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Autore: arangirl    26/04/2017    3 recensioni
Fan fiction partecipante al contest History!AU del gruppo CLEXA/ELYCIA/LEXARK Gruppo di SUPPORTO italiano
Pur di ricevere un'istruzione e diventare guaritrice, Clarke ha rinunciato al suo titolo nobiliare ed è entrata in convento, prendendo i voti. Pensava di essere pronta ad iniziare una nuova vita, ma nulla avrebbe potuto prepararla ad essere rapita dai vichinghi, pronti a tutto pur di salvare il loro Jarl, gravemente ferito. Catapultata in una cultura completamente diversa dalla sua, divisa tra curiosità e timore, Clarke si troverà presto affascinata da questo misterioso popolo e dal loro altrettanto misterioso Comandante.
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Clarke Griffin, Lexa, Octavia Blake, Raven Reyes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Clarke aveva appena finito il suo giro di visite serale, ormai un’abitudine che si portava appresso da quasi un mese, da quando gli abitanti del villaggio si erano resi conto che di lei ci si poteva fidare nonostante fosse una straniera. Alcuni degli anziani del villaggio la facevano chiamare più spesso, oppure gli agricoltori arrivavano con qualche ferita dovuta al loro lavoro che, fortunatamente, con l’inverno sembrava meno pesante. Oppure arrivavano uomini che si erano azzuffati tra loro, sorreggendo i loro compagni di lotta fino alla sua porta, e lei curava tutti con metodica precisione, richiamando le conoscenze che aveva imparato dai libri del monastero, facendo nuove esperienze che mai avrebbe potuto fare nel suo piccolo convento.


 
 
Si sedette stancamente vicino al fuoco dopo aver sistemato l’ultima delle sue pomate, riorganizzando mentalmente la lista di erbe che avrebbe dovuto cercare l’indomani. Alcune delle piante erano diverse da quelle della sua terra, ma con l’aiuto di Lexa era riuscita a conoscerle meglio, a imparare a usarle come sostituite delle sue vecchie erbe officinali.
 
 


Si trovava nel villaggio dei vichinghi da quasi due mesi ormai, e, nonostante le prime settimane piene di difficoltà, il tempo sembrava essere volato. Andava da Lexa ogni volta che gli impegni dello Jarl glielo permettevano, imparando nuovi vocaboli e frasi della loro lingua che le era sempre meno sconosciuta. La compagnia di Lexa le era diventata sempre più piacevole, mentre le giornate si accorciavano e l’inverno si abbatteva con tutte le sue forza su di loro, Clarke aveva trovato rifugio nel timido sorriso di Lexa, nei suoi modi gentili, nelle sue parole confortanti.
 
 


Aveva quasi dimenticato il timore che lei e Anya le avevano instillato dentro nei primi giorni in cui le aveva conosciute, il senso di pericolo che Lexa emanava dopo la battaglia, la corazza sporca del sangue dei suoi nemici. La neve sembrava aveva coperto ogni cosa, raffreddando persino gli animi dei temibili guerrieri vichinghi, portando un senso di pace che aveva avvolto anche lei.
 
 


Ancora profondamente immersa in quei pensieri, quasi non si accorse del rumore della sua porta che si spalancava, almeno finché non vide Raven davanti a lei, il viso pieno di preoccupazione “Clarke, devi venire subito!”
 
 


Clarke si alzò in piedi, il senso di pace che stava contemplando poco prima completamente perduto “Che cosa succede?” Raven s’incamminò verso la porta e Clarke la seguì con la sua borsa, e la pelliccia di Lexa sulle spalle “E’ Octavia… è entrata in travaglio ma qualcosa è andato storto… sta sanguinando molto e il bambino non nasce.”
 


 
“Maledizione… perché non mi avete chiamato subito?”Clarke urlò mentre camminavano tra la neve verso la capanna di Lincoln e Octavia, il vento si era alzato e intorno a loro c’era solo il rumore della neve che turbinava nell’aria. Raven scosse la testa “Io gliel’avevo detto, ma Octavia non voleva! Sono riuscita a convincere Lincoln quando lei stava già male, spero non sia troppo tardi.”
 
