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Autore: Adeia Di Elferas    30/04/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Passando per Cesena e Bertinoro, Giacomaccio da Venezia era arrivato fino alle porte di Castelnuovo, forte dei suoi ottocento stradiotti e dei soldati riminesi che Pandolfo Malatesta aveva ben pensato di offrire come pegno di fedeltà a Venezia.

Nel giro di mezza giornata, senza farsi impensierire dal vento gelido e dalle nuvole perlacee che andavano infestando il cielo, il comandante veneziano allestì il campo, preparato all'assedio della città.

Quando i suoi furono pronti a dar battaglia, però, mandò una staffetta con segni di pace verso la porta principale e questa venne fatta entrare e portata ai tre forlivesi che tenevano la rocca.

Battista Veggiani fu il primo a leggere il dispaccio di Giacomaccio, mentre Tonone Russi e Francesco Numai controllavano che il messaggero fosse saldamente tra le mani delle guardie.

“Questo è un affronto che non possiamo accettare.” disse l'uomo, porgendo poi la missiva anche agli altri due.

Numai lesse in fretta e poi scosse il capo, mormorando qualcosa in assenso alle parole di Veggiani.

Anche Russi passò in rassegna le frasi stentate del veneziano, e poi sbottò, guardando la staffetta con aria di sfida: “E perché mai dovremmo cedere la rocca e la città al senato di Venezia?”

Il messaggero, che avrebbe voluto essere in qualsiasi altro posto, non seppe rispondere e così i tre forlivesi ordinarono che venisse riportato fuori dalla città con un secco 'no' come risposta ai veneziani.

A quel primo diniego, Giacomaccio reagì con la calma di chi ha esperienza e chiese un incontro in terreno neutro con almeno uno dei tre uomini di fiducia della Tigre.

Veggiani, Russi e Numai dibatterono a lungo sul da farsi e alla fine fu Francesco a prendere in mano la situazione e accettò l'incontro.

Il forlivese e il veneziano restarono sul portone che dava verso la rocca, in modo da essere entrambi tutelati. Essendo tutti e due a tiro di fuoco nemico, era probabile, o almeno così speravano i due uomini, che nessuna delle due parti fosse tanto avventata da colpire.

“Dovete cedermi la città e la rocca, non per mio nome, ma per Venezia.” concluse Giacomaccio, dopo essersi scontrato per almeno mezz'ora con la testardaggine di Numai.

Il forlivese, difronte a quello sfoggio di autorevolezza, perse le staffe e, battendo un piede in terra, appoggiò con fare minaccioso la mano sull'elsa dello spadone che portava al fianco ed esclamò, abbastanza forte da farsi sentire tanto dai suoi, quanto, soprattutto, dagli uomini di Venezia: “La rocca la teniamo e vogliamo tenerla per Caterina Riario Sforza, che ce l'ha affidata!”

Temendo una pronta reazione di Giacomaccio, Francesco Numai mosse un piede all'indietro, pronto a voltarsi di scatto e scappare di nuovo al sicuro oltre le mura.

Il veneziano, invece, incrinò le labbra e, dopo un lungo minuto di silenzio, sospirò, rispondendo, a voce altrettanto alta: “Mi consulterò coi miei ufficiali e deciderò che farne di voi.”

Numai, tremando appena, mentre i suoi occhi si perdevano sul fiume di soldati che, accampati a poche centinaia di metri dal confine di Castelnuovo, portavano tanto lo stemma di Venezia quanto quello di Rimini, annuì e raggiunse il portone.

Una volta protetto a tergo dalle mura, corse nella rocca e disse, senza fiato, ma con concitazione, a Russi e Veggiani: “Correte a Forlì! Dite alla Contessa cosa sta succedendo! Chiedetele che dobbiamo fare!”

Senza perdere tempo a sindacare sul fatto che Numai avesse preso la decisione a nome di tutti, i due uomini si affrettarono immediatamente a raccattare dei mantelli pesanti, una borraccia e qualche soldo e poi si diressero alle stalle.

Presi due veloci cavalli da viaggio, Veggiani e Russi montarono in sella e uscirono dall'unico lato della città che i veneziani avevano lasciato relativamente libero.

 

Quando anche Achille Tiberti – rientrato solo il giorno prima da Faenza – raggiunse la rocca di Ravaldino, Caterina cominciò a ragionare sul da farsi.

