca la sua stessa età. Era di media altezza, con un corpo molto magro, coperto da abiti semplici e consumati. Teneva i lunghi capelli castano chiaro raccolti in una treccia, i quali incorniciavano un volto di una bellezza semplice. Era qualcosa di diverso dalle bellezze capaci di stregare a primo impatto, come quelli di Hinata o Ino. Il naso era leggermente canuto, mentre gli zigomi erano marcati, donandole un aspetto sciupato. Tuttavia, ciò che colpì l'Inuzuka furono gli occhi: due perle di ambra, ingentilite da miele dorato. Le stesse che aveva combattuto prima di perdere i sensi.

“Tu!” provò ad alzarsi, ma una fitta alla testa lo stordì, obbligandolo ad affondare nuovamente tra i cuscini.

“Stai calmo.” dichiarò la ragazza, appoggiando sul cassettone un vassoio con sopra un piatto fumante di zuppa. “Hai dormito per quasi due giorni, devi evitare i movimenti bruschi.”

“Sei... stata tu...” deglutì, sentendosi la gola impastata. Aveva una sete tremenda. “Tu mi hai... colpito.”

Lei sospirò, un'espressione contrita sul volto, mentre passava un bicchiere d'acqua allo shinobi.

“Mi dispiace, ma temo che ci sia stato un equivoco.” si sistemò un ciuffo ribelle, sedendosi sul materasso cigolante. “Quando ho visto il tuo coprifronte, non riuscivo a crederci: uno shinobi di Konoha che mi attacca!”

“E a buon rendere!” borbottò il moro, ancora teso. “Avevi appena ucciso tre persone!”

“Erano tre assassini.” replicò con voce improvvisamente fredda la giovane. “Oltre che ladri e stupratori. Non meritavano di vivere.”

“E chi sei per decidere chi deve vivere e chi invece deve crepare?!” ringhiò Kiba, fissandola con astio. “Anche se quello che dici fosse vero, ciò non giustificherebbe il tuo atto: esiste una differenza tra la vendetta di sangue e la giustizia.”

La ragazza lo guardò a lungo negli occhi, mettendolo a disagio. In qualche modo, quello sguardo gli ricordava Hinata. Ci leggeva dentro la stessa forza unita a dolcezza, lo stesso dolore, la stessa determinazione. Eppure, se tutto ciò nella Hyuga ispirava regalità e grandezza, in lei quelle sensazioni apparivano più... umane, terrene.

“Dovresti mangiare qualcosa.” mormorò infine, rialzandosi. “Non appena ti sarai ristabilito potrai proseguire per la tua strada.” fece per andarsene, seguita da un annoiato Momo, quando il ragazzo, con uno scatto, la richiamò.

“Aspetta.” la vide girarsi con grazia, proprio come un felino. Fu solo allora che Kiba si accorse che non emetteva alcun suono quando si spostava, al pari di un predatore potente, elegante e raffinato. “Non mi hai detto come ti chiami.”

La vide sbattere le palpebre, un sorriso dolce che prese a brillare su quel viso così particolare, diverso dal classico canone di bellezza a cui lo shinobi era abituato. Eppure, non riusciva a non trovarlo affascinante nella sua particolarità.

“Mi chiamo Tamaki.”

Se ne andò, silenziosa come un'ombra, lasciandolo solo con i suoi pensieri, il suo mal di testa, ed il pensiero fisso di quella ragazza così misteriosa e strana.

Tamaki...

 

 

Nei giorni seguenti Kiba si sentì meglio, iniziando ad alzarsi ed a camminare per brevi distanze. Scoprì di trovarsi in un vero e proprio labirinto di cunicoli sotterranei, illuminati da lunghi e sottili tubi al neon. Era un luogo inquietante e cupo, specie per un ninja come lui, amante degli spazi aperti e dei boschi.

Tamaki veniva a trovarlo almeno un paio di volte al giorno, portandogli sempre qualcosa da mangiare. Tuttavia, il resto delle sue giornate era costretto a trascorrerle in compagnia di Momo, il quale possedeva l'innato dono di irritarlo in qualsiasi istante. A quanto pare, la ragazza aveva dato al gatto il compito di fargli da guida durante le sue assenze, accompagnandolo durante le sue esplorazioni. Momo tuttavia trovava quel compito umiliante, e non perdeva occasione per lamentarsene, accusando Kiba di essere troppo stupido per muoversi da solo senza perdersi.

Faccio veramente fatica a credere che tu sia un eroe di guerra, come sostieni.” borbottò con la sua voce affilata, durante una delle loro passeggiate. “Senza di me non riusciresti neanche ad allacciarti le scarpe, Baka!”

Il più delle volte il moro sopportava pazientemente. Sapeva che senza il felino non avrebbe mai avuto modo di orientarsi in quel luogo, e preferiva evitare di indispettirlo eccessivamente. Tuttavia, in più di un'occasione fu vicino a mettergli le mani addosso, anche se Momo era troppo furbo per lasciarsi cogliere di sorpresa.

Le ore che passava con Tamaki erano, fortunatamente, molto più piacevoli. La ragazza era di carattere allegro, e possedeva una mente arguta, che le permetteva spesso di capire quando Kiba scherzava oppure quando parlava seriamente. Le loro chiacchierate durante i pasti divennero un passatempo dolcissimo per lo shinobi. Aveva ancora nostalgia di casa, ma quando era con lei quella sensazione sgradevole che percepiva all'altezza dello stomaco scompariva, lasciando spazio al calore del suo sorriso.

Gli argomenti oggetto delle loro discussioni erano dei più disparati. Tamaki rimase impressionata quando scoprì che Kiba possedeva un cane-ninja, e gli chiese moltissime informazioni su di lui ed Akamaru. Anche l'Inuzuka comprese qualcosa della giovine, come il fatto che possedesse altri gatti-ninja oltre a Momo, anche se quando si andava a parlare dei loro passati, entrambi si mostravano restii, dando vita a silenzi imbarazzanti e carichi di tensione.