 


Entrarono nella casa senza bussare, e Clarke fu sorpresa nel vedere Lexa, Anya e Lincoln vicino al fuoco, che si girarono nel vederle “Clarke… ti prego fai qualcosa.” Il volto di Lincoln era una maschera di dolore e preoccupazione, mentre dall’altra stanza si sentivano le grida di Octavia.
 
 


Clarke entrò nella camera, dove Octavia, pallida come la neve, si contorceva in preda al dolore sul letto pieno di sangue. Indra era accanto a lei e le stringeva la mano, lo sguardo preoccupato. Il volto di Octavia era madido di sudore quando lo alzò per vedere chi era appena entrato e, nonostante l’evidente sofferenza riuscì comunque a fare un’espressione disgustata nel vederla “Vattene, non ti voglio vicino al mio bambino!”
 
 


Indra la guardò senza sapere cosa fare, ma Clarke non aveva tempo per sciocchezze del genere. Si avvicinò a letto e spostò le lenzuola ormai intrise di sangue, e prese con forza il polso di Octavia “Ascoltami bene, so che mi odi e non puoi sopportare di vedermi, ma non permetterò a te e all’opinione che hai della mia gente di mettere in pericolo la tua vita e quella del tuo bambino. Adesso ti aiuterò, e se sarai ancora viva quando avremmo finito potrai odiarmi quanto vorrai; fino a quel momento stai zitta e ascoltami.”
 
 


Octavia sembrò sul punto di replicare, ma un’altra contrazione la fece tremare di dolore, e Indra prese la parola “E’ da quasi un’ora che sono iniziate le contrazioni, continua a spingere ma il bambino non esce, temo non sia nella posizione giusta.” Clarke sentì il sangue gelarsi al solo pensiero; aveva visto una cosa simile nel suo villaggio, poche settimane dopo essere entrata in convento, e la madre e il bambino erano morti entrambi senza che potessero fare nulla.
 
 


Clarke liberò l’addome di Octavia dalla veste sottile che indossava, cercando di sentire in che posizione si trovasse il bambino; la testa era troppo in alto, poteva sentirla chiaramente facendo una leggera pressione sull’addome gonfio della ragazza. Clarke rimase immobile per qualche secondo, la mente che correva veloce come il vento, cercando di escogitare un modo per salvare Octavia.
 


“Avete provato a farla camminare?” Indra annuì “E’ rimasta in piedi finché è riuscita, ha perso troppo sangue.” Clarke costatò che l’emorragia di Octavia era ancora in atto, e decise che doveva cercare di far diminuire almeno quella prima di fare qualsiasi altra cosa.
 
 


“Anya, Lexa, portatemi dei teli puliti e dell’acqua calda. Indra, prendi la boccetta più piccola che trovi nella mia borsa e fai un infuso con le erbe che ci sono dentro, Octavia ha bisogno di liquidi.” Tutti si misero in azione attorno a lei, mentre Clarke cercava di fermare l’emorragia tamponando con forza “Dobbiamo far girare il bambino.”
 
 


Indra era tornata con l’infuso, e mentre Octavia ne beveva qualche sorso con difficoltà Lexa arrivò accanto a lei con quello che le aveva chiesto “Pensi che si possa fare qualcosa?” La sua voce era ridotta ad un sussurro, e Clarke la guardò negli occhi, senza mentire “Non lo so. Se mi aveste chiamato prima magari… Adesso Octavia è debole, e non so se riuscirò a far girare il bambino.”
 
 


Lexa rimase il silenzio, lo sguardo pieno di angoscia “Farò il possibile Lexa, te lo prometto…” Clarke si alzò e andò a posizionarsi vicino all’addome di Octavia, cominciando a fare pressione sulla testa del bambino, cercando di spingerlo nella posizione esatta “Octavia, lo so che è difficile, ma devi cercare di non spingere.”
 
 


Octavia lanciò un gemito di dolore quando l’ennesima contrazione la colpì in pieno “Non ci riesco!” Clarke imprecò mentre le sue mani bagnate di sangue scivolavano sull’addome di Octavia senza sortire alcun effetto sul bambino. Clarke si fermò per un attimo, la fronte piena di sudore “Anya, Indra, aiutate Octavia a mettersi in piedi…” Lincoln entrò nella stanza, il volto pieno di disperazione “Ci penso io!”
 