Russi e Veggiani si erano sistemati sul divanetto più comodo, mentre la Contessa e Cesare Feo avevano preso le sedie. Luffo Numai, in ansia per il parente Francesco, si era rifiutato di prendere posto a sedere e così vagava come un'anima in pena, facendo la spola tra l'Oliva che stava accanto alla finestra e Tiberti, che, essendo appena arrivato da fuori, si era piazzato davanti al camino per scaldarsi un po'.

“Per tenere Castelnuovo a viva forza – stava dicendo la Tigre, facendo segno al castellano di prendere la mappa e sistemarla in terra, tra le sedie e il divano, in modo che tutti potessero vedere bene – dovremmo impegnare tutti i vostri uomini, Tiberti, e accettare anche un centinaio di fanti che ci manderebbe Faenza.”

“Giacomaccio non ha solo i suoi ottocento stradiotti e la manciata di riminesi che abbiamo visto, ne sono certo.” intervenne Russi, scuotendo il capo: “Venezia non lo lascerà solo con quei soldati, se noi opporremo resistenza.”

Caterina si alzò e cominciò a misurare a brevi passi il perimetro della mappa stesa in terra: “Sì, lo credo anche io. Ma non possiamo certo impiegare tutte le reclute. Potremmo anche sostenere la spesa, ma molti dei nuovi non sanno ancora tenere in mano uno stiletto, figuriamoci battersi contro degli stradiotti. Sarebbe un massacro inutile.”

Russi allargò le braccia, in segno di tacito assenso, mentre Veggiani si puntellava sul bordo del divano e provava a dire: “In tutta coscienza, mia signora... Ci serve davvero Castelnuovo? Coi saccheggi subiti, ne resta solo lo scheletro... Sarebbe solo una spesa, a lungo andare.”

La Contessa lanciò un'occhiata all'Oliva, che lasciò intendere di essere d'accordo con il soldato, poi scrutò anche il viso di Tiberti, che però era troppo intento a fissare la cartina per accorgersene.

Luffo Numai continuava a sospirare e non pareva molto utile ai fini decisionali. Probabilmente, se avesse aperto bocca, l'avrebbe fatto solo per pregare la sua signora di richiamare a Forlì Francesco.

Gli uomini nella stanza erano in attesa di una decisione della Tigre e la donna sentiva il peso di quella fiducia quasi cieca come una croce sulle sue spalle. Da un lato era fiera di essere ritenuta una guida da seguire, ma dall'altro avrebbe voluto lei stessa qualcuno che le desse degli ordini chiari e semplici.

Comandare, avere potere e avere qualcuno pronto a fare tutto ciò che avrebbe deciso di fare in quel frangente le sembrava una condanna e non un'opportunità.

Lasciando perdere i propri tormenti interni, Caterina si costrinse a ragionare. Il silenzio si stava facendo assordante e così la Contessa si rimise in piedi e, dopo un ultimo sguardo alla mappa, espose il suo piano.

“Dobbiamo mandare subito un messo al Presidente Pontificio di Cesena – decretò – in modo da invitarlo a difenderci. Siamo pur sempre in territorio papale, Venezia non dovrebbe permettersi di invaderci.”

Tiberti strinse gli occhi e fece per replicare, ma Caterina proseguì, senza dargliene il tempo: “Che si convinca che non conviene a nessuno lasciare campo libero ai veneziani. Sappiamo tutti che vogliono espandersi in Romagna.”

“Non accetterà.” fece Veggiani, con tono abbattuto: “Dirà che Roma non ci guadagna nulla a toglierci di mezzo un nemico. Dirà che scacciando i veneziani, i pontifici altro non faranno se non favorire le vostre conquiste.”

“E allora gli diremo che, appena avrò ripreso saldamente Castelnuovo, scacciati i veneziani, ne farò dono al papa. Che lui ridia poi la città a chi gli pare. Tutto, pur di scrollarci di dosso Venezia.” fece subito la Tigre, incrociando le braccia sul petto.

L'Oliva stava già annuendo, ma Russi argomentò: “E gli diremo così? Che ci va bene tutto, purché ci salvino da Venezia?”