“Parlami di Konoha!” esclamò improvvisamente Tamaki, cinque giorni dopo che Kiba aveva ripreso conoscenza. “Non l'ho mai vista dal vivo, anche se ho sentito molte storie a riguardo. È vero che c'è una montagna con sopra intagliate le facce di tutti gli Hokage del passato?”

“E' vero!” replicò Kiba, masticando un pezzo di carne essiccata. “Ad oggi le facce sopra la montagna sono sei, e ti posso assicurare che la prossima ad essere scolpita sarà la mia!”

“La tua?” Tamaki sorrise furbescamente, creando delle fossette delicate sul proprio viso. “Ma un Hokage non dovrebbe essere così forte da radere al suolo intere valli?”

“E con ciò?”

“Perdonami Kiba, ma per quanto io ti creda sulla parola, non mi hai dato l'impressione di essere quel tipo di guerriero.”

L'Inuzuka corrugò le sopracciglia, diventando pensieroso. Benché il tono della ragazza fosse stato scherzoso, aveva toccato un nervo scoperto, che pulsava ancora purulento nel suo animo.

“Ehi...” l'avvicinarsi del volto di lei lo distrasse bruscamente dai propri pensieri. “Guarda che stavo scherzando!”

“Perdonami... era solo sovrappensiero.” Sorrise con fare sicuro. Sorridere era sempre maledettamente facile.

“Sai, mia nonna mi ha insegnato che i brutti pensieri non vanno mai tenuti dentro di sé.” raccontò la ragazza, sbocconcellando un dolcetto di riso.

“Deve essere sicuramente una persona in gamba, mi piacerebbe incontrarla un giorno.” la vide sorridere in modo strano, gli occhi persi in ricordi lontani.

“Perché no?”

 

 

“Toglimi una curiosità.” esordì Tamaki, durante il quindicesimo giorno di permanenza di Kiba nei tunnel. “Come mai ti trovi da queste parti? E' molto raro vedere shinobi della Foglia.”

“Beh, non posso rivelartelo.” l'Inuzuka si diede un'aria importante, notando, con una punta di orgoglio, che ciò aveva catturato l'attenzione della giovane kunoichi. “E' una missione di livello S... roba di quelle toste, per intenderci.”

“Uao!” Tamaki aveva letteralmente la bocca aperta. “Mi sento ancora più in colpa per averti messo al tappeto!”

“Ma figurati... non devi neanche pensarlo!” mentirle gli faceva schifo, e avrebbe desiderato con tutto se stesso raccontarle la verità, ma l'orgoglio aveva avuto la meglio, per l'ennesima volta. “In fondo... quella sera ero molto stanco.”

Questa è la scusa dei perdenti...”

“Momo!”

“In ogni caso, mi sorprende che una ragazza così giovane viva in questo posto lugubre tutta sola.” proseguì Kiba, deciso ad ignorare l'irritante felino. “C'è qualche motivo che ti spinge a farlo?”

Tamaki non rispose subito, giocherellando con una ciocca di capelli, che quel giorno teneva sciolti lungo la schiena. Il suo stupore di prima si era dissolto, lasciando spazio a qualcosa di molto più profondo ed enigmatico.

“Tamaki?”

“Vieni con me.” gli afferrò la mano, cogliendolo di sorpresa e trascinandolo lungo i tunnel. Proseguirono per alcuni minuti, imboccando quelle che sembravano delle scale, lasciando lo shinobi sempre più perplesso.

“Tamaki... dove stiamo andando?” lei non rispose, continuando a guidarlo senza mai lasciarlo. Il moro rinunciò a scoprirlo, preferendo concentrarsi sulle sensazioni che quella piccola mano, liscia e calda, gli stava regalando.

Alla fine, quando le ginocchia dell'Inuzuka cominciarono a mandare segnali di protesta per quella fatica, sbucarono su il tetto di un grattacielo dismesso. Una luce rosso sangue li avvolse, mentre il sole aveva iniziato a scomparire all'orizzonte, costringendo il moro a ripararsi il viso con una mano. Era un luogo aspro e vuoto, da dove si poteva ammirare la desolante vastità di Soraku stendersi tutt'intorno.

“Tamaki... perché mi hai porta...” si interruppe di colpo, osservando la ragazza condurlo davanti ad una piccola lapide in pietra, perfettamente pulita, con alcuni mazzolini di fiori che ne addolcivano l'aspetto.

Tamaki si inginocchiò davanti ad essa, le mani giunte, gli occhi chiusi, le labbra che si muovevano in una muta preghiera. Kiba corrugò la fronte, incapace di decifrare gli strani segni incisi sulla roccia.

“Chi è sepolto?” chiese, una volta accortosi che la kunoichi aveva terminato di pregare.

“Nessuno.” fu la risposta di quest'ultima. “E' solo un ricordo.” accarezzò con un dito la ruvida pietra, la mano che tremava impercettibilmente. “Il ricordo più dolce che possiedo.” si girò a fissare il ninja, il quale si perse tra le miriadi di sfaccettature di sentimento che i suoi occhi emanavano in quegli istanti. “Ed anche per questo è il più doloroso di tutta la mia vita.”

Deglutendo, Kiba si sedette al suo fianco, assaporando l'aria fredda con sollievo, dopo i giorni passati al chiuso dentro i tunnel.

“Si tratta di tua nonna.” mormorò infine, proseguendo a fissarla in faccia. “Non è vero?”

Lei annuì, tornando ad osservare la lapide, in religioso silenzio. L'Inuzuka non osò romperlo, comprendendo la sacralità del momento e del luogo per la ragazza, attendendo che fosse lei per prima a parlare.