 


Octavia si lamentò quando lui la alzò dal letto con facilità e la tenne in piedi mentre Clarke, aiutata dalla verticalità della posizione, cercava di far muover il bambino. “Clarke ti prego… salva Octavia…” La voce di Lincoln era rotta dal pianto, le lacrime che gli cadevano sul volto come le piccole gocce di sangue cadevano dal ventre di Octavia per finire a terra. Clarke alzò lo sguardo, incrociando i suoi occhi “Non m’importa del resto, ma non farla morire.”
 
 


Octavia lanciò un altro grido di disperazione e Clarke tornò a concentrarsi su quello che stava facendo, pensando al significato dietro le parole di Lincoln; se doveva scegliere, doveva salvare la vita ad Octavia piuttosto che al suo bambino non ancora nato, e Clarke sperò che non fosse ormai troppo tardi per tutti e due.
 
 


Il tempo sembrò dilatarsi all’infinito mentre lavorava sull’addome di Octavia, cercando di far muovere una creatura che sembrava testarda quanto la madre, i muscoli del braccio le dolevano, e non aveva idea per quanto ancora avrebbe potuto resistere. Con l’ennesima contrazione, Octavia spinse di nuovo nonostante le parole di Clarke e questa volta lei cercò di adeguarsi al suo movimento. Lasciò andare un urlo di gioia quando sentì finalmente la testa del bambino muoversi verso il basso, girandosi nella posizione giusta.
 
 


“Bene Octavia, adesso quando sentirai la prossima contrazione devi spingere più forte che puoi, d’accordo?” Era da molto che andavano avanti, e Clarke non era sicura che il bambino fosse ancora in vita, ma almeno Octavia non sarebbe morta per quello, sempre che l’emorragia si fosse fermata dopo il parto. Si preparò con uno dei teli a prendere il bambino, e quando Octavia spinse per l’ultima volta uscì senza fatica, cadendo tra le braccia di Clarke.
 
 


Il suo respirò si bloccò per un attimo mentre esaminava il piccolo corpicino immobile, tremendamente silenzioso per un neonato. Lincoln aveva posato di nuovo Octavia sul letto, e la ragazza la stava chiamando, chiedendole come stava il bambino, ma Clarke era troppo concentrata mentre cercava di sentire se il cuore del bambino stava ancora battendo.
 
 


Cominciò a massaggiarli delicatamente il petto, e dopo interminabili secondi di angoscia il neonato si mosse, gridando a pieni polmoni il suo primo pianto. Clarke emise un sospiro di sollievo che non si era resa conto di aver trattenuto, e tutto intorno a lei sembrò rianimarsi. Improvvisamente si rese conto del tremito che la pervadeva, dal calore soffocante della stanza, degli occhi di tutti puntati su di lei.
 
 


Alzò lo sguardo sugli occhi speranzosi di Octavia e sorrise mentre la piccola stanza si riempiva dei gemiti del neonato “E’ un maschietto.” Octavia sorrise tra le lacrime che già le avevano percorso il volto, e Lincoln la strinse forte a sé, piangendo a sua volta dalla gioia. Clarke si alzò e pulì delicatamente il neonato dagli strati di sangue e liquido amniotico che l’avevano circondato fino a quel momento prima di depositarlo al sicuro tra le braccia di Octavia, che iniziò ad allattarlo.
 
 


Privata del peso del piccolo fagottino che aveva tenuto stretto a sé fino a quel momento, Clarke si sentì vacillare, come se avesse perduto l’equilibrio; fece un passo all’indietro, e trovò le mani di Lexa, pronte a sorreggerla stringendosi delicatamente sui suoi fianchi “Sei stata magnifica Clarke”
 
 


“Sì… Clarke, io non so come ringraziarti.” Lincoln la guardava con lo sguardo pieno di gratitudine, e lei si limitò a sorridergli. “Allora, che nome diamo a questo bambino?” disse Anya sorridendo e Octavia e Lincoln si scambiarono uno sguardo d’intesa prima che la ragazza parlasse “Bellamy… vogliamo chiamarlo Bellamy.”
 