“Ovviamente no.” rispose Caterina, quasi perdendo la pazienza per il tono scettico dell'uomo: “Gli diremo che il dono della città è solo un modo per sdebitarsi della benevolenza che ha sempre avuto nei confronti del suo figlioccio, ovvero Ottaviano.”

Tutti i presenti colsero un'incrinatura sinistra nella voce della Contessa, quando disse il nome del figlio, ma riuscirono a fare finta di nulla.

“Presto – fece la Tigre, che ormai aveva preso la sua decisione – cercatemi l'uomo giusto da mandare a Cesena.” disse, rivolgendosi a Cesare Feo.

Questi fece un breve inchino e la seduta venne dichiarata sciolta.

Nell'uscire dalla saletta, però, Caterina si accostò a Tiberti e gli disse, all'orecchio: “Tenete pronti i vostri uomini. Non è detto che non ci sia bisogno di loro molto presto.”

 

Francesco Numai chiuse il messaggio con le mani che tremavano. Con mezzi fortunosi, un uomo della Sforza era riuscito a fargli recapitare quel resoconto con le ultime novità sulla linea da seguire lì a Castelnuovo.

Spiegava del tentativo di parlare al Monsignore di Cesena che, però, terrorizzato dai tafferugli in città, non aveva quasi voluto aprire la porta al messo forlivese, cedendo solo all'ultimo, perché minacciato di morte.

Aveva ascoltato la proposta della Tigre, ma aveva subito negato il suo appoggio e aveva assicurato che nessuno avrebbe detto di sì a una simile richiesta. Inoltre si era pure permesso di schernire il messo, dicendogli che se anche avessero chiesto al papa in persona, tempo di organizzare le truppe papaline e di metterle in marcia e i veneziani avrebbero fatto a pezzi Forlì, Imola, Faenza e tutti gli stolti che si fossero messi contro la Serenissima.

“Il veneziano chiede di voi.” annunciò una delle guardie.

Numai, rimasto unico castellano e Governatore di Castelnuovo, dopo che Russi e Veggiani erano andati a Forlì per parlamentare con la Contessa, aveva permesso a Giacomaccio un incontro alla rocca, purché arrivasse solo e disarmato.

L'uomo aveva accettato, dimostrando un grande coraggio, ma Francesco non sapeva che fare.

Avrebbe potuto approfittarne e ucciderlo, ma sarebbe stata la mossa giusta? O avrebbe solo scatenato di più le ire del Doge?

Con passo incerto, Numai arrivò fino al cortiletto anteriore dove l'attendeva il veneziano.

Quando furono così a breve distanza l'uno dall'altro per la seconda volta, il forlivese si sentì sopraffatto dalla possanza di Giacomaccio e fece molta fatica a non lasciar trasparire la sua paura.

Anche se disarmato, l'uomo del Doge avrebbe potuto ucciderlo in un lampo a mani nude.

“Se non mi dai la rocca ora – cominciò Giacomaccio, saltando a piè pari convenevoli e formule di rito – ti assalto e ti passo a filo di spada, anzi, vi passo tutti quanti a filo di spada e poi porto la tua testa a Venezia, così il mio signore potrà usarla come poggiapiedi, se gli aggrada.”

Francesco Numai si irrigidì, stringendo i pugni lungo i fianchi. Aveva le vertigini e per la prima volta nella sua vita si trovava di fronte alla consapevolezza di essere a un passo dalla morte.

Quando parlò, fu come sentire qualcun altro, come se la voce che usciva dalle sue labbra non gli appartenesse: “Non mi arrenderò mai in questo modo. Lo farei solo se me lo ordinasse espressamente la signora di Forlì.”

Giacomaccio puntò i suoi occhi fondi in quelli spauriti del forlivese e inarcò un sopracciglio: “Se sei contento tu, di dar retta a una sottana...” poi passò in rassegna l'interno del cortiletto: “Ti do tre giorni.”

Quella notte, dal cielo si riversarono le piogge che non erano cadute nei mesi precedenti e Giacomaccio da Venezia rivalutò la sua proposta. Là, tra i massi rocciosi e le scomodità, quelle sferzate d'acqua gelida avrebbero presto reso difficile tutto quanto. Così, all'alba, rimangiandosi la proposta fatta a Numai, diede l'assalto alla rocca.