“Tu sei il primo che porto quassù.” dichiarò dopo alcuni minuti Tamaki, gli occhi persi in ricordi lontani. “Mi sento... strana ad averlo fatto.” andò a cercare la mano di lui, stringendola con dolcezza. “Ma so anche che tu riesci a capirmi.”

Kiba si umettò le labbra, abbassando lo sguardo a terra. Ricordi lontani riemersero dal suo subconscio, frammenti di un'infanzia che avrebbe di gran lunga preferito cancellare per sempre, a lungo teatro di incubi cupi ed oscuri.

“Quando ero piccolo ho perso mio padre.” confessò d'impulso. Non aveva mai parlato con nessuno di quello che aveva provato in quegli istante, neppure con Shino e Hinata. Ora però sentiva di essere in sintonia con Tamaki, perché sapeva che lei poteva comprenderlo, capirlo, senza che ciò significasse calpestare i suoi sentimenti più nascosti e fragili.

“E' stato brutto?” chiese lei con voce delicata, quasi impalpabile.

“All'inizio molto.” chiuse gli occhi, ripensando alla volto di sua sorella, ribollente di gelida rabbia, del tutto diverso da quello di sua madre, la quale aveva pianto per l'ultima volta proprio in quell'occasione. “Ero un bambino, e non capivo perché mio padre non ci fosse più. Nella mia famiglia erano tutti troppo sconvolti per pensare a me, specie mia madre.” chiuse le mani, conficcandosi le unghie nei palmi. “L'unico che riuscì veramente a comprendere ciò che provavo fu Akamaru... l'ennesimo suo atto d'amore nei miei confronti.”

Cadde un silenzio profondo, rotto solo dal sibilo del vento. Ad anni di distanza, la rabbia ed il dolore divampavano ancora nel petto dello shinobi. Non aveva mai veramente accettato quella scomparsa, il sapere che non avrebbe più potuto vedere suo padre lo aveva colpito nel profondo, costringendolo a chiudere le proprie emozioni dietro strati di arroganza e falsa sicurezza, nella cieca convinzione che aprire il proprio cuore fosse sbagliato. Un errore, proprio come gli aveva inculcato a suon di schiaffi sua sorella in quel giorno maledetto, quando aveva capito che non poteva più restare un bambino.

“Avevo sette anni.” sussurrò infine, deciso a concludere quel dannato ricordo, convinto fin nel profondo che lei fosse veramente capace di comprendere ciò che aveva portato per quasi quindici anni nel suo cuore. “Quel giorno mia sorella mi picchiò e mi intimò di dimenticarlo. Disse che era la cosa giusta da fare.” aprì di scatto gli occhi, percependoli umidi, sorpreso di quella reazione da parte del suo corpo. Aveva dimenticato l'ultima volta che aveva pianto. “Non sono mai riuscito ad obbedirle. Ci ho provato, con tutte le mie forze, ma mi rendevo conto che quella ferita era dentro di me, qui...” si batté il petto con la mano libera. “Una ferita che non sarebbe mai guarita...”

Tamaki non disse nulla, e lui lo apprezzò. Gli ci voleva tempo per assimilare ciò che aveva appena fatto. Sentì una sensazione strana all'altezza dello stomaco, simile al sollievo. Era come se si fosse liberato di un masso da sopra il petto. qualcosa che ne l'alcool, e neanche le prostitute, erano riusciti a togliere ora non esisteva più, svanito nel magnifico benessere dell'essersi confidato con una persona con cui sentiva una sintonia potente, quello che forse era sempre mancato tra lui e Hinata.

“Immagino sia bello conoscere i propri genitori, poter stringere loro la mano...” sussurrò infine la kunoichi, stringendosi le gambe al petto. “Forse è per questo che i tuoi ricordi sono così dolorosi.” lo costrinse a guardarla negli occhi, sorridendogli dolcemente. “Perché sono ricolmi dell'amore che tuo padre provava per te.”

Kiba fece un profondo sospiro, gli occhi persi sulla linea infuocata dell'orizzonte. Per la prima volta dopo troppi anni, sentì di provare del rimorso nei confronti della sua famiglia. Forse, se avesse avuto la forza di superare il proprio orgoglio, il suo rapporto con Hana non si sarebbe deteriorato, sua madre lo avrebbe visto in un modo diverso e con Akamaru sarebbe stato un padrone migliore; anche il suo rapporto con Shino e Hinata avrebbe potuto prendere un'altra strada, una via diversa, forse migliore.

Ma la vita non poteva essere cambiata con i rimorsi. Lui era stato un orgoglioso idiota per troppi anni, permettendo a sua sorella di disprezzarlo, ed alla donna che amava di finire tra le braccia di un altro, un uomo diverso, un eroe, capace di essere forte, buono e coraggioso. L'emblema della perfezione che lui, impulsivo perennemente in conflitto con se stesso, non sarebbe mai riuscito ad essere.

Sentì lo sguardo di lei addosso, che lo scrutava, alla ricerca delle sue vere emozioni. Per un attimo fu veramente tentato di nascondersi dietro al ghigno beffardo che per tutta la vita aveva portato, ma ormai il muro aveva trovato una breccia, che venne allargata rapidamente.

“Credo che sia stata l'unica cosa che mi ha aiutato nei momenti più duri.” dichiarò infine, mostrando un sorriso diverso da quello che aveva sempre portato, un sorriso vero. “Sapere che lui mi ha sempre voluto bene, qualsiasi cosa io fossi diventato... è stato d'aiuto.”

Lei capì, ricambiando il sorriso. Il silenzio ritornò a regnare sopra di loro. Gli ultimi, magnifici, istanti in cui la luce salutava il mondo, lasciando spazio al manto oscuro della notte.

“Visto che siamo in tema di confessioni, ora è il tuo turno!” esclamò il moro, guardandola con fare rassicurante.