 


Indra annuì con un sorriso, e strinse la spalla di Clarke “Birra per tutti, sono diventata nonna!” Tutti fecero per andarsene, ma Clarke rimase al suo posto “Resterò qui ancora un po’. Voglio, controllare che l’emorragia di Octavia si fermi come dovrebbe, è sempre meglio essere prudenti.” Lexa annuì con un sorriso, e lasciò Clarke da sola con Octavia e il bambino, che si era calmato e stava poppando avidamente il latte della madre.
 
 


Il sangue aveva smesso di scorrere con la stessa forza di prima e, Clarke era speranzosa, si sarebbe fermato definitivamente entro poco tempo, quindi si limitò a sedersi e a osservare la madre e il figlio accanto a lei, sfinita oltre ogni immaginazione per lo sforzo e la tensione.
 
 


Quasi non si accorse che lo sguardo di Octavia si era spostato da suo figlio a lei, e fu sorpresa di non leggerci più alcuna traccia di astio “Ti ringrazio Clarke” la voce di Octavia era rauca per le grida di poco prima, ma Clarke riuscì a capirla benissimo. “Sono stata ingiusta con te, e mi dispiace… Pensavo che fossi come tutti gli altri inglesi. Ma tu… tu hai salvato il mio bambino, hai salvato me, nonostante il modo in cui ti ho trattata…” Octavia distolse lo sguardo, quasi imbarazzata da quella confessione “Da questo giorno in poi, proverò ad esserti amica, se tu lo vorrai.”
 
 


Clarke annuì, felice “Mi farebbe molto piacere Octavia. Anche se mi sarei accontentata di non dover essere vittima della tua spada.” Octavia sorrise nonostante l’evidente stanchezza dipinta in volto “Se ti avessi voluto uccidere Clarke, saresti già morta.”
 
 


Clarke rimase a guardarla finché sia lei che il bambino non si addormentarono, l’emorragia completamente finita, e pensò di tornare alla sua capanna. Ma il tepore del fuoco e la stanchezza del lavoro appena compiuto ebbero la meglio su di lei, e si lasciò scivolare nel sonno.
 
 
*
 
 

“Octavia, ti prego, basta!” Clarke cercò di rialzarsi da terra, ma le ginocchia le tremavano e non riusciva a rimettersi in piedi, complice anche la neve che le aveva bagnato ormai completamente i pantaloni. Octavia la guardò dall’alto al basso con espressione diverta, muovendo la spada a pochi centimetri dal suo volto “Come basta? Abbiamo appena iniziato… mi hai detto che volevi imparare a difenderti.”
 
 


Clarke aveva avuto la malsana idea di chiedere a Octavia, appena tornata alle sue normali attività qualche settimana dopo il parto, di aiutarla a imparare qualche mossa con la spada. Quello che non si era aspettata era stata l’improvvisa decisione di Octavia di trasformarla in una guerriera degna del Valhalla, allenandola senza sosta per giorni, lasciandole lividi ovunque e i muscoli doloranti. “Penso di sapermi difendere abbastanza adesso, non ho alcun desiderio di diventare una guerriera esperta come te.”
 
 


“Non avresti alcuna possibilità…” Octavia alzò gli occhi al cielo “Ma suppongo che per la tua legittima difesa quello che ti ho insegnato possa bastare…”
 
 


“Vorrei verificare.” La voce di Lexa le fece sobbalzare entrambe, nessuna delle due aveva sentito arrivare lo Jarl, e Lexa sorrise “Se non ti dispiace Octavia...” Lo sguardo di Octavia passò per un attimo da Lexa a Clarke, poi annuì “Ma certo mia signora. Dovevo andare a controllare Bellamy in ogni caso.”
 
 


Octavia salutò Clarke con un cenno del capo prima di andarsene, e lei si rimise in piedi, osservando Lexa con calcolata attenzione “E’ da quasi una settimana che non ti vedo”.Ormai parlavano quasi solamente nella loro lingua, e Clarke era felice di riuscire finalmente a capire quello che tutti le dicevano al villaggio. Certo, parlare era ancora difficile per lei, ma trovava ogni giorno più semplice dialogare in quella lingua che inizialmente le era sembrata così diversa dalla sua.
 