Francesco, però, sconvolto quanto il nemico dal clima impietoso e sicuro che, se le piogge fossero continuate, nessuno sarebbe giunto a portargli viveri e soccorso, fece aprire il portone e cedette la rocca e la città senza sparare nemmeno un colpo di cannone.

“Chi può fare i capitoli – disse, davanti ai suoi soldati che lo fissavano attoniti – può eziandio disfarli.”

 

Isabella d'Aragona teneva stretta tra le braccia la sua ultima figlia. Ne osservava le ossa delicate e sottili, la pelle tanto bianca da sembrare trasparente.

La torre del castello di Pavia che le stava facendo da carcere a volte sembrava troppo stretta per lei e i suoi figli, mentre altre volte, come quel giorno, era anche troppo grossa.

La vedova di Gian Galeazzo Sforza indossava una camicia da notte. Non indossava mai altro, ormai. Portava i lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle esili e sul suo viso si erano formate rughe e solchi di preoccupazione che non se ne sarebbero andati mai più.

La sua bambina più piccola era fragile, come era stato il Duca suo padre, e non le permettevano di vedere un medico, perché il Duca Ludovico – o meglio, sua moglie Beatrice – non voleva.

Gli altri bambini stavano sonnecchiando nel letto della madre, alienati quanto lei dalla lunga reclusione. Magri, pallidi, stentati. Non quanto la loro sorella più piccola, ma di certo non erano neppure loro in salute.

Da dietro la porta si sentì il vociare delle guardie. Era l'ora del cambio. Quello era pressoché l'unico momento della giornata in cui Isabella sentiva altre voci che non fossero la sua o quelle dei figli.

“Il delfino del re di Francia?” stava dicendo uno dei soldati, quello che aveva finito il turno, probabilmente.

“Sì, ti dico. Ho sentito dire che il Duca gli ha mandato le sue condoglianze. Il bambino aveva solo tre anni, ma era lui l'erede di re Carlo...” rispondeva l'altro, con un accento un po' ibrido.

Isabella lo riconobbe. Era uno dei suoi carcerieri peggiori. Gli piaceva prenderla in giro, quando nessun altro sentiva, e guardava dalla grata della porta lei e le sue figlie – risparmiava da quelle occhiatacce solo il maschio – con due occhi che l'Aragona trovava agghiaccianti.

I due soldati si scambiarono qualche altra breve chiacchiera, e quando quello che aveva finito la sua veglia se ne andò, scalpicciando sul pavimento fino a raggiungere le scale, Isabella si preparò alla prevedibile dose di insulti del carceriere dalla strana pronuncia.

Appoggiò con delicatezza la sua figlia più piccola sul letto, e questa continuò a dormire, come i suoi fratelli. A vederli così assopiti e vinti uno accanto all'altro, a Isabella parevano già tutti morti.

Un colpo alla porta fece sollevare lo sguardo all'Aragona e dalle grate fece capolino il viso bluastro per la barba che stava ricrescendo della guardia che lei tanto odiava.

Duchessa...” fece l'uomo, per dileggiarla: “Che si dice oggi in questa cella di lusso?”

Isabella, come riusciva a fare quasi sempre, lo ignorò, mettendosi seduta vicino alla finestra, fingendo di guardare il cielo grigio con interesse.

“Non dici nulla?” insistette l'uomo, con un sorrisetto divertito: “Lo sai che potrei aprire questa porta e cancellarti dalla faccia quel broncio annoiato?”

La donna deglutì, oltraggiata da quelle parole, ma anche preoccupata che i suoi figli potessero svegliarsi e spaventarsi. Come se non fossero già abbastanza sconvolti così...

“Oppure potrei divertirmi un po' con la tua figlia più grande. Quanti anni ha? Un paio?” continuò l'uomo, ridendo sguaiatamente.

Isabella perseverò nel suo mutismo, senza mai guardarlo, ma quando sentì la chiave girare nella serratura e la porta cigolare, si girò verso la fonte del rumore appena in tempo per vedere il carceriere avvicinarsi al letto su cui stavano i suoi figli e allungare le mani tozze verso la bambina che stava nel mezzo.

“No! Ippolita no!” gridò Isabella e, trovando una forza che non credeva di avere ancora, saltò al collo dell'uomo.

La guardia, infastidita per quel contrattempo, continuò comunque a tentare di afferrare la bambina, che intanto si era svegliata ed era scoppiata a piangere, ma rinunciò quando Isabella usò le unghie, graffiando come un gatto arrabbiato. Cercò di levarsi di dosso la scheletrica donna, mentre l'ira lo rendeva cieco.