Lei sembrò sorpresa di questo cambio di atteggiamento da parte sua, ma non si chiuse. Sbatté gli occhi un paio di volte, riportandoli alla lapide. Per alcuni istanti le uniche voce che udirono furono i sibili provenienti con la notte imminente, ma poi la kunoichi iniziò a parlare, senza più smettere.

“Un tempo questa città non era come la vedi adesso.” iniziò con voce dolce, quasi il suo fosse il racconto di una ballata. “Era un luogo prospero, ricolmo di vita e gioia. La gente accorreva da ogni angolo del continente ad osservare le meraviglie di Soraku, la perla del Fuoco.”

“Ai tempi delle guerre tra clan, prima della fondazione di Konoha, le storie narrano che un potente clan assoggettò Soraku, portandola a nuovo splendore e gloria. Tuttavia, i suoi membri non scelsero mai questo luogo come loro residenza, affidando a fedeli vassalli il compito di amministrarla e proteggerla al posto loro.” si umettò le labbra, scostandosi i capelli dal viso. “Quei vassalli erano i miei antenati.”

“I tuoi antenati hanno governato Soraku?!” esclamò l'Inuzuka, incredulo di ciò che udiva. “Ma non è possibile! Eravate praticamente al pari del...”

“Daimyo?” concluse lei, sorridendo con condiscendenza. “Forse, ma bisogna dire che la mia famiglia non ruppe mai il suo patto di fedeltà con il clan che ci aveva conferito tale onore, aiutandoli e sostenendoli ogni volta che lo richiedevano. Anche quando venne fondata Konoha, ed i membri del clan signore di Soraku si trasferirono laggiù, noi continuammo a custodire questa città in loro nome.”

“Ma gli anni non furono clementi con noi. La fondazione dei vari villaggi ninja in tutto il continente portò ad un nuovo livello la guerra. Semplici scaramucce tra clan divennero veri e propri conflitti mondiali, che non risparmiavano nessuno, neanche questo luogo.”

Ci fu una lunga pausa. Tamaki fece un profondo respiro prima di riprendere a parlare, quasi sentisse sulla pelle le disgrazie del passato, capaci di corrompere quel luogo fino al midollo.

“Mia nonna era molto piccola quando ciò avvenne.” proseguì, la voce ridotta ad un roco sussurro. “Ma diceva sempre che non avrebbe mai potuto dimenticare l'orrendo massacro che avvenne tra questi edifici. Gli shinobi nemici del Paese del Fuoco entrarono con violenza in città, uccidendo barbaramente l'intera popolazione, compresi molti membri della mia famiglia.” Kiba non aveva neanche il coraggio di respirare, rapito dalla drammaticità di quel racconto. “C'è una frase che mi è sempre rimasta impressa: 'Quel giorno il sangue scorreva tra le strade, così alto che sfiorava le ginocchia degli uomini, i quali ci annegavano dentro i neonati e le giovani madri, dopo che ne avevano abusato oltre ogni decenza'.”

“Basta.” sussurrò infine lo shinobi. “Non è necessario che tu debba ricordare tutto questo.”

Lei lo guardò con sincera perplessità, accorgendosi solo in quell'istante di non aver mai smesso di stringergli la mano.

“E' la storia della mia città, Kiba.” mormorò, un sorriso dolce tra le labbra. “Non posso dimenticarla, non sarebbe corretto.”

Aveva ragione. Il moro capì che chiederglielo era stato sbagliato, così come sua sorella gli aveva chiesto di dimenticare suo padre.

Ognuno ha il proprio fardello da portare...

“Ti chiedo scusa.” rispose, chinando la testa. “Ti prego, continua.”

Il sorriso di lei divenne più ampio, anche se intriso di un velo di tristezza. Improvvisamente, appoggiò la testa sul petto di lui, accoccolandosi, alla ricerca di un riparo dal vento freddo di febbraio.

“Quando Soraku cadde in rovina, divenne un luogo spettrale.” proseguì, iniziando ad accarezzare il petto del moro. “Le leggende narrano che le anime di coloro che vennero uccisi in quel modo barbaro dimorino ancora qui, alla ricerca di vendetta. Qualunque sia la verità, i superstiti della mia famiglia mantennero intatto il loro giuramento, continuando a proteggere e sorvegliare questo luogo.”

“Ma gli anni passarono ancora, portando nuove guerre e nuove devastazioni. Il clan che tempo addietro aveva conquistato la gloriosa Soraku iniziò a decadere, scomparendo nell'oblio, e così fece anche la mia famiglia. Diventammo sempre meno, ultimi superstiti di una lunga e gloriosa casata di guardiani, custodi di un sapere in rovina, che forse non vedrà mai più la luce di un tempo.”

Ritornò il silenzio. Kiba iniziò a sfiorarle la chioma castana, assaporandone tra le dita l'incredibile morbidezza, muovendosi dolcemente, quasi fosse solo uno spirito protettore. Lei sembrò apprezzarlo, poiché la percepì rilassarsi, abbandonandosi del tutto a quel contatto.

“Mia nonna è morta cinque anni fa.” sussurrò infine, concludendo quel lungo racconto. “Quando è scomparsa, io sono rimasta sola. Ultima discendente dei guardiani di Soraku.” si voltò, fissando l'uomo negli occhi, il sorriso ora mutato in un'espressione seria. “La custode di un luogo che pullula di morte e disperazione.”

Avanzò cautamente una mano, sfiorandole il volto. Assaporò sotto i polpastrelli quel viso così strano, così particolare, che l'aveva stregato fin da quando aveva avuto modo di osservarlo per la prima volta. Tamaki socchiuse gli occhi, stringendo quella mano tra la sua, confortata da quel contatto così umano.

“Ti ricordi il nostro primo incontro?” mormorò la kunoichi, tornando a fissarlo in faccia. “Quando mi hai accusata di essere un'assassina?”

Kiba provò a sviare lo sguardo, ma lei glielo impedì, costringendolo a fissarla in quegli occhi dolci ed ambrati.