 


“Ti sono mancata?” La voce di Lexa suonava canzonatoria, e Clarke le sorrise “Abbiamo perso qualche lezione…” Lexa alzò le spalle “Mi dispiace, sono stata impegnata con i preparativi per Yule. Verranno qua persone da tutta la regione per le celebrazioni.”
 
 


“E’ come il nostro Natale…” “Natale?” Lexa incrociò le braccia, lo sguardo pieno di curiosità “E’ la celebrazione della nascita del figlio di Dio, Gesù Cristo.” Lexa annuì “E Gesù sarebbe il dio di cosa esattamente?” Clarke la guardò confusa “In che senso?”
 
 


“Thor è il figlio di Odino, ed è il dio dei fulmini, il signore delle tempeste… Gesù cosa controlla?” Clarke rise “Non funziona esattamente così per noi… C’è un unico Dio, che controlla tutto quello che ci circonda, quello che siamo. Gesù e Dio sono la stessa entità.”
 
 


Lexa la guardò ancora più confusa “Come fanno a essere la stessa persona se sono padre e figlio?” Clarke scosse la testa “Temo sia un argomento troppo complicato per una suora e uno Jarl vichingo.” “Quindi ti consideri ancora tale?” la voce di Lexa calò improvvisamente, tanto che Clarke fece fatica a sentirla, e la guardò senza aver compreso la sua domanda “Ti consideri ancora una suora Clarke?”
 
 


Quella domanda la lasciò spiazzata, incapace di rispondere immediatamente; certo, erano sempre più radi i momenti in cui si ritrovava a pregare, più per abitudine che per altro. Gli abiti da monaca con cui era arrivata nel villaggio a lungo dimenticati, così come le severe regole del convento. Eppure in cuor suo non aveva mai pensato che avrebbe potuto smettere di essere una suora, non fino a quel momento “Io… sì. Ho fatto un giuramento. Mi sembra che sia l’unica cosa che ancora mi lega alla mia vita.”
 
 


Lexa si limitò ad annuire, ma a Clarke non passò inosservata l’ombra di tristezza nel suo sguardo, come se avesse sperato in una risposta diversa, e Clarke fece per chiederle il perché di quella domanda, ma Lexa cambiò bruscamente discorso “Quindi come festeggiate il Natale?”
 
 


Clarke sorrise al pensiero delle festività che aveva passato nella sua casa, soprattutto quando suo padre era ancora vivo “C’erano grandi banchetti, e gente che suonava nella sala grande del palazzo fino all’alba dopo la messa di mezzanotte. Si bruciava un enorme ceppo di abete, il più grande che si trovava nella foresta e c’erano i regali, e i canti… era così bello. Quando sono entrata in convento però era tutta un’altra cosa, di solito ci limitavamo a pregare più intensamente del solito.”
 
 


“Credo che ti piacerà Yule allora. A noi vichinghi piace fare festa.” Clarke annuì, ricordando come al banchetto precedente che Lexa aveva organizzato al loro ritorno dall’Inghilterra, Anya avesse sfidato Gustus a una gara di lancio dell’ascia dopo parecchie pinte di birra, sfida di cui entrambi portavano ancora i segni dopo che Clarke gli aveva ricuciti.
 
 


Clarke, immersa nei suoi pensieri, non si accorse del modo in cui Lexa la stava fissando, i grandi occhi verdi puntati su di lei, pieni di un’emozione che Clarke non sapeva bene come collocare. Certo, erano mesi che osservava Lexa durante i loro incontri, e qualche volta di nascosto, quando Lexa non se ne accorgeva, ma in quel momento c’era qualcosa in lei che Clarke non riuscì a riconoscere. Era bella, bellissima, con i capelli intrecciati che le scivolavano sulle spalle, dello stesso color nocciola della foresta, tra i quali Clarke avrebbe tanto voluto passare le dita. Lo sguardo di Clarke cadde sulle sue labbra, rosse per il vento freddo che continuava a soffiare intorno a loro, e per un attimo si chiese come doveva essere sentirle sulle sue, come doveva essere baciare Lexa e sentirla vicina, lasciarsi andare nel verde dei suoi occhi e perdersi completamente in lei; Clarke era tentata e terrorizzata allo stesso tempo all’idea.
 