Tuttavia, quando riuscì a buttare in terra colei che si era creduta destinata a essere Duchessa di Milano, si ricordò degli ordini del Moro e seppe che non poteva fare nulla contro di lei. Doveva trattenersi, o sarebbe stato punito.

Sfogandosi in modo insoddisfacente con un unico calcio nella pancia e uno sputo, il soldato tornò alla porta, lasciandosi alle spalle quattro bambini pelle e ossa piangenti e una donna che si contorceva al suolo per il dolore.

Appena la serratura fu di nuovo chiusa a più mandate, Isabella riuscì a tornare a respirare e, tenendosi l'addome con una mano, si rimise in piedi e si pulì il viso dallo sputo con la manica della camicia da notte.

Con un misero slancio d'orgoglio residuo, si mise vicina alla grata e disse: “Verrai punito, lo sai, vero? Morirai in modo orribile. Quando mio padre...”

“Tuo padre è morto da quasi una settimana.” ribatté la guardia con sdegno: “Quell'imbecille di Alfonso di Napoli che si dava tante arie... Il Moro ha detto che è morto a Messina, in un salotto tra belle donne e vino, come un codardo... E tu che credevi che sarebbe venuto a salvarti... Ah, a proposito, visto che per qualche giorno non sarò di ronda alla tua cella, auguro un felice Natale a voi, Duchessa.”

Mentre il carceriere si metteva accanto alla porta, scosso da un'ultima risata di scherno, Isabella tirò a sé i figli scossi dal pianto, baciandoli uno per uno in fronte e si chiese se quello che il soldato aveva detto fosse vero.

Probabilmente sì.

 

La notizia della caduta di Castelnuovo era arrivata a Forlì la sera stessa, con una rapidità allarmante e tra le vie della città non si parlava d'altro.

Anche se la Contessa aveva subito dichiarato in modo ufficiale che la sconfitta era giunta perché i veneziani erano chiaramente superiori, i chiacchieroni avevano già cominciato a malignare non solo su Francesco Numai, ma anche su Veggiani e Russi, dicendo che erano stati 'corrotti con l'oro di San Marco'.

Caterina, per contro, aveva deciso di saltare la cena per non dover rispondere a eventuali domande della madre o dei figli, attanagliata dai dubbi sul da farsi.

Sapeva che per prima cosa avrebbe dovuto trovare il modo di ristabilire i suoi tre comandanti, perché presto il loro calo di popolarità avrebbe intaccato anche la sua immagine e non poteva permetterselo.

Aveva già indetto una riunione per il giorno dopo, poco le importava se era ormai la vigilia di Natale. Quell'anno, essendo in lutto, non ci sarebbero state feste, né alla rocca, né in città, e neppure a Imola.

Nel tentativo di passare la sera e poi la notte senza dover stare tra quattro mura a tormentarsi, la Contessa cominciò a vagare per la rocca fino a trovarsi davanti alla porta della cella di Ottaviano.

Salutò le due guardie che la presidiavano e chiese loro di allontanarsi un momento.

L'impulso improvviso di rivedere suo figlio, però, così come si era acceso di colpo nell'arrivare per caso in quel corridoio, altrettanto di colpo si spense. Non avrebbe sopportato di vederlo.

Di certo lo avrebbe trovato sporco, arruffato, con abiti rovinati e immerso in qualche delirio irreale, così come aveva trovato Girolamo quando era tornata da Milano, molti anni prima.

Appoggiò una mano aperta sulla porta e ascoltò. Non sentì nulla. Per quello che si evinceva dallo stare da quel lato del legno, Ottaviano poteva anche essere morto. E per molti versi, per lei lo era davvero.

Ritraendo la mano come se si fosse scottata, Caterina si asciugò una lacrima furtiva e attese un momento, abbastanza da ricacciare indietro tutte quelle che si stavano affacciando tra le sue ciglia.

Quando tornò padrona di sé, andò a richiamare la guardie e si risolse ad andare da Bernardi, l'unico uomo in Forlì di cui si fidasse ancora sinceramente.

Quando giunse alla barberia, il negozio era ancora aperto, ma, complici la pioggia scrosciante e l'ora tarda, c'era ancora un solo cliente.