“Sì.”

“Quegli uomini erano dei criminali. Avevano compiuto crimini meschini ed orrendi.” con un gesto impulsivo, appoggiò la fronte contro quella dello shinobi, la voce ora incrinata. “Ti chiederai perché l'ho fatto, ed io potrei risponderti molte cose, ma non desidero mentirti.” fece un profondo respiro, continuando a stringere le mani di lui con forza crescente, quasi avesse paura di cadere se l'avesse lasciato. “L'ho fatto per dovere. Proteggere questa città è tutto ciò che mi ha lasciato in eredità la mia famiglia, ed io lo devo fare, anche se questo comporta macchiarsi di azioni orrende.” le prime lacrime solcarono il viso di Tamaki. Rappresentavano il suo senso di colpa, la sua disperazione per un destino che l'aveva intrappolata come un uccello in gabbia, costringendola a compiere non ciò che desiderava, ma quello che il suo sangue esigeva da lei.

“Avevi ragione: io sono un'assassina, una persona con le mani sporche del sangue di innumerevoli persone, solo per onorare coloro che sono morti in questo luogo.” scosse la testa, asciugandosi le lacrime con un gesto stizzito, i singhiozzi che ne squassavano il corpo magro. “Non pretendo che tu possa comprendere. Sei uno shinobi di Konoha, uno spirito libero che ha sempre potuto scegliere la sua strada, una cosa che a me è stata negata fin da quando sono venuta al mondo.”

La propria strada. Quelle parole risuonarono con prepotenza dentro la mente di Kiba. Tamaki aveva parlato della libertà di compiere il destino che uno preferisce, ma si chiese se ciò fosse veramente un bene. Non era mai stato veramente capace di prendere in mano la propria vita, ma si accorse che la kunoichi, invece, quella possibilità non l'aveva mai avuta.

Proprio come me... quel pensiero lo colpì, facendogli notare come anche lui, nonostante tutto, una vera scelta non l'aveva potuta fare. Per la sua famiglia sarebbe sempre stato quello meno talentuoso, meno bravo, l'elemento da disprezzare e considerare feccia. L'elemento imperfetto.

“Tamaki...” le asciugò una lacrima con il pollice, sentendola tremare tra le sue braccia, incredulo nel pensare all'eredità che quella ragazza così fragile doveva tenere sulle proprie spalle ogni giorno. Era sorprendente il fatto che non fosse mai crollata, continuando la propria opera di protezione nei confronti di un luogo ormai decaduto da molto tempo prima che entrambi nascessero.

“Io... credo di poter capire il tuo dolore.” la vide alzare il volto di scatto, incredula, gli occhi spalancati a fissarlo. “Tu non hai mai avuto la possibilità di scegliere, ma anch'io non ho mai potuto decidere del mio ruolo nel mondo.” deglutì a vuoto, accorgendosi solo in quell'istante che gli occhi di lei riflettevano la pallida luce delle stelle sopra di loro, rendendola semplicemente magnifica. “Sono sempre stato considerato l'elemento sbagliato della mia famiglia, una pecora nera da emarginare e disprezzare.” un sorriso sghembo nacque sul viso dello shinobi. “Il mondo ha deciso che noi due non possiamo essere più di questo, ma io credo che queste catene si possano spezzare... basta solo volerlo.”

Forse fu l'atmosfera del momento, l'empatia nata dall'essersi confessati ciò che maggiormente tormentava i loro cuori, o forse fu solo il destino, tante volte da loro maledetto. Kiba non avrebbe mai avuto la risposta che cercava, ma forse non gli importava neanche troppo conoscerla. L'importante, era che fosse successo.

I loro volti si sfiorarono, delicatamente. Poi si unirono in un bacio, lento e passionale. La lingua di lei provò a danzare con quella del moro, timidamente, dimostrando così la propria inesperienza, facendosi ben presto guidare da quella ben più vissuta dello shinobi.

“Perché?” mormorò quest'ultimo, quando le loro labbra si staccarono, rimanendo comunque a pochi centimetri di distanza. “Mi conosci da pochi giorni... non puoi sapere se sono quello giusto.”

Tamaki sorrise, un sorriso ricolmo solamente di gioia.

“Mi hai aiutato a spezzare le catene.” le ribaciò, lentamente, assaporando ogni istante di quel gesto così carico di significato. “Anche se solo per una notte.”

E Kiba non si fece più domande. Non le voleva, così come non le desiderava lei.

Una notte... sarebbe stata solo loro. Ore in cui avrebbero potuto illudersi di ogni cosa, creando un mondo privo dei sogni infranti e delle speranze distrutte.

Una notte in cui potevano diventare la principessa di un potente clan e l'eroe di tutti gli shinobi, destinati ad amarsi per sempre.

La vivremo insieme.

 

 

Scesero le scale avvinghiati, faticando a raggiungere la stanza di lui, ognuno impegnato ad esplorare con la bocca ogni centimetro del corpo dell'altro. Le mani dello shinobi si portarono all'attaccatura dei capelli di lei, percependo sotto i propri polpastrelli la carne calda e delicata. Il suo sangue si scaldò, proprio come in battaglia, annebbiandogli i sensi, lasciando spazio alla parte più primitiva ed animalesca del suo subconscio.

Le mordicchiò la spalla, percependo il corpo di lei scattare sotto una scarica di adrenalina. Tamaki iniziò a mugugnare, graffiandogli la schiena, le gambe avvinghiate attorno alla sua vita, incurvando la schiena per appoggiarsi del tutto su di lui.

Entrarono nella stanza. Lì lo shinobi iniziò a togliersi gli abiti, sentendoli ormai un'inutile impiccio. Era arrivato ai pantaloni quando una mano di lei lo bloccò.

“Aspetta!” aveva la voce roca, il petto sudato che si alzava ed abbassava freneticamente. “Per me... è la prima volta.”