 

 

Cercò di bloccare quei pensieri prima di arrossire eccessivamente, prima di rendere evidente a Lexa e al mondo intero quello che stava pensando; certo, Lexa era stata sempre gentile con lei, ma nulla di più, e Clarke temeva che fosse solo un modo per ricambiarla per averle salvato la vita.
 
 


“Clarke… allora, vogliamo cominciare?” Lexa la guardò con un sorriso, e Clarke registrò solo in quel momento che l’altra ragazza aveva sguainato la spada, pronta a combattere. Clarke alzò la sua arma, lieta di poter finalmente pensare ad altro, e incrociò la lama con quella di Lexa.
 
 
*
 


Yule arrivò con una velocità sorprendente, insieme alle carovane di viaggiatori dai paesi più piccoli e dalla campagna intorno a loro, portando vitalità e gioia al villaggio nonostante l’inverno ancora rigido attorno a loro. Clarke scoprì suo malgrado che la lingua che ormai pensava di aver padroneggiato cambiava leggermente per ogni paese vichingo e Anya si divertiva a prenderla in giro ogni volta che cercava di conversare con qualcuno da fuori del villaggio.
 
 


Sembrava essersi sparsa la voce della miracolosa guaritrice di Polis, e nei giorni precedenti alla festa Clarke si ritrovò più indaffarata che mai. Raven aveva accettato con gioia di farle da assistente visto che era ancora a riposo e insieme, Clarke ne era convinta, formavano una coppia incredibile, salvo alcuni incidenti.
 
 


“Raven, hai detto tu al maniscalco che posso ricostruirli il dito che ha perso sei anni fa?” Raven alzò le spalle, fingendo indifferenza “Forse potrei aver esagerato un pochino le tue capacità mediche.” “Raven!” La ragazza rise “Clarke, Anya va in giro a dire che riesci a trasformare l’acqua in vino!” Clarke si portò le mani al volto, incredula “Lo sapevo che non dovevo raccontarvi la storia di Gesù…”
 
 


Lexa si faceva vedere di rado, impegnata più che mai nell’accoglienza degli altri capi delle tribù vicine e nei suoi doveri di Jarl, ma Clarke aveva avuto modo di osservarla nel suo ruolo, così rigida e composta rispetto alla Lexa che Clarke aveva conosciuto nei mesi passati a Polis. Non era riuscita a non ammirarla per il modo in cui riusciva sempre a mediare la situazione quando era necessario, o come allo stesso tempo era in grado di assumere il comando, con la glaciale compostezza di un vero comandante.
 
 


Finalmente arrivò la sera delle celebrazioni, e Clarke aveva appena finito di vestirsi con uno dei vestiti da festa che Octavia le aveva prestato, dicendole che non era il caso di presentarsi all’avvenimento più importante dell’anno con la veste sporca del sangue del suo ultimo paziente. S’incamminò con Octavia, Lincoln e il piccolo Bellamy verso il centro della piazza, dove una grande folla si era già assiepata per assistere alla cerimonia. Quando Clarke vide quello che aveva catturato l’attenzione di tutti restò come folgorata, la bocca spalancata, incapace di parlare: Lexa era al centro della folla, su un piccolo palco rialzato, completamente vestita di bianco.
 
 


Portava i capelli raccolti in un modo che Clarke non aveva mai visto, con trecce elaborate e poteva vedere intrecciate in essi quelle che dovevano essere foglie fatte di oro puro, che brillavano grazie al riflesso delle fiaccole attorno a loro. Accanto a Lexa c’era una grossa vacca, per nulla impaurita dalla folla attorno a lei, ignara del destino a cui stava andando incontro.
 
 


Lexa alzò le mani e ogni brusio intorno a lei si spense, tutti gli occhi rivolti a lei “Stanotte, siamo qui per pregare gli dei.” La voce di Lexa risuonò chiara e cristallina nella notte, forte come il rumore del tuono “Stanotte, siamo qui per onorare i nostri morti, che siedono nel Valhalla, accanto a nostro padre Odino.” “Odino!” La folla gridò come una sola voce attorno a lei, facendole venire la pelle d’oca; c’era qualcosa di magico, di oscuro in tutto questo, ma Clarke non riusciva a non provare un fascino misterioso per ciò a cui stava assistendo.
 