“Vi spiace, un momento..?” fece il Novacula, con l'avventore.

Questi, un giovane sulla ventina, disse che non c'era problema e restò seduto al suo posto, guardando distrattamente oltre al vetro della porta la pioggia che batteva in terra con furia.

“Volevo scambiare solo due chiacchiere.” disse la Contessa, a voce bassa, quando Bernardi la raggiunse nell'angolino appartato in cui si era sistemata: “Ho bisogno di parlare a ruota libera con qualcuno...”

Il Novacula sorrise appena, ben immaginando che il discorso sarebbe stato incentrato sulla sconfitta appena subita, così disse: “Allora lasciatemi sbarbare quest'ultimo cliente e poi sono da voi.”

Mentre Andre diceva così e si passava il rasoio sullo straccio appeso al fianco, Caterina diede uno sguardo più attento al ragazzo che aspettava di essere rasato.

Aveva un bel profilo, un fisico asciutto e i capelli neri, corti. Tamburellava con due dita sul ginocchio e aveva un'espressione tranquilla che, più di tutto il resto, accese l'interesse della Tigre.

“Lo conoscete?” chiese, in un sussurro, indicando il giovane con un cenno del capo.

Il Novacula, stringendo un po' il morso, ammise: “Sì, lo conosco. È mio cliente da quando gli è spuntato il primo baffo.”

“Ed è sposato?” si informò Caterina in un soffio appena udibile, mentre il ragazzo si voltava verso di loro, forse per capire quanto avrebbe dovuto ancora aspettare, e le sorrideva un po' imbarazzato.

“Nemmeno promesso, se è questo che vi interessa davvero sapere.” rispose il barbiere, piccato.

La Contessa non badò al cambio di tono dell'uomo, ma proseguì la sua inchiesta: “Che tipo è?”

“Sa tenere la bocca chiusa.” fece il Novacula, senza girarci troppo attorno, tanto ormai aveva capito quello che la sua signora voleva.

“Chiedetegli con discrezione se passerebbe una notte alla rocca. E ditegli che lo scorterete voi, tra un paio d'ore.” disse in fretta la donna, mentre il giovane le scoccava un'altra occhiata interessata.

Bernardi annuì in modo secco e poi fece: “Ora, se non vi dispiace, devo lavorare...”

La Tigre capì l'antifona e si rimise in piedi, passandosi i palmi delle mani sull'abito un po' umido di pioggia: “Non giudicatemi.”

“Non mi permetterei mai.” sussurrò di rimando il barbiere, accompagnandola alla porta, anche se il suo sguardo, per la prima volta, diceva esattamente il contrario.

Quando, due ore dopo, il ragazzo che Caterina aveva scelto arrivò alla rocca, Bernardi non si presentò alla porta della stanza, come aveva fatto in passato.

La Contessa si ripromise di parlare con il suo amico storico in un altro momento e si concentrò sull'uomo che aveva davanti a sé. Adesso che lo vedeva bene da vicino, lo trovava ancora più interessante.

“Dunque le voci erano vere...” disse il giovane, con voce un po' roca, mentre la donna cominciava a svestirlo con impazienza.

“Quali voci?” domandò Caterina, pur immaginando quale sarebbe stata la risposta.

“Che la Tigre sceglie la sua preda e la porta nella sua tana...” rispose l'uomo, con un sorriso tanto accattivante da impedire alla Sforza di arrabbiarsi per quella sfacciataggine.

Quando il vestito della Contessa scivolò in terra, la donna prese il pugnale che teneva contro la coscia e lo appoggiò con fare suadente al collo dell'uomo, che per un momento apparve seriamente impaurito: “Azzardatevi a dire con qualcuno anche solo mezza parola su questa notte – mise in chiaro la Tigre – e vi faccio tagliare la lingua.” poi spostò la lama molto più in basso e aggiunse, con tono parecchio più minaccioso: “E magari anche qualcos'altro.”

Appena il giovane si fu ripreso da quell'attimo di tensione, annuì febbrilmente e da quel momento in poi la signora di Forlì fece di lui quel che voleva, prendendosi una piccola rivincita con se stessa, bilanciando, anche se solo in parte, la grande sconfitta subita dai suoi uomini a Castelnuovo.

 
   
 
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