Il sangue di Kiba si surriscaldò nel sentirle dire quella frase, percependo il gonfiore dentro i pantaloni diventare un'eccitazione pulsante e dolorosa. La guardò negli occhi, sentendo il desiderio di farla propria, di poter diventare una cosa sola con lei. Un impulso così potente ed irrefrenabile come non l'aveva mai percepito, neanche nei suoi sogni più nascosti con Hinata.

“Anche per me.” si limitò a sussurrare, riprendendo a baciarla con trasporto. Non era una bugia, non nel vero senso della parola. Aveva fatto sesso in passato, e molte volte, ma non aveva mai sentito un'empatia così travolgente come quella che stava provando con Tamaki. Per la prima volta nella sua vita, Kiba stava per scoprire cosa significasse fare l'amore: un insieme di azioni e sensazioni infinitamente più potenti del puro e semplice sesso.

Gli ultimi abiti scivolarono a terra, permettendo ai loro corpi nudi di avvinghiarsi liberamente. Le mani dell'Inuzuka assaporarono pienamente quel corpo, così diverso da quello che aveva popolato i suoi sogni più oscuri e tormentati. Le gambe non erano lisce ma ricoperte da piccole cicatrici, risultato di una vita aspra e dura, impegnata a combattere fin dalla tenera età. Il sedere non era pieno e sodo, ma magro e nervoso, il seno era poco più di una prima, dove svettavano due capezzoli chiari e pronunciati, duri come chiodi, sui quali si attaccarono, famelici, i suoi denti, aumentando vertiginosamente l'eccitazione della kunoichi, anch'essa impegnata ad esplorare il corpo di lui. Percepì muscoli caldi e compatti, anche se non definiti, sotto gli innumerevoli segni della vita da ninja. Le sue dita, calde e curiose, gli artigliarono il sedere, spingendogli l'eccitazione verso la sua intimità più nascosta, ma lo shinobi la bloccò, osservando quegli splendidi occhi implorare piacere con un ringhio soddisfatto.

“Pazienza...” le ansimò all'orecchio, la voce ormai simile ad un vero e proprio latrato. “Devi avere pazienza...”

Scese lentamente con la lingua, accarezzando quel corpo pulsante ed avido di piacere, desiderando spasmodicamente conoscere ogni singolo segreto di esso. Quando arrivò in mezzo alle sue gambe, il suo olfatto sviluppato venne sommerso dall'odore acre dell'eccitazione di lei, facendogli perdere anche l'ultimo barlume di lucidità.

Ci si immerse con sadica lentezza, assaporando con la lingua ogni centimetro della parte più intima e segreta di ogni donna, mentre le sue dita esperte regalavano sussulti di piacere alla ragazza. Tamaki inarcò la schiena, emettendo dalla gola versi simili alle fusa di un gatto, mentre le sue gambe bloccavano la testa dell'amante, schiacciandogli la faccia contro il bacino. Il suo corpo si ricoprì di acre sudore, iniziando a tremare impercettibilmente. Fino a quando, con un verso simile a quello di una gatta soddisfatta, Tamaki venne, permettendo al ninja di assaporare il succo del suo piacere.

Lentamente, Kiba risalì il corpo ansimante della kunoichi, fissandola dritta negli occhi. Ci vide gioia e stupore per le sensazioni appena provate, oltre ad uno spasmodico desiderio di provarne ancora. Avvicinò la propria eccitazione all'intimità di lei, sfiorandola, percependola più bollente e famelica di prima.

“Non esitare.” sussurrò la ragazza, graffiandogli la schiena per gioco, proprio come un gatto. “Rovinerebbe tutto.”

Lui inarcò il labbro superiore, mostrandole i denti, accettando implicitamente quella sfida.

Entrò. In modo secco, diretto, senza pause, lacerandole l'imene senza alcuna esitazione.

Le unghie di lei gli si conficcarono nelle scapole, sibilando, irritata dal bruciore che percepiva. Senza indugiare oltre, Kiba iniziò a muoversi in modo lento, metodico, preciso. Conosceva la propria resistenza, e sapeva quale fosse il ritmo più corretto per prolungare il piacere di entrambi. La kunoichi iniziò ad apprezzare rapidamente quel corpo estraneo, accompagnando il movimento con il proprio bacino, dando vita ad una danza erotica ed animalesca.

Nonostante l'inebriante piacere che alimentava la parte più primitiva di entrambi, sapevano che era solo un'illusione, una splendida, magnifica illusione. Tamaki non era una principessa destinata a governare un potente clan, Kiba non era il grande eroe di tutti gli shinobi, privo di difetti e dotato di poteri sovrumani. Eppure, tra quelle lenzuola, potevano essere tutto ciò che desideravano, perché era quello che volevano. Sognare, illudersi, vivere per una notte lontani dallo schema sociale che li aveva ridotti a sopravvivere, giorno dopo giorno, alla ricerca di qualcosa di così sfumato e contorto da essere difficile da comprendere appieno. Esistevano solo loro, il piacere e l'empatia che li univa. Tutto il resto non contava, non in quell'istante. Ed era qualcosa di bellissimo.

Amoreggiarono per tutta la notte. Tamaki sembrava instancabile nel suo desiderio di assaggiare il frutto proibito, di vivere sensazioni che per troppi anni aveva dovuto rimuovere dalla sua esistenza. Kiba la seguì senza farsi alcuna domanda, stanco di cercare scuse. Stava bene con lei, la desiderava e per una notte poteva bastargli.

Quando iniziarono a farlo per la terza volta, i loro movimenti, i loro versi, erano ormai solo puro e brutale istinto. La kunoichi incurvava la schiena come una splendida gatta, graffiando e mordendo per gioco il compagno di letto, ma scoprendo ben presto di trovare più divertente usare la lingua per stuzzicarlo, assaporando direttamente il piacere di lui in gola. Kiba prese a comportarsi come un grosso cane, tentando costantemente di stare sopra, ansimando e latrando, seguendola nei suoi giochi contorti con perplessità, incapace di comprendere quale fosse il suo vero scopo.