 
“Stanotte ringraziamo gli dei per le nostre vittorie, e gli preghiamo affinché ci aiutino nelle nostre nuove battaglie.” Clarke pensò a Nia, la cui ombra ancora occupava i pensieri di tutti “Stanotte celebriamo ciò che è stato e ciò che sarà, quello che finisce e quello che inizia. Ringraziamo gli dei per quello che ci hanno preso, e per quello che ci hanno donato.” A quelle parole gli occhi di Lexa trovarono i suoi, e il brivido che sentì Clarke non aveva nulla a che fare con il vento che soffiava leggero quella notte.
 
 


Anya arrivò dietro Lexa, portando una grossa spada lucente, depositandola nelle mani dello Jarl “Possa la nostra tavola essere sempre piena, possa la nostra terra rinascere grazie al sangue dei nostri nemici, possano le stelle guidarci alla conquista di nuovi regni, possa il vento sempre soffiare sulle nostre vele. Per Odino!”
 
 


“Odino!” la folla ruggì nuovamente, e Lexa calò la lama sulla gola della bestia davanti a lei, che si lacerò senza opporre resistenza davanti all’arma affilata.  Un fiotto di sangue rosso si riversò sulla veste bianca di Lexa e sul suo volto, e Clarke sentì il respiro fermarsi. Provò disgusto per un attimo, paura, ma allo stesso tempo le era impossibile distogliere lo sguardo dallo spettacolo che aveva di fronte.
 


 
Anya iniziò a raccogliere il sangue che sgorgava dalla bestia con una bacinella, per poi usarlo per bagnarsi a sua volta il volto, passandolo poi alla folla intorno a sé. Clarke vide Octavia e Lincoln fare lo stesso, bagnando persino il volto del piccolo Bellamy con qualche schizzo ancora caldo del sangue dell’animale. Lincoln passò la bacinella a Clarke, che la tenne tra le mani, percependo il calore che emanava. Vide il suo riflesso nel sangue, il volto distorto da continue piccole onde che scuotevano il liquido nella bacinella, l’odore metallico che le ricordava il suo lavoro. Esitò per un momento, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare; alzò lo sguardo, incrociando nuovamente gli occhi di Lexa, che la fissava intensamente.
 


 
Clarke sostenne il suo sguardo mentre, con mani tremanti, passò la bacinella all’uomo accanto a lei senza sporcarsi di sangue, per poi fuggire, sparire in mezzo alla folla, senza voltarsi indietro.
 
 
*
 

Clarke sentì la porta della sua casa aprirsi qualche ora più tardi, e nonostante desse le spalle al nuovo venuto, capì chi era prima ancora che aprisse bocca. “Clarke…” la voce di Lexa era un sussurro “La cerimonia è finita.” Clarke si girò, osservando Lexa, la figura immutata rispetto a quando l’aveva lasciata, il sangue ormai secco che ancora le macchiava il viso. Doveva essere corsa da lei non appena la cerimonia era finita, e Clarke provò una fitta al cuore al pensiero.
 
 


“Mi dispiace se quello che hai visto ti ha turbata… Io non pensavo…” Clarke scosse la testa, interrompendo il discorso di Lexa “Non lo so se mi ha turbata, non lo so cosa ho provato in quel momento… era semplicemente troppo.” Lo sguardo di Lexa si addolcì mentre si avvicinava a lei, ma Clarke fece un passo indietro “Dovrei temere tutto questo, dovrei provare paura, rinnegare queste cerimonie pagane, dovrei sentirmi oltraggiata e maledire te il tuo villaggio e io… io non ci riesco, e non so più cosa provo, non so più chi sono.” Le parole le uscirono dalle labbra come un fiume in piena, rivelando una verità che a lungo Clarke aveva nascosto anche a se stessa. Nonostante avesse imparato ad apprezzare i vichinghi e le loro tradizioni, lei era cresciuta come una cristiana, e c’era una parte della sua mente che rivedeva Satana in quei riti mistici, nel culto del sangue, nei sacrifici.
 
 


Lexa rimase in silenzio per un attimo, poi si avvicinò a lei, e questa volta Clarke non ebbe la forza di tirarsi indietro “Hai paura di me Clarke?” Clarke la guardò negli occhi e non riuscì più a mentirle “Tu mi terrorizzi, Lexa. E non per i motivi per cui dovresti, ma perché…” Prese un respiro profondo prima di completare la frase “Perché non riesco a capire cosa mi stai facendo.”
 
 


Lexa restò immobile per un momento prima di alzare la mano e accarezzarle il volto, avvicinandolo delicatamente al suo, dandole il tempo di tirarsi indietro, ma Clarke non riuscì a fermarsi, l’attrazione che provava per Lexa troppo forte per essere contrastata da un qualsiasi pensiero coerente.
 
 

Lexa le sfiorò le labbra con le sue, lasciando a lei il prossimo passo, e Clarke le circondò le spalle con le braccia, stringendosi a lei, non sopportando per un minuto di più di non averla vicina. Lexa la strinse a sua volta, le mani nei suoi capelli, e mentre il bacio si faceva più profondo i sensi di Clarke si mescolarono, mentre il profumo di Lexa, la morbidezza delle sue labbra, il sapore del sangue, diventavano una cosa sola, insieme al misto di emozioni che le turbinavano dentro.
 
 


Le mani di Lexa scesero a stringerle i fianchi, le dita affusolate che premevano sulla sua pelle con possessività, reclamandola come sua. E per un attimo Clarke si perse in quel bacio, non desiderando altro che essere sua veramente, completamente; la sua lingua sfiorò quella di Lexa e la donna emise un gemito soffocato che sembrò risvegliare in Clarke sensazioni che non aveva mai provato prima, un fuoco che non sapeva di avere dentro.
 
 


 
Era troppo per lei, troppo tutto insieme, e per un attimo si sentì soffocare. Si staccò da Lexa bruscamente, indietreggiando sotto lo sguardo preoccupato dell’altra, coprendosi il volto con le mani, sentendo gli occhi farsi lucidi, il respiro spezzato “Non posso Lexa… Io non posso.”
 
 


Sentiva troppo caos dentro di sé, troppa confusione, e il pensiero di aver quasi rotto anche l’ultimo giuramento fatto, l’ultimo barlume di ciò che era stata, la fece quasi crollare a pezzi. Lexa la guardò senza capire, con un’espressione distrutta in volto che spezzò il cuore di Clarke, ma rimase in disparte, senza avvicinarsi a lei “Clarke… io…”
 
 


Clarke la bloccò prima che potesse dire altro, e scosse la testa “No, ti prego. Non ci riesco, non posso… Lasciami sola.” Una parte di lei sperò che Lexa non lo facesse, che la prendesse nuovamente tra le braccia, che lottasse contro di lei, ma sapeva che Lexa era troppo rispettosa per fare una cosa del genere. La guardò per un’ultima volta, il volto spezzato dal rimorso, e poi uscì, lasciandola sola con i suoi demoni.








Note: Ciao a tutti! Aggiornamento super rapido perché Aprile sta per finire! Vi informo già che ho praticamente finito di scrivere la storia, quindi pubblicherò il prossimo capitolo venerdì e l'ultimo domenica per finire in tempo. Qualche precisazione sul capitolo, prima di tutto ho fatto qualche ricerca sulle gravidanze podaliche dell'epoca prima di scrivere la scena del parto ed è stato tipo l'orrore (ci sono strumenti da film horror, povere donne), in ogni caso quello che ho appurato è che la quasi totalità dei parti difficili finiva con la morte della madre o del bambino, se non quella di tutti e due e che il cesareo veniva praticato solo come gesto estremo per salvare il bambino se la madre era già morta. Quindi il fatto che Octavia e il bambino siano sopravvissuti è vagamente poco realistico, ma c'è già abbastanza dolore nella serie tv, non mi piace uccidere i personaggi, quindi per questa volta perdonatemi. Questo non vuol dire che non mi piaccia l'angst, e la scena finale era quella che aspettavo di scrivere da quando ho iniziato la storia! Spero che vi sia piaciuta e che soprattutto si capisca il dramma interiore di Clarke (aka tendo ad essere troppo introspettiva quando mi metto) come al solito fatemi sapere, apprezzo tantissimo tutti i vostri commenti e il supporto che mi date! Alla prossima!
  
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