La loro danza amorosa raggiunse il proprio picco alla fine del terzo amplesso, quando lei prese a cavalcarlo, piantandogli le unghie sul petto quale monito a restare sotto. L'Inuzuka sbuffò, contrariato a lasciarsi comandare, ma troppo stanco ormai per controbattere. Si limitò ad afferrare i glutei nervosi e contratti di lei, aiutandola a mantenere un ritmo costante, fino a quando, a distanza di un paio di minuti l'una dall'altro, non raggiunsero l'ultimo, devastante, orgasmo.

Assurdo... Kiba ricominciò solo allora a riprendere un minino di lucidità, osservando la ragazza accasciarsi sopra di lui, emettendo mugugni di soddisfazione simili a fusa. Mai vista una vergine così scatenata!

Rimasero parecchi minuti in silenzio, ognuno impegnato a riprendere in mano la propria mente. Era come se si fossero lasciati per alcune ore tutto fuori da quella stanza, ed ora, una volta che il fuoco della passione si era assopito, fossero costretti a recuperare ogni cosa, un pezzo alla volta.

“Ci sono riuscita?” sussurrò improvvisamente Tamaki, alzando il viso, cercando gli occhi di lui. “Sei riuscito a spezzare le tue catene?”

L'Inuzuka fece un profondo respiro, iniziando ad accarezzarle i capelli. Era stato magnifico, e probabilmente non serviva dirlo a voce affinché lei lo capisse, ma quegli occhi esigevano una risposta, e Kiba iniziò a capire che non sarebbe mai riuscito a negarle qualcosa.

“Sì...” rispose infine. “Ma mi domando se ci sarà qualcosa anche dopo che la notte avrà fine.”

Lei non rispose subito, appoggiando nuovamente la testa sul suo corpo.

“Io sono una guardiana di Soraku, tu uno shinobi di Konoha.” mormorò infine. “Non esiste niente là fuori per noi.”

Il moro chiuse per un istante gli occhi. Si aspettava quella risposta, ma gli fece comunque male.

“Vuoi davvero rimanere a vivere in questo posto per sempre?” sussurrò. “A difendere ciò che non può essere salvato?”

“Chi sono io per dirlo?” fu la replica della ragazza. “Come posso abbandonare ciò per cui i miei antenati hanno dato la vita?”

“Tu non sei loro.” il ninja le alzò il viso, fissandola dritta negli occhi. “Quello è stato il loro giuramento, non il tuo! Non sei costretta a farlo, e tu lo sai.”

Tamaki non rispose. Si limitò ad alzarsi, iniziando a rivestirsi con gesti lenti, sistemandosi i capelli scompigliati.

“Perché non mi rispondi?” anche Kiba si alzò, bloccandola. “Ieri sera mi hai detto che odi questa situazione, e che desideri cambiarla. Perché non lo fai? Possiamo farlo assieme, se è questo che ti spaventa, ma non puoi liquidare tutto ora, non dopo quello che...”

“Abbiamo fatto sesso, Kiba.” fu la secca replica di lei. “Del magnifico sesso, e ti sono grata per aver condiviso questi istanti con me, ma tu hai la tua strada ed io la mia. Tentare di unirle sarebbe solo una follia.”

“Perché? Cosa ci sarebbe di così scandaloso se ti lasciassi alle spalle questo posto? Cosa ti lega a un cumulo di macerie abitate dalla peggior feccia del paese?”

“Che questa città è intrisa del sangue della mia gente, Kiba!” la ragazza reagì con stizza, liberandosi della presa di lui. “Sangue che è stato versato per un giuramento! Come potrei considerarmi una persona degna di questo nome se lo infrangessi? Come potrei vivere sapendo che ho voltato le spalle a tutto ciò per cui i miei genitori, mia nonna e tutti i miei consanguinei hanno dato la vita?” si avvicinò al moro, squadrandolo con durezza. “Come ti sentiresti ad abbandonare quel coprifronte? Se ripudiassi tutto ciò in cui credi? Saresti davvero capace di vivere in pace con te stesso?”

L'Inuzuka non rispose, abbassando lo sguardo. Nel vederlo fare ciò, Tamaki contrasse la bocca, quasi avesse mangiato qualcosa di estremamente amaro.

“Mi aspettavo questa risposta.” gli accarezzò il volto con dolcezza. “Ti ringrazio per tutto, dico davvero.” si voltò di scatto, iniziando ad uscire dalla stanza. “Ma non puoi salvarmi da questo fardello.”

Kiba chiuse gli occhi, conficcandosi le unghie nei palmi delle mani. Era vero, era tutto schifosamente vero. Lui non era Naruto, non poteva cambiare il destino degli altri. Come poteva sperare di salvare qualcuno se non era neanche capace di salvare se stesso dalla mediocrità in cui era caduto? Si morse un labbro, assaporando l'amaro sangue, chiedendosi se fosse veramente incapace di poter raddrizzare il proprio destino, e la deriva che esso aveva preso.

“E se ti liberassi di quel giuramento?” le parole gli uscirono di getto, quasi d'istinto, come se una parte di lui si fosse rifiutata di far uscire Tamaki dalla sua vita.

“Come?” quest'ultima si voltò a fissarlo, sinceramente perplessa da quella frase. Era come se ciò che avesse davanti agli occhi fosse qualcosa di profondamente sbagliato, non catalogabile. Non era possibile che Kiba avesse proposto una cosa simile, perché agire in quel modo non lo riguardava, non apparteneva al suo modo di vivere ed operare nel mondo. Apparteneva a qualcun altro.

Qualcuno destinato ad essere Hokage.

“Hai detto che la tua famiglia ha giurato di proteggere questa città in nome di un potente clan.” continuò il moro, ancora non del tutto sicuro di sapere cosa stesse dicendo. “Se non vuoi più che la tua vita sia decisa da qualcosa promesso da gente morta secoli fa, allora tutto quello che dobbiamo fare e trovare i membri di questo clan, e chiedergli di sciogliere il giuramento.”

“Sono morti, Kiba.” fu il laconico commento di lei. “Non esiste più nessuno con porti quel nome ormai.”

Stranamente, sul volto dello shinobi nacque un sorriso nell'udire quella risposta.

“Hai detto che questo clan venne a vivere a Konoha quando quest'ultima fu fondata. Che io sappia, esiste un solo clan di Konoha che è stato sterminato: gli Uchiha.” fu con soddisfazione che notò una tenue sorpresa sul viso della ragazza. “Ed esiste ancora un membro vivo di quel clan: Sasuke Uchiha.”

Nella stanza cadde un silenzio tombale. Tamaki abbassò lo sguardo, la mente rosa dal dubbio che l'Inuzuka le aveva messo in testa. Poteva davvero liberarsi per sempre di quel fardello? Di quel passato tragico che da troppo tempo le pesava nell'animo come un macigno? Non lo sapeva, ma una parte di lei lo desiderava così tanto che non osava sperare di poterlo davvero fare.

“Nessuno sa dove si trovi Sasuke Uchiha.” provò a replicare, ma la voce la tradì, dimostrando un disperato desiderio di credere nelle parole del moro.

“Ti aiuterò a trovarlo.” nonostante fosse ancora nudo, Kiba si fece avanti, afferrando la mano di lei. “Dovessimo impiegarci anni, noi lo troveremo... è una promessa.”

“Non avevi una missione di livello S da compiere?”

“Era una bugia.” fu con naturalezza che lo ammise. Era strano, ma con lei non si vergognava ad ammettere le proprie debolezze. Sapeva che la kunoichi l'avrebbe compreso, ed era semplicemente magnifico sapere che esisteva al mondo una persona con cui condividere una simile empatia. “L'ho fatto perché non volevo mostrarti chi ero veramente.”

“E perché ora l'hai fatto? Cosa è cambiato?”

Le labbra del ragazzo si dispiegarono in un sorriso.

“Lo sapevi già.”

Rimase colpita da quella risposta. Era vero, aveva capito molto prima di finirci a letto assieme che persona realmente fosse Kiba Inuzuka, ed era per quello che si era confidata con lui: sapeva che poteva capirla, e quella proposta, folle ed incosciente al tempo stesso, ne era la prova.

Kiba... provò un'improvvisa riconoscenza nei confronti di quel ragazzo, capace di confidarsi con lei, di capirla, appoggiarla, farle di nuovo conoscere il significato della parola 'compagnia'. E lui le stava proponendo di iniziare una ricerca al limite dell'impossibile, solo per renderla di nuovo libera di scegliere da sola il proprio destino.

Dolce stupido Kiba... chiuse gli occhi, un leggero sorriso sulle labbra, mentre assaporava il contatto della sua mano.

Forse, in cuor suo, aveva deciso molti giorni prima la risposta che infine fu pronta a rivelargli.

 

 

Tre giorni dopo

 

 

Kiba si riparò dai raggi del sole, assaporando con un profondo respiro la frizzante aria mattutina. Osservò alle sue spalle le ultime propaggini di Soraku con un sorriso strano sulle labbra. In quel posto aveva imparato molto su se stesso, oltre ad incontrare una persona semplicemente incredibile. Nonostante la cupezza dei grattacieli in rovina, le strade infangate e gli abitanti corrotti, Soraku avrebbe avuto sempre un posto speciale nel suo cuore.

“Ripensamenti?” percepì al suo fianco la voce dolce di Tamaki, la quale gli strinse la mano. Si voltò a fissarla negli occhi, notando ancora una volta la bellezza particolare di quel viso. Dopo quello che era accaduto, Hinata era solo un ricordo lontano. Avrebbe occupato comunque un posto speciale nella sua vita, ma solo come amica.

“Nessuno!” iniziarono ad incamminarsi, lasciandosi la città dietro di loro. “Mi domandavo solo se Momo non soffrirà la tua mancanza.”

“Oh, lui non è solo.” rispose la kunoichi, beandosi anche lei dei freddi fasci di luce invernali. “Possiedo altri gatti come lui: ci sono Kibito, Lula, Sakuro, Tekko...”

“Scusa una domanda, ma tu... quanti gatti hai di preciso?” la interruppe l'Inuzuka, iniziando a sudare freddo.

“Quindici gatti e ventidue gatte.” fu la risposta di lei, scoppiando a ridere quando vide l'espressione sconvolta di lui. “E ci sono anche tre cuccioli. Quindi in totale possiedo quaranta gatti.”

Kiba non replicò, limitandosi a sospirare, guadagnandosi una scherzosa pacca consolatoria da parte di Tamaki. Non sapeva se trovare l'idea di condividere una futura casa con quaranta gatti simili a Momo divertente o raccapricciante, ma poi immaginò l'espressione che avrebbe fatto Akamaru nel scoprirlo e non ci fu niente da fare: scoppiò semplicemente a ridere, subito imitato dalla kunoichi.

Forse era quello che provava Naruto ogni volta che si imbarcava in qualche pazzia. Kiba si sentiva semplicemente sicuro della sua scelta, convinto che, fino a quando avesse avuto al suo fianco Tamaki, tutto sarebbe stato possibile, anche rintracciare Sasuke per regalare loro un futuro assieme e, forse, riconciliarsi con la sua famiglia.

Perdonami Akamaru... si voltò a fissarla di nuovo, ormai totalmente dipendente dal sorriso di lei. Ritarderò un po'... ho una missione da compiere.

Una missione da Hokage.

 

 

 

  
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